mercoledì, maggio 10, 2006

BUONA FORTUNA, "COMPAGNO" PRESIDENTE


Una voce insistita vuole che Giorgio Napolitano sia figlio naturale di Umberto II, e certo alla fortuna di questa leggenda metropolitana ha giovato la notevole somiglianza fisica tra il neopresidente della Repubblica e il c.d. "re di maggio": stessa stempiatura giovanile e alta, stessi tratti aristocratici, stesso fisico asciutto, verrebbe da dire anche stessa incontestabile "regalità" di posture, eleganza sobria, toni, timbri vocali.
Se non si trattasse soltanto di una leggenda metropolitana, verrebbe da pensare che l'ascesa al Colle di Giorgio "il migliorista" sia una di quelle curiose "vendette" che la Storia ogni tanto concede: Napolitano s'insedia nel palazzo del Quirinale esattamente sessant'anni dopo (giorno più giorno meno) in cui ne uscì Umberto II, salutando una piccola e affranta folla, per salire su un aereo che lo avrebbe portato nell'esilio portoghese di Cascais.
Al di là di stupidi e ingialliti "gossip", il giudizio sulla elezione di Giorgio Napolitano alla massima carica istituzionale della Repubblica si presenta complesso e articolato.
E' indiscutibile il profilo istituzionale della personalità politica: Napolitano, allievo di Giorgio Amendola, animatore dell'ala "migliorista", e cioé moderata (o di "destra") del vecchio P.C.I., "ministro degli Esteri" ombra del vecchio "Bottegone", è stato presidente della Camera e poi, soprattutto, Ministro dell'Interno, titolare cioé di un dicastero che sino allo sfaldamento del blocco comunista, tra il 1989 e il 1991, mai e poi mai la vecchia D.C. avrebbe ceduto ad altri: dai tempi lontani di Scelba troppo importante era il controllo di un Ministero che comanda Prefetti, Questori, Polizia di Stato e costituisce il vero nerbo della macchina amministrativa dello Stato.
Nel vecchio P.C.I., peraltro, l'influenza di Napolitano (e anche del suo maestro Amendola) era abbastanza modesta, come sul versante opposto dell'estrema sinistra quella di Pietro Ingrao (primo presidente comunista della Camera), per la larga egemonia del "centro" berlingueriano.
E d'altra parte per chi, come Napolitano, ha vissuto tutta intera la propria parabola politica nel P.C.I. dominato dalle figure di Palmiro Togliatti, Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, era una "missione impossibile" conquistare spazi di maggiore influenza nel partito.
Soltanto leaders carismatici come i tre citati (cui nei vecchi slogan del P.C.I. si aggingeva quale nume tutelare la figura di Antonio Gramsci: Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, a indicare una continuità più postulata che reale, soprattutto tra Gramsci e Togliatti) potevano tener assieme le anime di un grande partito di massa in cui convivevano aspirazioni di stampo più o meno socialdemocratico (come quelle "miglioriste", appunto) e ispirazioni "gauchiste" di alternativa di sinistra (come quelle ingraiane) dalle quali del resto aveva tratto spunto la mini-scissione del gruppo de "Il Manifesto".
Se Amendola e Napolitano guardavano all'esperienza storica della SPD e della socialdemocrazia tedesca (dominata dalla grande figura di Willy Brandt, già sindaco di Berlino Ovest e poi indimenticato cancelliere tedesco), il gruppo de "Il Manifesto" e Ingrao criticavano da sinistra l'esperienza storica del comunismo burocratico sovietico, con qualche apertura all'esperienza maoista.
Toccava appunto a Barlinguer tenere la barra al centro e cercare una "terza via" quella dell'Eurocomunismo, con i leader del Partito comunista spagnolo e portoghese (il partito comunista francese di Marchais era su posizioni filosovietiche ortodosse); fallito poi l'Eurocomunismo, Berlinguer si arroccò, com'é noto, nella difesa orgogliosa e intransigente della "diversità comunista", imperniata sulla questione morale, e forse perse l'occasione storica per lanciare una sfida di vero riformismo e modernizzazione (quella che aveva intuito il primo Craxi, prima di impaniarsi nel CAF (Craxi Andreotti Forlani) ossia nel patto di potere che lo portò alla rovina).
Riemerge ora, da quel passato, e questa sì che è una rivincita, la figura di Napolitano che, poco incisiva nella vita e nella politica del P.C.I., si consegna ad un impegno istituzionale per il quale ha di certo un profilo più che adeguato, ma che, nella confusa situazione politica italiana, avrebbe forse postulato una personalità più netta e politicamente forte.
Con un governo che sarà debole e guidato da un Prodi sempre in bilico nel tentativo di tener assieme la sua eterogenea maggioranza, un'opposizione a sua volta non coesa in modo granitico (e dalla quale la Lega si sfilerà, con ogni probabilità, dopo la sconfitta annunciata al referendum costituzionale di fine giugno) e attraversata dalla non troppo sotterranea guerra di successione a Berlusconi (che soltanto radicalizzando lo scontro può sperare di conservare la sua leadership, come infatti sta facendo), una situazione dei conti pubblici dissestata, una ripresa economico-produttiva ancora incerta e non tumultuosa, un panorama europeo e internazionale complesso e pieno di nuvole minacciose, la cultura e l'equilibrio istituzionale di Napolitano rischiano di ridimensionarne il ruolo a quella funzione "notarile" che fu propria dei presidenti della Repubblica sino a Giovanni Leone.
La strisciante trasformazione del ruolo presidenziale, il rafforzamento del Quirinale, concise con la crisi del sistema dei partiti, a cominciare dal sequestro e dall'omicidio di Aldo Moro, il cui significato è stato forse poco compreso e valorizzato.
Aldo Moro, di cui due giorni fa è ricorso il ventottesimo anniversario della tragica morte, aveva compreso come fosse ineludibile una transizione politica, istituzionale e sullo sfondo costituzionale di cui il compromesso storico, e l'ingresso del P.C.I. nell'area della maggioranza parlamentare e, in prospettiva, nel governo, costituiva un passaggo obbligato, dato il contesto internazionale (erano gli anni del breznevismo e dell'apice della potenza "imperiale" sovietica).
Quel tentativo era in anticipo di oltre dieci anni rispetto ai tempi storici: il mondo era segnato ancora dalle demarcazioni e dai confini tra le sfere d'influenza disegnate nella conferenza di Yalta e di Potsdam, e quella "sperimentazione" non poteva avere successo, risultando inaccettabile tanto a Washington quanto a Mosca (al di là di ogni zona d'ombra, tutt'altro che dissipata, sul ruolo che i servizi statunitensi e sovietici, la C.I.A. e il KGB, possano aver giocato nella vicenda).
La incipiente crisi dei partiti produsse la presidenza forte (anche se un pò populista) di Sandro Pertini, grande "vecchio" della Resistenza, socialista incatalogabile nella geografia correntizia del vecchio P.S.I., primo vero "nonno" della Repubblica (nel senso buono: da allora gli italiani hanno gradito la presenza sul Colle di augusti vegliardi, e questo spiega anche il successo popolare di Ciampi e il preconizzabile successo, nella stessa linea, di Napolitano).
Una presidenza forte, ma non amata per il carattere dell'uomo e i suoi indimenticati trascorsi di Ministro dell'Interno negli anni più aspri e bui del decennio 1970-1980, tali da meritargli il "K" iniziale e l'odio di una generazione studentesca extraparlamentare, tra le cui fila avrebbero pescato i gruppi armati dell'eversione di sinistra, fu quella di Francesco Cossiga, il "picconatore".
Una presidenza tendenzialmente forte, anche se nata nel momento di massima debolezza della politica e del parlamento, e sotto il frastuono orrendo dell'attentatuni di Capaci, è stata quella di Oscar Luigi Scalfaro, che ha segnato il punto di massima divisione tra le forze politiche nate dal naufragio giudiziario-mediatico della prima repubblica.
Una presidenza forte, sempre nel segno però della sostanziale debolezza della politica della seconda repubblica e dell'aspra divaricazione tra maggioranza polista e opposizione di centrosinistra, è stata quella di Carlo Azeglio Ciampi, "civil servant" non sgradito ai c.d. mitici "poteri forti" e cioé a quel groviglio di interessi e istituzioni industriali e finanziarie, coi i loro relativi "media" di riferimento (l'area della stampa, più che quella delle televisioni, ovviamente), che sia in relazione alla "apoliticità" (meglio "apartiticità") della persona che al profilo bonario di "nonno" della Repubblica, e ad una condivisa operazione di "marketing" mediatico, si è proposto come "il Presidente più amato dagli Italiani".
L'ascesa al Colle di Napolitano si pone in evidente linea di continuità, sotto questo profilo, del "ciampismo", benché l'elezione non sia avvenuta con la larga maggioranza del predecessore per l'esigenza di Berlusconi di smarcarsi dal tentantivo aennino-uddiccino, e cioé finian-casiniano, di farsi "garanti" dell'opposizione di centrodestra nei confronti del centrosinistra, e sotto sotto di marcare l'inizio di una "fuoriuscita" dalla stagione del berlusconismo e di rompere l'asse di ferro tra Berlusconi e Lega.
Certo l'elezione di un ex comunista, e la definitiva caduta anche per la massima carica istituzionale del c.d. fattore "K" (ossia della pregiudiziale anticomunista) ha anche un suo significato storico-istituzionale, perché è vero che chiude, col tramonto definitivo di quel fattore (per vero già declinato con la presidenza del consiglio a D'Alema e prima ancora col ministero dell'Interno a Napolitano) la stagione della prima repubblica e delle sue regole non scritte ma cogenti.
Napolitano sarà certamente il presidente "di tutti" e "super partes": e come potrebbe essere diversamente?
Il punto è, semmai, se la sua presidenza saprà produrre quegli stimoli forti verso un rinnovamento della politica, del suo quadro, delle sue strategie, in una parola verso le riforme istituzionali come si suol dire "condivise", che altra personalità più marcata e più forte politicamente, come D'Alema, avrebbe probabilmente saputo e potuto imprimere.
Il "paradosso italiano" potrebbe essere proprio questo: che un presidente "super partes" serva peggio la causa di una reale ristrutturazione del quadro politico e di un superamento condiviso dello stato di belligeranza continua tra maggioranza e opposizione di quanto avrebbe potuto un presidente "intra partes".
La risposta non la darà la Storia, con la S maiuscola, ma probabilmente già la cronaca politica dei prossimi mesi.
In ogni caso gli italiani ritrovano un "nonno della Repubblica", equilibrato, istituzionale, molto "british", elegante, e, ciò che non guasta, meridionale: un uomo di partito, ma non "partigiano" o partitizzato, che nel contesto internazionale farà la sua brava e innegabile figura, un'immagine idealtipica di un Presidente.
Buona fortuna, compagno Presidente.