sabato, marzo 11, 2006

La cosa più importante...

Moulin Rouge dovrebbe essere un c.d. film cult per gli ultimi romantici; o almeno così mi piace pensare, visto che lo è per me, fondatore di questo blog abbastanza deserto.
Moulin Rouge è un film colorato e visionario, l'unico musical che mi sia mai piaciuto e che non abbia trovato insopportabile come quelli americani degli anni '50 (a parte qualche vecchio film di Fred Astaire e Ginger Rogers, il cui fascino risiede nell'elegante leggerezza della vita che vi traspira tra passi di danza ineguagliabili e in quell'immagine stilizzata e poetica di un'America ottimista e volenterosa ancora vergine dei funghi di Hiroshima e Nagasaki, e i cui ragazzi non immaginavano ancora di buscare pallottole fatali sulle spiagge di Omaha Beach o del Pacifico).
La storia è il racconto retrospettivo di un grande amore tra un giovane scrittore squattrinato di bell'aspetto, buoni e forti sentimenti e grande cuore (un romantico anche lui) e di una fatalona soubrette che reinterpreta il ruolo della cortigiana perduta, adusa al piacere di uomini ricchi, facoltosi, annoiati, fondamentalmente "maiali".
Satin, la stella del Moulin Rouge, scambia il giovane scrittore per la persona di un vizioso e odioso riccastro che dovrebbe finanziare, e poi finanzia in effetti, una grandiosa messa in scena di un musical orientaleggiante, ambientato in una coloratissima India.
Divisa tra l'amore per il giovane squattrinato e la seduzione dell'attempato ganimede, Satin per salvare il primo dalle ire del secondo nega di amarlo, sino a spezzargli il cuore.
Ma l'amore, più forte della violenza del mondo e delle sue prudenze, trionfa alla fine in una splendida dichiarazione cantata a due voci (del giovane e della soubrette) sulle note di una celebre canzone di Elton John (veramente bellissima).
Purtroppo i grandi amori sono sfortunati e non c'è lieto fine: la soubrette muore tra le braccia dello scrittore, sul palco e nel momento del trionfo e del tripudio di folla, consumata dalla tisi.
E al giovane scrittore non resta che raccontare tra le lacrime la storia del suo grande e sfortunato amore, disseminando di pagine dattiloscritte la sua mansardina bohemiene con vista sull'insegna ormai spenta e arrugginita del Moulin Rouge.
Il succo ideologico del film è condensato in una frase che, disincarnata dal contesto, può ricordare i bigliettini dei baci Perugina, e che, nella sua semplicità, invece, rivela la forza della verità, che può apparire banale perché la verità è quasi sempre semplice ed evidente, e sono gli uomini (come genere umano) a complicarla con i loro filtri deformanti.
"La cosa più importante che puoi imparare è amare e lasciarti amare".
Questa è la frase, concentrato estremo della filosofia degli ultimi romantici.
Il film di Baz Lurhmann scorre via come un sogno o una bella favola, con la sua morale finale: il mondo può sconfiggere l'amore, ma l'amore vero sopravvive anche alla morte, e da il senso alla vita.
E' una piccola morale consolatoria?
Forse, ma per quanto piccola e per quanto consolatoria, non è meno vera delle "morali" correnti nel mondo, e di certo è più presentabile.
E su questo rilievo, titoli di coda.

MANIFESTO DEGLI ULTIMI ROMANTICI

Gli ultimi romantici, come i bambini, non capiscono il mondo degli adulti, meglio non capiscono come gli adulti possano dissociare i loro comportamenti dalle loro passioni, in funzione più o meno utilitaristica.Gli ultimi romantici, come i bambini, non hanno vere malizie e dicono quello che pensano e sentono senza curarsi che ciò corrisponda ai loro interessi.Gli ultimi romantici pensano che possa e debba esistere una unità di vita tra cuore e ragione, poiché non sono capaci di dissociazioni che vedono come schizofreniche.Essere ultimi romantici è un privilegio e una dannazione perché si soffre infinitamente di più.Ma non si sceglie di essere ultimi romantici, lo si è.

una confraternita?

Ho attraversato in auto un pezzo della penisola, dal tirreno all'adriatico, tornando da Roma, in una giornata freddina e uggiosa, tra pioggia (molta)e neve (abbastanza, sia pure su un solo pezzo di Irpinia).Come dice la splendida canzone di Ornella Vanoni "E' uno di quei giorni in cui ti prende la malinconia...", e questo è infatti il mio stato d'animo; detto altrimenti con Guccini "la tristezza poi ci avvolse come miele".Tra malinconia e tristezza la differenza dovrebbe essere presumo di genere e non di specie; la malinconia è uno stato d'animo, un suo modo di essere; la tristezza un sentimento; la seconda passa come una febbricola, la prima rimane come una malattia cronica.Visivamente se la tristezza è miele o melassa, la malinconia è una colata di cemento, la prima si lava via, dalla seconda non ci si libera, e rompere il cemento dall'interno non è affatto facile.Clinicamente la malinconia ora si chiama depressione, ma non sono persuaso che sia solo un fatto di mediatori chimici dei neurotrasmettitori celebrali; i geni c'entrano sempre, ovvio, ma si è solo predisposti, il resto lo fa la vita con le sue ferite più o meno profonde, alcune cicatrizzabili, altre no, o non più quando riaperte.Poi, oltre i geni e la vita, il resto lo fa anche la volontà e la sua attitudine a piegarsi, flessibile come un giunco all'onda o rigida sino a spezzarsi come un tronco d'albero alla furia mostruosa degli elementi naturali.Temo che gli ultimi romantici abbiano tutti un fondo di malinconia, e in definitiva un vero problema di disadattamento alla vita.Non potendo adattarsi alla vita si sforzano di adattare la vita a se, e non ci riescono perché la vita non dipende solo da se ma dagli altri, normalmente dissonanti salvo autentici miracoli.I confratelli romantici possono solo salutarsi riconoscendosi, come monaci in un chiostro claustrale, ma ciascuno deve recitare le proprie giaculatorie e portare sotto il saio il cilicio penitenziale.Certo immaginare Wilecoyote vestito da frate fa sorridere; ma chissà che con quel travestimento non riesca a fermare un incuriosito Bip Bip, e a fulminare l'odioso struzzo.Che ne dici Wil? Taciturno sotto una rupe a baloccarti coi marchingegni della ACMA?