giovedì, agosto 31, 2006

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO

Devo ripetermi: sono inguaribilmente tardivo. Scopro ora, ben oltre un decennio dopo, e in un passaggio televisivo di fine estate, un film bellissimo, che ho accuratamente evitato perché avvinto al pregiudizio che si trattasse di un indigesto "polpettone" ambientato in quella atmosfera, all'apparenza asfittica, propria dell'Inghilterra post-vittoriana, tra le due guerre.
Ancora una volta faccio ammenda, e ammetto di aver sbagliato.
"Quel che resta del giorno", tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, è un delizioso film "d'ambiente" che descrive la vita nella tenuta di un nobile inglese (Lord Darlington) tra le due guerre, e in particolare negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale.
"Sua Signoria", ossia Lord Darlington, si diletta di politica estera e, memore di un'amicizia con un nobile tedesco sbocciata durante la prima guerra mondiale, manifesta un orientamento filo-tedesco e una evidente ammirazione per la struttura "d'ordine" della società germanica sotto il regime nazista, chiudendo gli occhi sulla natura totalitaria del sistema hitleriano e sulla crescente persecuzione antiebraica.
Nell'universo chiuso della sua tenuta i rapporti sono rigidi sotto la guida del maggiordomo mister Stevens Junior che serve con assoluta dedizione come il padre mister Stevens Senior e della governante miss Kenton. Mister Stevens Junior, formatosi alla rigida scuola del padre, è un maggiordomo inappuntabile, intriso di senso del dovere e di assoluta fedeltà al padrone, pago di occupare un posto di osservazione privilegiato nel contesto in cui crede che i dilettantistici maneggi diplomatici di Lord Darlington possano davvero "fare la storia".
Il maggiordomo non lascia che nessun evento turbi la propria incrollabile fedeltà, a differenza di miss Kenton che vede sempre più lucidamente l'ingiustizia delle scelte del padrone (come il licenziamento di due profughe tedesche ebree necessario a non guastare la buona fama e i rapporti di Darlington con i diplomatici tedeschi).
Miss Kenton, innamorata di Mister Stevens, che pure la ama ma non lo confesserà mai, forse nemmeno a se stesso, non riesce a vincerne l'autismo sentimentale, e accetta di sposare un altro servitore che ha abbandonato la tenuta.
Morto Lord Darlington, la tenuta viene acquistata da un ricco americano, che a suo tempo aveva partecipato a una conferenza internazionale ivi svoltasi in rappresentanza degli Stati Uniti, e Mister Stevens torna al suo servizio e al ruolo (l'unico) che sappia interpretare.
Film complesso, giocato su più piani (da quello storico-sociale sulla nobiltà e società inglese, quasi al tramonto dell'impero, a quello sentimentale-esistenziale), recitato da attori di grande finezza e sensibilità, dai tempi, colori e fotografia perfetti, pur potendosi considerare un capolavoro non vince nemmeno uno degli otto oscar cui era candidato.
Cosa mi ha preso di questo film, dai tempi lunghi, fitto di dialoghi e silenzi, primi piani e campi medi, di taglio teatrale?
Anzitutto, il titolo. Cosa resta del giorno è il tramonto, e il film riguarda appunto più tramonti: dalla mezza età di mister Stevens, che ricorda i giorni "luminosi" (?!?) di Lord Darlington e degli inappuntabili ricevimenti nella tenuta, a quella serena ma infelice di Miss Kenton, che ha sposato senza amore e ripone ormai ogni speranza nella figlia e nel nipotino che essa porta in grembo, dal patetico "sfiorire" delle velleità di Lord Darlington, ingenuamente convinto di poter essere "facitore" della Storia, con la S maiuscola, al lento ma inarrestabile declino della potenza inglese e del suo impero, ed in effetti di un'epoca centenaria che toccò il suo culmine con la regina Vittoria, all'inesorabile trasformazione dei rapporti sociali e "di classe", segnata dal rifiuto di Miss Kenton a continuare ad avvalersi del "privilegio" di servire una casata tanto onusta di tradizione e gloria.
Nel film e nei suoi molti piani di lettura non è difficile scorgere anche una metafora della vita nella sua tensione tra i poli opposti del dovere e dell'accettazione dei ruoli e del sentimento e dell'aspirazione alla felicità, con la rassegnata "morale" finale così bene espressa dal "rientro" di Mister Stevens e Miss Kenton nei rispettivi gusci.
Eppure, nella scena finale, in cui il nuovo proprietario americano della tenuta cattura un colombo entrato per caso in uno dei grandi saloni, e lo libera, nello sguardo di Mister Stevens che rimane a comtemplarne il volo, si coglie, se non una speranza, un principio di nuova consapevolezza: la vita è andata, ma, piuttosto che tenersi al caldo nel "nido" di un ruolo, meglio sarebbe stato spiccare il volo, libero, con i pericoli e le opportunità della libertà e la pienezza di vita che essa solo sa dare.
Un capolavoro, non c'è dubbio.
Leggerò il romanzo.

lunedì, agosto 07, 2006

E la chiamano estate


Una grande e struggente canzone di Bruno Martino, cantante confidenziale anni '60 scomparso qualche anno fa (più introverso e meno romantico forse dell'altro cantante dello stesso tipo, Nico Fidenco, credo tutt'ora in qualche attività nei revival televisivi e di piazza), da il segno di questa estate, tra bolle di calore, temporali e acquazzoni subtropicali, sommosse di piazza (tassisti e calciopoli) e guerre libanesi.
Non che le estati di pochi o tanti anni fa non conoscessero eventi più o meno negativi e luttuosi (nel 1968, era di agosto, l'invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati del patto di Varsavia, nel 1982 la "vecchia" invasione israeliana del Libano, nel 1985 il disastro della frana di Stava, nel 2000 l'affondamento del sommergibile Kursk...).
Forse era diversa la percezione di quegli eventi, come appunto un acquazzone che scoppiava più o meno lontano o vicino ma poi si esauriva, e si tornava ai materassini di gomma, alla "stessa spiaggia, stesso mare", alle "pinne, fucile ed occhiali", a scrivere "t'amo sulla sabbia", alle angurie da mangiare in riva al mare nelle sere più fresche.
Ora invece, finiscono tra parentesi proprio i riti tranquillizzanti della quotidianità estiva, le canzoni d'estate durano al massimo un'estate, il bollettino degli incidenti stradali non conosce pause, le vacanze non sono forse mai state così piene di angosce, tutto si consuma in un eterno presente perché il futuro è una scommessa, si progetta poco e niente della vita.
Forse per questo abbiamo bisogno di anestetizzarci con euforie collettive (ma il mondiale vittorioso sembra finito da un pezzo e alle finestre rimangono sparute bandiere dimenticate o non rimosse per pigrizia) passeggere come acquazzoni estivi, che lasciano un clima ancor più umido e appiccicaticcio.
Umido e appiccicaticcio è il clima morale, e non solo alle nostre latitudini.
Israele ha ragione, si difende, intravvede dietro il turbante e la barbetta dell'occhialuto Nasrallah il viso cattivo e sfigato degli ayatollah iraniani, ma poi fa una ecatombe di donne e bambini, che saranno pure le moglie e i figli degli hezbollah, ma non è un bel vedere di cadaveri calcinati.
Condoleeza ha scoperto il multilateralismo, ma nemmeno lei sa come si esce dal pantano iracheno, e cosa si può fare in concreto per contrastare e vincere la battaglia della democrazia in società islamiche che hanno cadenze civili, quanto ai diritti, premedievali, segmentate in tribù, con uomini baffuti o barbuti e donne velate o burkate.
Castro è un dittatore-satrapo che opprime la sua isola, ma l'alternativa di una liberazione cubana potrebbe essere il ritorno puro e semplice agli anni di Fulgencio Batista, quando era il bordello e la casa da gioco del cortile di casa degli U.S.A. (e la prostituzione giovanile o addirittura infantile dell'Avana ne è la scoraggiante premessa).
Il Papa non mediatico si sforza di guidare la grande nave della Chiesa universale, ma le chiese particolari sono semivuote, qualche volta popolate di preti impresentabili, e il risveglio delle coscienze sembra così remoto.
Le baruffe chiozzotte parlamentari proseguono indisturbate, tra ministri di lotta e di governo che incarnano il peggior populismo (da Di Pietro al ministro rifondarolo della solidarietà sociale, tal Ferrero se non mi sbaglio), furbate dilibertiane per strappar voti nell'area dei c.d. movimenti, improvvisate agostane di Casini, cafonate more solito di Berlusconi, dichiarazioni inattendibili di Prodi circa la forza della sua sfilacciata maggioranza.
Molto stanco e un po' nauseato torno a scrivere sul mio solitario blog dopo un mese, e di una cosa sola sono certo: erano meglio le estati dei '60 e '70, magari anche degli '80, perché dal '90 in poi la convulsione della caduta dei blocchi, il terrorismo islamico, la crisi della prima repubblica, la nascita di una scalcinata seconda repubblica, la perdita di virtù civili e di senso dei valori e dell'esistenza sono state esiziali per lo spirito pubblico e anche per l'umore privato.
Certo ogni cambiamento è travaglio, dall'inabissamento dei vecchi equilibri ne nasceranno altri, qualcosa di buono alla fine spunterà all'orizzonte.
Ma se penso che, negli anni '70, il musical "Hair" dipingeva ottimisticamente il 2000 come l'era del progresso, dell'illuminazione, della pace, dell'ottimismo, perché era dell'Aquario (e io sono un aquario!), sorrido amaro, almeno per il momento.
Quella di Bruno Martino era, nonostante tutto, un'estate; questo mi sembra invece "il lungo inverno".