domenica, febbraio 25, 2007

L'OMINO CHE URLA

Mi capita, quando non ho sottomano internet, di pensare ad un post per il blog, e poi di dimenticarmi cosa avrei voluto scrivere, preso da un'emozione, un sentimento, una riflessione.
C'è però qualcosa, anzi qualcuno che da qualche tempo, nelle mie giornate romane, colpisce la mia attenzione perché lo ritrovo ogni mattina sui gradini del teatro "Quirino-Vittorio Gassman" che s'affaccia proprio sulla corta e stretta strada, via delle Vergini, sul quale sorge il palazzo in cui hanno sede gli uffici del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (il C.S.M. in sedicesimo dei magistrati amministrativi, di cui sono componente).
D'inverno è intabarrato in un cappottaccio sdrucito, con un passamontagna da neve e due scarpacce che hanno visto tempi, molto remoti, migliori.
D'estate, dismesse le scarpe e il cappotto, scopre una camicia e due piedi noir con le gambe piene di croste e ulcerazioni.
Da un fiasco o più spesso un brick di cartone beve vino scadente e si nutre di cose immangiabili, ad esempio carne trita cruda che forse gli regalano gli esercenti della zona.
Da ragazzo c'è stato un periodo che alla domanda: cosa faresti da grande? avrei risposto "il clochard", o meglio "il viandante" con una visione romantico-adolescenziale di chi ritiene che la cosa più bella della vita sia la libertà di andare a zonzo, senza fissa dimora, con una coperta di stelle, in contemplazione degli uomini e delle donne, senz'altra occupazione che di vivere e cogliere tutte le vibrazioni e le energie del Creato.
Ci credevo davvero a quella visione edulcorata e manieristica della vita dei clochard (che dignità questa parola francese rispetto allo spregiativo italiano "barbone"); li immaginavo come uomini solitari ma liberi, saggi per antonomasia, ricchi di tutto perché poveri di tutto.
Sarà perché allora di clochard-barboni se ne vedevano pochi, almeno qui a Bari, e io ne conoscevo uno, Giacomo, pieno di dignità, cui pagavo qualche volta da bere e che si portava dietro una fogliata di giornali vecchi che leggeva religiosamente, chissà cosa cavando dalle notizie e notiziole, quali pensieri e riflessioni, quali illuminazioni.
Oggi le città, e non dico Roma, ma anche questa città che tutta insieme fa poco più di un quartiere di Roma, pullulano di umanità povera e dolente, scarti di produzione sociale, giovani o vecchi, precariamente sani o inguaribilmente malati, come un povero storpio, forse albanese, forse rumeno, forse di chissàdove, che ho incontrato stamattina ad un semaforo e a cui ho dato un paio di euro.
Ne ho incontrato un altro così a Roma, e ad un collega che si chiedeva se fosse storpio o fingesse ho detto che andava bene comunque dargli un po' di soldi, perché se storpio li meritava per elementare solidarietà, se attore davvero troppo bravo.
Questo clochard del teatro Quirino, come molti, ragiona tra sè ad alta voce, qualche volta canta, non di rado s'infuria e grida grida grida: ma non gli fa caso nessuno, si passa al largo frettolosi, un po' come doveva farsi nel medioevo nei villaggi popolati di mendicanti carichi di stracci e lebbra.
A Roma, di questi tempi, va di moda il regalo dell'abbraccio: persone ti si avvicinano e chiedendoti il permesso ti abbracciano. Ma dubito che qualcuno abbracci questo omino inquieto dalle gambe piene di ulcere e croste, dai capelli e dalla barba sporchi e arruffati, dalla fiatata odorosa di vino scadente.
Chissà che un giorno, trovando un po' di coraggio, non riesca a regalargli io un abbraccio, magari prendendomi un urlo, o peggio un pugno, o forse l'incanto di due occhi stupiti e umidi di gratitudine.
Vorrei esserne capace, davvero.