martedì, maggio 23, 2006

Per non dimenticare D'Antona e Biagi


Ieri sera ho visto la prima puntata di "Attacco allo Stato", una miniserie (due sole puntate)sugli omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi, la casuale cattura di Nadia Desdemona Lioci dopo la sparatoria in cui rimasero uccisi l'altro brigatista Galesi e il sovrintentente polfer Petri, lo smantellamento delle nuove BR.
Ricordo il senso d'incredulità e sbigottimento alla notizia dell'omicidio di D'Antona e alla lettura del relativo "volantino" di rivendicazione: le BR sembravano appartenere ormai all'archeologia di una stagione di sangue, tra il 1970 e i primi anni '80, rimandando ad immagini sbiadite in bianco e nero di vecchi TG, ai titoli di pagine ingiallite di giornali, ad un clima di scontro sociale e politico ormai superato dalla globalizzazione.
E invece, sia pure con mezzi e militanti assai più ridotti, le BR erano "risorte" conservando l'armamentario ideologico allucinato del passato.
Svuotate le fabbriche di "quadri" operai in relazione all'avvento di processi produttivi all'insegna dell'automazione e alla delocalizzazione, le nuove BR si proponevano di parlare a nuovi interlocutori sociali, nell'area del lavoro precario e/o flessibile, dei centri sociali, dell'emigrazione, delle "nuove povertà".
Benché quel "progetto" sia stato sventato, è bene ricordarlo: se forse mai più i gruppi eversivi potranno avere la base di (relativa) massa che ebbero in passato, un'area di scontento sociale ci sarà sempre, e in quest'area di vecchie e nuove marginalità potranno sempre annidarsi i germi di azioni terroristiche o para-terroristiche (comprese le iniziative dei c.d. anarco-insurrezionalisti, con i loro pacchi-bomba); come pure non può escludersi che nel brodo di coltura di certi centri sociali allignino "alleanze" e "convergenze d'interesse" con gruppi terroristi islamici, nel comune cemento del risorgente antisemitismo (più o meno mascherato come critica allo stato d'Israele, che però è lo stato ebraico, e quindi parliamo della stessa cosa) e dell'imperituro antimperialismo anti-U.S.A.
Se rivado con la memoria al passato, ricordo ancora, alle prime azioni BR (il sequestro del sostituto procuratore Sossi, ad esempio, taluni "espropri proletari"...) il vivace dibattito interno alla sinistra giovanile di allora, il rifiuto di pensare che le BR potessero essere altro che "fascisti provocatori" da parte del P.C.I. e della F.G.C.I. o invece, da parte di taluni gruppi della sinistra extraparlamentare, la considerazione che si trattava di "compagni che sbagliano", cioé i cui obiettivi, e non anche i mezzi, erano in fondo condivisibili.
Scorrendo le biografie dei capi storici brigatisti, invece, si è visto che provenivano spesso dalle fila dei movimenti giovanili della sinistra "ortodossa", avevano matrice cattolica, coltivavano il mito della "Resistenza tradita", ossia della mancata insurrezione rivoluzionaria al termine della seconda guerra mondiale, organizzandosi in strutture che scimmiottavano quelle delle formazioni partigiane, e assegnandosi pseudonimi proprio come i partigiani.
I loro volti non erano estranei, come si è detto efficacemente, all'album di famiglia della sinistra italiana, anche se da quela famiglia erano poi usciti per entrare in clandestinità.
Certo rimane, e forse rimarrà sempre, oscuro il ruolo giocato nelle azioni più eclatanti (il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro) dai servizi segreti italiani, americani e sovietici, ed ancor oggi la lettura del libro di Flamigni "La tela del ragno" - Edizioni Kaos, appunto dedicato al sequestro Moro, lascia aperti molti inquietanti interrogativi.
Eppure, per tornare al bel sceneggiato (la seconda e ultima puntata stasera su canale 5), non era affatto casuale e sfuocato il senso di colpire due uomini come Massimo D'Antona e Marco Biagi, giuristi intenti, quali consiglieri di due diversi ministri del lavoro (il diessino Bassolino il primo, il leghista Maroni il secondo) alla stessa opera: costruire un "nuovo mercato del lavoro" in cui fossero coniugabili flessibilità e tutela dei diritti, nuove forme di lavoro e nuove garanzie giuridiche.
Se qualcosa manca nello sceneggiato è il clima in cui maturò soprattutto l'omicidio di Marco Biagi: non si può né si deve dimenticare le critiche, anche molto, troppo aspre, che alcuni settori del sindacato, della CGIL e della FIOM, mossero in quella stagione al giuslavorista bolognese, al suo "libro bianco", alla riforma che porta il suo nome (e che oggi settori della sinistra radicale parlamentare vorrebbero senz'altro eliminare con un tratto di penna). Il "cinese" Cofferati, prima di vestire i panni istituzionali di Sindaco di Bologna, e di intraprendere giuste battaglie per la "legalità" cittadina, polemizzò aspramente con Biagi e quei settori sindacali che non rifiutavano a priori le sue idee.
Sarebbe folle sostenere che quelle polemiche abbiano avuto un peso nella decisione delle nuove BR di uccidere Biagi; ma di certo non le dissuasero dal proposito criminale, e chissà alimentarono nella loro allucinata percezione della realtà l'idea che vi potesse essere un "consenso" ai loro obiettivi di lotta.
Voglio chiudere con un piccolo ricordo personale di Massimo D'Antona: nel dicembre 1983 quando sostenni l'orale del concorso per entrare in magistratura D'Antona era uno dei componenti della commissione di concorso; non aveva ancora i baffi, era molto giovane, molto gentile, e contribuì ad allentare la tensione con cui molti come me affrontavano quella difficile prova; sulla sua materia (Diritto del lavoro) ebbi 10.
Lo ritrovai qualche anno dopo, non so in quale convegno o occasione pubblica, e lo salutai ricordando quella prova orale.
Mi sorrise sotto i baffi.

sabato, maggio 20, 2006

La bestia nel cuore


"La bestia nel cuore" è un film bellissimo. L'ho visto ieri sera in pay per view su Sky. Ero tornato da Roma stanco e anche un po' depresso, per niente in particolare e per tutto in generale. Sapevo che era stato candidato all'Oscar per miglior film straniero. Ma il suo oscar lo aveva già vinto come successo di pubblico e critica. Sapevo che era tratto da un romanzo della stessa regista Cristina Comencini, e che il romanzo era andato a ruba. Sapevo che era uscito in contemporanea con "I giorni dell'abbandono" e che si era scatenata la solita guerra italiana "guelfi-ghibellini" tra i sostenitori della Margherita Buy, protagonista del film di Roberto Faenza, e quelli di Giovanna Mezzogiorno, intensissima interprete del film della Comencini.
Perché il film mi è piaciuto?
Secondo me un grande film, pur avendo un nucleo narrativo portante, deve essere capace di offrire una ricchezza di intrecci di storie, situazioni, sentimenti, vite come è normale nella vita di ogni giorno e di ciascuno.
La storia centrale è quella di due fratelli, Sabina e Daniele, figli di due austeri e all'apparenza grigi e inappuntabili insegnanti di scuola media superiore.
In una casa piccolo-borghese degli anni '60-'70, ingombra di mobili classici, solidi, comuni, con le porte di vetro smerigliato, si dipana l'esistenza di una famiglia "normale": il padre, severo, corregge i compiti nel suo studio, la madre, sbiadita e succube, li corregge in cucina.
La famiglia "normale" ha un "cuore di tenebra": dietro l'apparenza perbene della qualunque famiglia, così rassicurante nel quadretto classico (padre, madre, il maschietto più grande, la femminuccia), si nasconde il terribile segreto di un'infanzia violata, di un padre pedofilo che, finita la correzione dei compiti, percorre il corridoio e chiama il figlio, con voce lamentosa e quasi da bambino, per i suoi "giochi" malati; e dopo la ribellione del figlio, che la madre consapevole e accondiscendente cerca di rassicurare dicendogli "siamo una famiglia", approccia anche la piccola Sabina, solo due volte.
Troppo poco perché Sabina ne serbi un ricordo cosciente. Troppo perché non ne resti segnata nell'inconscio, dal quale l'incubo emergerà in forma di sogno dopo che essa avrà ripreso contatto con le foto dei genitori, di cui torna a occuparsi per la traslazione dei resti a distanza di anni dalla loro morte.
Emilia, l'amica cieca di Sabina, che vive rinchiusa in un appartamento con il suo cane, passando il tempo su un telaio e ascoltando musica, e che ama Sabina, e che ricorda quel ritratto di famiglia "normale" e "rassicurante", coglie il senso del rifiuto inconscio dell'amica di affrontare il dolore e l'angoscia quando le dice che lei cerca di mettere sempre una "distanza", un "distacco", dalle cose che la feriscono.
Maria, l'amica cinquantenne di Sabina, che la dirige nel suo lavoro di doppiatrice, non riesce a penetrare la superficie del mare oscuro che è la coscienza di Sabina, perché troppo presa a sopravvivere all'abbandono del marito, che si è messo con una amica della loro figlia, e che l'ha lasciata dicendole: "Vorrai mica che invecchi con te?".
Franco, il compagno di Sabina, attore di teatro duro e puro che alla fine si piega alle esigenze della quotidianità e accetta di recitare in un serial TV di ambiente medico, non sa andare oltre il piano consueto di un rapporto d'amore e convivenza.
Sabina decide allora di raggiungere il fratello Daniele in una piccola città degli U.S.A., dove egli insegna in quelle "incantevoli" realtà di campus universitari organizzati, ricchi di mezzi, libri, buoni rapporti sociali, case indipendenti con prato e giardino.
L'incontro sarà dirompente e decisivo: Sabina riuscirà a scuotere il rigido controllo in cui il fratello ha chiuso la sua sfera emotiva, sottoponendosi ad anni di analisi senza riuscire a liberarsi del tutto del trauma infantile, di cui rimane traccia nell'incapacità di abbracciare i propri figli nel terrore di ritrovare in quelle effusioni l'eco malata degli abbracci paterni, di ritrovare in sé le stigmate di una morbosità, di un "contagio" della depravazione.
Dal doloroso scavo nei ricordi infantili però i due fratelli porteranno alla luce non solo il grande affetto che li lega ma anche il senso di una famiglia che non hanno mai avuto: orfani e figli solo di se stessi, e per questo legati da un filo più profondo di quello "normale" tra fratelli, adulti senza infanzia eppure ancora bambini che l'infanzia dovranno viverla attraverso i loro figli.
Perché anche Sabina avrà un figlio da Franco, e lo chiamerà Daniele; e Daniele, nella scena finale, riuscirà finalmente ad abbracciare uno dei suoi due figli.
Il viaggio della vita quotidiana attraverso il dolore, la solitudine, la diversità.
La faticosa educazione alla vita e alla maturità.
Questo è il succo de "La bestia nel cuore", che a ben guardare non ha personaggi "minori", tra quelli femminili.
Non è una figura minore quella di Emilia, due volte diversa perché cieca e lesbica, che ama senza essere riamata Sabina e che trova la voglia di uscire dalla sua tana attraverso l'amore di Maria, donna concreta, pratica, forte ma ferita nel suo orgoglio, nelle sue certezze, dall'abbandono del marito per la solita sciaquina venti-trentenne; e Maria, a sua volta, nell'amore "diverso" di Emilia riscopre tenerezza, affetto, passione.
I personaggi maschili sono invece, salva la figura inquietante del padre di Sabina e Daniele, sfumati e sostanzialmente banali e stereotipati: Franco, il compagno di Sabina, che si ribella quando lei, in partenza per gli Stati Uniti, gli predice che la tradirà con la prima che "glielo fa rizzare", e in effetti si scopa una compagna di set; il regista del serial TV, che vagheggia un improbabile tenero film su due spazzini che ritrovano un bambino in un cassonetto e lo adottano.
Storia di dolore, solitudine, diversità, dicevo; e anche di speranza: le cicatrici, scrive Daniele a Sabina in una e-mail, restano ma bisogna imparare a vivere nonostante le cicatrici, lasciare che esse sbiadiscano, perdonarsi perché non si è colpevoli del male che si è ricevuto e di quello che non si è riusciti, nonostante tutti gli sforzi, a impedire.
Film bello anche nella tecnica, nei piani sequenza della casa dei genitori, abbandonata, coi mobili impolverati, tomba dei segreti inconfessabili della famiglia "normale", nella fotografia che vira su toni ora freddi ora caldi, nella recitazione intensa e così naturale di Giovanna Mezzogiorno (Sabina), Luigi Lo Cascio (Daniele), Stefania Rocca (Emilia), Angela Finocchiaro (Maria), nei simbolismi (la rottura delle acque di Sabina, in un vagone solitario nella campagna pugliese di una vacanza estiva, che nella sua mente è un fiume che travolge la casa famigliare e i suoi abitanti, spazzando via nel naufragio della famiglia quei legami inconfessabili e dolorosi).
Leggerò il romanzo.

domenica, maggio 14, 2006

BIANCONERI DEL BORGOROSSO


"Bianconeri del Borgorosso, rosso rosso rosso rosso, bianconeri del borgo rosso, rosso rosso football club"!
Ve lo ricordate l'inno intonato con orgoglio dall'indimenticabile Alberto Sordi, nei panni del Presidente del Borgorosso Football Club?
Sembra passato un secolo, ed era solo ieri o l'altro ieri. Le società di calcio non erano società quotate in borsa, i calciatori facevano lunghe trafile dalle serie inferiori, gli allenatori erano ruspanti come il mitico Oronzo Pugliese, con i suoi riti propiziatori (cui forse si ispirò Trappattoni ai mondiali nippo-coreani del 2002, senza fortuna, con l'acqua santa sparsa sul campo...), i giornali raccontavano con retoriche guerresche gli epici scontri della domenica pomeriggio (altro che anticipi e posticipi serali), il calcio era in bianco e nero come tutto il resto, ma non nel senso dell'egemonia juventina.
Tutto pulito a quei tempi? No, anche allora c'erano magagne, arbitri comprati e venduti, ma in maniera "casereccia", alla buona, senza metodo "scientifico", senza pianificazioni che magari coinvolgevano interi campionati e poi qualificazioni in coppa dei campioni (così si chiamava allora, prima che l'anglicismo imperversante e la formula a gironi eliminatori ne facessero un supercampionato europeo).
I Presidenti erano industrialotti che scoprivano il pianeta calcio mettendoci dentro quel tanto di mecenatismo che avevano e potevano, magari rovinandosi, come appunto il Presidente del Borgorosso, senza decreti "spalmadebiti" e salvataggi più o meno politici, senza "parametri" di ripescaggio, con la forza della proprietà dei cartellini dei giocatori, che erano veri "lavoratori dipendenti" e non "liberi professionisti" della pedata, senza sponsor unici, tecnici, senza nomi sulle maglie, senza dirette televisive e processi televisivi di compagnie di giro.
A quei tempi il calcio aveva il sapore e il colore di "Tutto il calcio minuto per minuto", già "90° minuto" era un'innovazione trascendentale, "La Domenica Sportiva", condotta da Enzo Tortora o da Tito Stagno un vero rito religioso per i fedeli di "Eupalla" (la immaginifica divinità della penna inimitabile di Gianni Brera), le moviole avevano immagini sgranate, da cui si vedeva abbastanza poco, gli arbitri erano i signori e padroni incontrastati del campo di gioco, e Concetto Lobello aveva l'autorità di un ministro.
L'arrivo delle dirette, dei digitali terrestri, spaziali, interplanetari, interstellari e intergalattici (gli unici "spazi" in cui l'Inter sia incontestabilmente prima!), le ricche sponsorizzazioni, il riparto della ricca torta dei diritti TV, la lievitazione incontrollata dei prezzi dei giocatori svincolati dalla sentenza "Bosman", e quindi dei loro ingaggi, e di conserva quella degli "onorari" dei loro procuratori, dei compensi degli allenatori, dei dirigenti-manager, di tutta la compagnia "contante" (forse solo i magazzinieri ne son restati fuori), hanno fatto del calcio un'industria: e siccome i profitti dipendono dai risultati e dai titoli vinti, è quasi naturale che in questa industria allignassero, come d'altra parte in tanti settori di questo Paese, pratiche "anticoncorrenziali" e "cartelli oligopolistici".
Che ha fatto, in fondo, Moggi di diverso da quanto hanno fatto e fanno i capitani d'industria, compresi quelli presuntamente "coraggiosi" celebrati ai tempi della privatizzazione della Telecom, i Consorte, i Fiorani, i "furbetti del quartierino" noti e quelli meno noti sfuggiti alle maglie della giustizia, i tanti che hanno beneficiato delle privatizzazioni sostituendo monopoli privati a monopoli pubblici (vedi caso Autostrade)?
Ha, ne più né meno, applicato, con gli adattamenti del caso, pratiche anticoncorrenziali, per consolidare un oligopolio pallonaro che generasse profitti.
Tanto più che l'azionista di riferimento della Juve si era man mano sfilato dalla gestione e disimpegnato finanziariamente (un po' come accaduto alla Fiat sino a appena due anni fa) e quindi si doveva "industriare" e "ingegnare".
Dopo di che, siccome anche Moggi "tiene famiglia", come poteva non pensare a "sistemare" il figlio?
Mi scoccia dar ragione a Mughini, ma è vero che troppe "vergini" presunte e dell'ultima ora si stracciano le vesti disperate e affrante, non avendo sino a ieri o all'altro ieri disdegnato l'alcova del "manovratore" o le sue blandizie, tessendone le lodi, contendendoselo per le sue capacità di novello Re Mida del mondo pallonaro.
Certo, è un po' triste (e se lo dice un interista c'è da credergli) vedere i tifosi juventini che nonostante tutto, oggi, hanno invaso Bari e il San Nicola, in un tripudio di sciarpe e cappellini bianconeri e bandiere tricolori, per festeggiare uno scudetto solo provvisoriamente assegnato, destinato con ogni probabilità a essere revocato, assieme al 28°, e fosse solo questo sarebbe niente perché a leggere i giornali la retrocessione è cosa abbastanza probabile, se non certa.
Vedendoli passare, nei pullman scortati dalla polizia, guardando in TV le immagini di piazza Castello a Torino, quei festeggiamenti un po' mesti ricordano i funerali di New Orleans, con le orchestre di diexiland che suonano motivetti allegri accompagnando le bare al cimitero.
Ma anche questi tifosi hanno poi diritto a tutta la comprensione del mondo? Non sono loro che, insaziabili, incontentabili, incontenibili, hanno spinto questo mondo pallonaro, inscenando manifestazioni di piazza per la cessione o il mancato acquisto di un campione, alimentando i processi televisivi e le compagnie di giro dell'avanspettacolo calcistico-giornalistico?
Fa un po' ridere, devo proprio dirlo, sentire che qualcuno, per cavalcarne la delusione, arrivi a prospettare richieste di risarcimenti alla Lega, alla FIGC, alla Juve, alla Triade, nel nome dei diritti del consumatore, quasi che ci sia un diritto a vincere gli scudetti, a non retrocedere, a qualificarsi per le coppe europee.
Se la rifondazione comincia così, c'è poco da sperare.

mercoledì, maggio 10, 2006

BUONA FORTUNA, "COMPAGNO" PRESIDENTE


Una voce insistita vuole che Giorgio Napolitano sia figlio naturale di Umberto II, e certo alla fortuna di questa leggenda metropolitana ha giovato la notevole somiglianza fisica tra il neopresidente della Repubblica e il c.d. "re di maggio": stessa stempiatura giovanile e alta, stessi tratti aristocratici, stesso fisico asciutto, verrebbe da dire anche stessa incontestabile "regalità" di posture, eleganza sobria, toni, timbri vocali.
Se non si trattasse soltanto di una leggenda metropolitana, verrebbe da pensare che l'ascesa al Colle di Giorgio "il migliorista" sia una di quelle curiose "vendette" che la Storia ogni tanto concede: Napolitano s'insedia nel palazzo del Quirinale esattamente sessant'anni dopo (giorno più giorno meno) in cui ne uscì Umberto II, salutando una piccola e affranta folla, per salire su un aereo che lo avrebbe portato nell'esilio portoghese di Cascais.
Al di là di stupidi e ingialliti "gossip", il giudizio sulla elezione di Giorgio Napolitano alla massima carica istituzionale della Repubblica si presenta complesso e articolato.
E' indiscutibile il profilo istituzionale della personalità politica: Napolitano, allievo di Giorgio Amendola, animatore dell'ala "migliorista", e cioé moderata (o di "destra") del vecchio P.C.I., "ministro degli Esteri" ombra del vecchio "Bottegone", è stato presidente della Camera e poi, soprattutto, Ministro dell'Interno, titolare cioé di un dicastero che sino allo sfaldamento del blocco comunista, tra il 1989 e il 1991, mai e poi mai la vecchia D.C. avrebbe ceduto ad altri: dai tempi lontani di Scelba troppo importante era il controllo di un Ministero che comanda Prefetti, Questori, Polizia di Stato e costituisce il vero nerbo della macchina amministrativa dello Stato.
Nel vecchio P.C.I., peraltro, l'influenza di Napolitano (e anche del suo maestro Amendola) era abbastanza modesta, come sul versante opposto dell'estrema sinistra quella di Pietro Ingrao (primo presidente comunista della Camera), per la larga egemonia del "centro" berlingueriano.
E d'altra parte per chi, come Napolitano, ha vissuto tutta intera la propria parabola politica nel P.C.I. dominato dalle figure di Palmiro Togliatti, Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, era una "missione impossibile" conquistare spazi di maggiore influenza nel partito.
Soltanto leaders carismatici come i tre citati (cui nei vecchi slogan del P.C.I. si aggingeva quale nume tutelare la figura di Antonio Gramsci: Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, a indicare una continuità più postulata che reale, soprattutto tra Gramsci e Togliatti) potevano tener assieme le anime di un grande partito di massa in cui convivevano aspirazioni di stampo più o meno socialdemocratico (come quelle "miglioriste", appunto) e ispirazioni "gauchiste" di alternativa di sinistra (come quelle ingraiane) dalle quali del resto aveva tratto spunto la mini-scissione del gruppo de "Il Manifesto".
Se Amendola e Napolitano guardavano all'esperienza storica della SPD e della socialdemocrazia tedesca (dominata dalla grande figura di Willy Brandt, già sindaco di Berlino Ovest e poi indimenticato cancelliere tedesco), il gruppo de "Il Manifesto" e Ingrao criticavano da sinistra l'esperienza storica del comunismo burocratico sovietico, con qualche apertura all'esperienza maoista.
Toccava appunto a Barlinguer tenere la barra al centro e cercare una "terza via" quella dell'Eurocomunismo, con i leader del Partito comunista spagnolo e portoghese (il partito comunista francese di Marchais era su posizioni filosovietiche ortodosse); fallito poi l'Eurocomunismo, Berlinguer si arroccò, com'é noto, nella difesa orgogliosa e intransigente della "diversità comunista", imperniata sulla questione morale, e forse perse l'occasione storica per lanciare una sfida di vero riformismo e modernizzazione (quella che aveva intuito il primo Craxi, prima di impaniarsi nel CAF (Craxi Andreotti Forlani) ossia nel patto di potere che lo portò alla rovina).
Riemerge ora, da quel passato, e questa sì che è una rivincita, la figura di Napolitano che, poco incisiva nella vita e nella politica del P.C.I., si consegna ad un impegno istituzionale per il quale ha di certo un profilo più che adeguato, ma che, nella confusa situazione politica italiana, avrebbe forse postulato una personalità più netta e politicamente forte.
Con un governo che sarà debole e guidato da un Prodi sempre in bilico nel tentativo di tener assieme la sua eterogenea maggioranza, un'opposizione a sua volta non coesa in modo granitico (e dalla quale la Lega si sfilerà, con ogni probabilità, dopo la sconfitta annunciata al referendum costituzionale di fine giugno) e attraversata dalla non troppo sotterranea guerra di successione a Berlusconi (che soltanto radicalizzando lo scontro può sperare di conservare la sua leadership, come infatti sta facendo), una situazione dei conti pubblici dissestata, una ripresa economico-produttiva ancora incerta e non tumultuosa, un panorama europeo e internazionale complesso e pieno di nuvole minacciose, la cultura e l'equilibrio istituzionale di Napolitano rischiano di ridimensionarne il ruolo a quella funzione "notarile" che fu propria dei presidenti della Repubblica sino a Giovanni Leone.
La strisciante trasformazione del ruolo presidenziale, il rafforzamento del Quirinale, concise con la crisi del sistema dei partiti, a cominciare dal sequestro e dall'omicidio di Aldo Moro, il cui significato è stato forse poco compreso e valorizzato.
Aldo Moro, di cui due giorni fa è ricorso il ventottesimo anniversario della tragica morte, aveva compreso come fosse ineludibile una transizione politica, istituzionale e sullo sfondo costituzionale di cui il compromesso storico, e l'ingresso del P.C.I. nell'area della maggioranza parlamentare e, in prospettiva, nel governo, costituiva un passaggo obbligato, dato il contesto internazionale (erano gli anni del breznevismo e dell'apice della potenza "imperiale" sovietica).
Quel tentativo era in anticipo di oltre dieci anni rispetto ai tempi storici: il mondo era segnato ancora dalle demarcazioni e dai confini tra le sfere d'influenza disegnate nella conferenza di Yalta e di Potsdam, e quella "sperimentazione" non poteva avere successo, risultando inaccettabile tanto a Washington quanto a Mosca (al di là di ogni zona d'ombra, tutt'altro che dissipata, sul ruolo che i servizi statunitensi e sovietici, la C.I.A. e il KGB, possano aver giocato nella vicenda).
La incipiente crisi dei partiti produsse la presidenza forte (anche se un pò populista) di Sandro Pertini, grande "vecchio" della Resistenza, socialista incatalogabile nella geografia correntizia del vecchio P.S.I., primo vero "nonno" della Repubblica (nel senso buono: da allora gli italiani hanno gradito la presenza sul Colle di augusti vegliardi, e questo spiega anche il successo popolare di Ciampi e il preconizzabile successo, nella stessa linea, di Napolitano).
Una presidenza forte, ma non amata per il carattere dell'uomo e i suoi indimenticati trascorsi di Ministro dell'Interno negli anni più aspri e bui del decennio 1970-1980, tali da meritargli il "K" iniziale e l'odio di una generazione studentesca extraparlamentare, tra le cui fila avrebbero pescato i gruppi armati dell'eversione di sinistra, fu quella di Francesco Cossiga, il "picconatore".
Una presidenza tendenzialmente forte, anche se nata nel momento di massima debolezza della politica e del parlamento, e sotto il frastuono orrendo dell'attentatuni di Capaci, è stata quella di Oscar Luigi Scalfaro, che ha segnato il punto di massima divisione tra le forze politiche nate dal naufragio giudiziario-mediatico della prima repubblica.
Una presidenza forte, sempre nel segno però della sostanziale debolezza della politica della seconda repubblica e dell'aspra divaricazione tra maggioranza polista e opposizione di centrosinistra, è stata quella di Carlo Azeglio Ciampi, "civil servant" non sgradito ai c.d. mitici "poteri forti" e cioé a quel groviglio di interessi e istituzioni industriali e finanziarie, coi i loro relativi "media" di riferimento (l'area della stampa, più che quella delle televisioni, ovviamente), che sia in relazione alla "apoliticità" (meglio "apartiticità") della persona che al profilo bonario di "nonno" della Repubblica, e ad una condivisa operazione di "marketing" mediatico, si è proposto come "il Presidente più amato dagli Italiani".
L'ascesa al Colle di Napolitano si pone in evidente linea di continuità, sotto questo profilo, del "ciampismo", benché l'elezione non sia avvenuta con la larga maggioranza del predecessore per l'esigenza di Berlusconi di smarcarsi dal tentantivo aennino-uddiccino, e cioé finian-casiniano, di farsi "garanti" dell'opposizione di centrodestra nei confronti del centrosinistra, e sotto sotto di marcare l'inizio di una "fuoriuscita" dalla stagione del berlusconismo e di rompere l'asse di ferro tra Berlusconi e Lega.
Certo l'elezione di un ex comunista, e la definitiva caduta anche per la massima carica istituzionale del c.d. fattore "K" (ossia della pregiudiziale anticomunista) ha anche un suo significato storico-istituzionale, perché è vero che chiude, col tramonto definitivo di quel fattore (per vero già declinato con la presidenza del consiglio a D'Alema e prima ancora col ministero dell'Interno a Napolitano) la stagione della prima repubblica e delle sue regole non scritte ma cogenti.
Napolitano sarà certamente il presidente "di tutti" e "super partes": e come potrebbe essere diversamente?
Il punto è, semmai, se la sua presidenza saprà produrre quegli stimoli forti verso un rinnovamento della politica, del suo quadro, delle sue strategie, in una parola verso le riforme istituzionali come si suol dire "condivise", che altra personalità più marcata e più forte politicamente, come D'Alema, avrebbe probabilmente saputo e potuto imprimere.
Il "paradosso italiano" potrebbe essere proprio questo: che un presidente "super partes" serva peggio la causa di una reale ristrutturazione del quadro politico e di un superamento condiviso dello stato di belligeranza continua tra maggioranza e opposizione di quanto avrebbe potuto un presidente "intra partes".
La risposta non la darà la Storia, con la S maiuscola, ma probabilmente già la cronaca politica dei prossimi mesi.
In ogni caso gli italiani ritrovano un "nonno della Repubblica", equilibrato, istituzionale, molto "british", elegante, e, ciò che non guasta, meridionale: un uomo di partito, ma non "partigiano" o partitizzato, che nel contesto internazionale farà la sua brava e innegabile figura, un'immagine idealtipica di un Presidente.
Buona fortuna, compagno Presidente.

sabato, maggio 06, 2006

ANNIVERSARI


Curiosa la sequenza di funesti anniversari che si è sgranata in questi tre anni: il 2 dicembre 2004 sono trascorsi venti anni dal disastro chimico di Bhopal, il 6 e 8 agosto 2005 sessant'anni dai funghi atomici all'uranio e al plutonio di Hiroshima e Nagasaky, il 26 aprile 2006 venti anni dall'incidente di Chernobyl, tra due mesi saranno trent'anni dall'incidente di Seveso.
Per fortuna l'ultimo anniversario ricorda un evento meno drammatico nelle conseguenze: la dispersione in atmosfera della diossina dalla fabbrica ICMESA di Seveso produsse molti casi di cloracne e vari disturbi, forse non ancora compiutamente valutabili nella loro entità, ma nulla di paragonabile agli altri eventi dei grani di questo drammatico "rosario", anche se ebbe giusta e grande risonanza.
Chernobyl, a quanto se ne sa (e non se ne sa ancora abbastanza) ha fatto forse molte, molte decine di migliaia (qualcuno dice duecentomila) morti e continua a mietere migliaia di vite a distanza di tanto tempo: il sarcofago di cemento che racchiude il reattore n. 4 (dove si verificò la "fusione del nocciolo" e l'esplosione che immise in atmosfera una quantità di radiazioni di gran lunga superiore a quelle rilasciate dalle bombe di Hiroshima e Nagasaky) è pieno di crepe, potrebbe crollare, attende la realizzazione di una colossale struttura ulteriore di protezione.
Sulla rete in effetti non si trova tantissimo, in termini di informazioni accessibili e non strettamente tecniche, sull'incidente e la sua dinamica, frutto di una somma di inadeguatezze tecniche e incredibili errori umani, alimentati dalla mentalità burocratica e ottusa di un ingegnere nucleare.
Bhopal ha trovato invece due narratori straordinari, Dominique Lapierre e Javier Moro, che con "Mezzanotte e cinque a Bhopal" hanno raccontato con rigorosa documentazione ma in forma quasi romanzesca (da vero reportage) come e perché un colosso americano della chimica la Union Carbide Corporation" decise di impiantare una fabbrica per la produzione del pesticida "Sevin" nel cuore millenario, misterioso, magico dell'India e poi, dinanzi alla crisi produttiva determinata dalle ricorrenti siccità che affliggevano il paese dei maraja, la lasciarono andare progressivamente alla malora sino a determinare quella catena di carenze di manutenzione, assurdo stoccaggio di grandi quantità di MIC (isocianato di metile), operazioni di lavaggio condotte con approssimazione, depauperamento delle condizioni di sicurezza, che portarono nella fresca serata del 2 dicembre 1984 all'esplosione della vasca n. 610, in cui erano contenute duecento tonnellate di isocianato di metile e alla liberazione di una nube di vapori tossici che, scomponendosi in gas miciliali (tra cui l'acido cianidrico) avvolse dapprima le bidonville che sorgevano attorno alla fabbrica, quindi la stazione ferroviaria e alcuni quartieri della città.
Non si ha nemmeno un'idea precisa dei morti (l'intervallo attendibile tra sedicimila e trentamila la dice lunga) e dei contaminati (almeno duecentomila), che più sfortunati dei primi hanno avuto la vita segnata da cecità, gravissimi disturbi respiratori, neurologici, psichiatrici, cancri di vario genere, colpiti spesso sin dal ventre delle loro madri incinte all'epoca del disastro.
La storia del disastro di Bhopal è la storia delle conquiste e delle illusioni della chimica, dell'idea di poter debellare le carestie prodotte dal furioso assalto di parassiti devastanti, di offrire un sollievo alla fame del mondo: come in tutte le storie umane si intrecciano grandi ideali e aspirazioni e meschini calcoli di profitti più o meno rapidi, preveggenze inascoltate e negligenze ottuse e intollerabili, vigliaccherie ed eroismo.
Ho letto il libro in meno di tre giorni, lo desideravo da anni dopo aver visto un servizio in televisione all'epoca della sua uscita editoriale, l'ho comprato entrando per un caso nel Feltrinelli Megastore della Galleria Alberto Sordi di Roma.
A volte mi chiedo se, dietro la mia curiosità per i grandi disastri (posso considerarmi un conoscitore della tragedia della diga del Vajont, per aver letto credo quasi tutti i libri pubblicati in argomento, oltre che aver visto e rivisto il film di Renzo Martinelli e la drammatizzazione di Paolini), si celi quella tipica pruderie che suscita l'idea e l'immagine delle catastrofi, delle morti collettive, dell'intreccio misterioso di destini che si compiono all'unisono per il solo fatto spesso casuale e banale di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Eppure, al di la di questa pruderie, che non voglio negare (sapendo di non essere migliore o più nobile di nessun comune mortale), ciò che mi spinge è un bisogno di comprensione profonda, di "immedesimazione", di condivisione del senso tragico ed esistenziale di questi drammi collettivi, forse anche un sottile senso di colpa, nella consapevolezza di essere il solito fortunato che può leggerne senza pagare in prima persona le conseguenze.
Bella la vita di chi è nato da buona, anche se non ricca, famiglia, che ha un lavoro sicuro, una salute almeno sinora buona, in un angolo tranquillo d'occidente, di una città non più brutta di tante altre.
Quale dannato karma ha portato, invece, migliaia, milioni di esseri umani a nascere o a vivere sulla "spianata nera" attorno alla fabbrica di Bhopal?
E perchè il dolore colpisce sempre, o quasi, chi già dal dolore tanto è stato colpito?
Come spiegare tutto questo sapendo che Dio è buono?