Avevo quindici anni, nel 1973, quando uscì il primo vero album di grande successo di Francesco De Gregori. Si chiamava, dal titolo della canzone più famosa e bella del vecchio vinile, "Alice non lo sa".
De Gregori iniziava un percorso musicale molto personale, intimista, ermetico, dissonante da quello dei cantautori d'impegno politico, il cui capofila, oltre al Guccini de "La locomotiva" -che però era molto di più, in quanto vero e autentico poeta, cantore colto, intellettuale non organico raffinato, quel Paolo Pietrangeli di "Contessa" poi divenuto molti anni dopo regista televisivo del "Maurizio Costanzo Show" e di tante trasmissioni di Mediaset (e lo dico senza nessuna connotazione negativa, sia bene inteso, ognuno ha il diritto di fare la propria strada nella vita).
De Gregori era ascetico, ieratico, bello, magro, coi capelli lunghi e il volto incorniciato da una barba incolta, somigliava al protagonista di "Jesus Christ Superstar", vero film cult di quegli anni, grande musical pop.
De Gregori era l'idolo delle ragazzine della mia generazione perché bello, poeta, profondo, misterioso, con l'aria un po' sfigata che non guasta mai, che fa innamorare, che fa scattare in ogni donna quell'insopprimibile istinto materno-protettivo che alberga nel suo cuore.
De Gregori era (ed è) di sinistra, ma quella sua vena intimista, poetica ed ermetica si scontrava con l'idea che ogni intellettuale in senso lato di sinistra dovesse cantare solo e soltanto della rivoluzione, della falsità degli ideali borghesi, dello spirito di rivolta.
Ricordo che, credo proprio nel 1973, De Gregori si esibì a Bari in un cinema un po' "pidocchietto", una grande sala coi sedili di legno, poi demolito per far posto a un parcheggio multipiano, che si chiamava "Supercinema", era situato in un quartiere molto popolare, programmava film erotici e aveva un variegato pubblico di giovani in cerca di primi turbamenti e anziani in cerca di sogni di celluloide, e durante le proiezioni si può immaginare cosa accadesse.
Forse l'organizzatore scelse quella sala perché costava poco affittarla, e perché così il prezzo del biglietto sarebbe risultato decisamente basso e alla portata delle vuote tasche del pubblico giovanile.
Sta di fatto che, dopo poche canzoni, partì l'ennesima rumorosa contestazione incentrata sul rifiuto di un cantautore che cantava cose ermetiche, intimiste, versi di cui "non si capisce niente".
De Gregori cercò di andare avanti, rispose a tono ai contestatori, ma insomma il concerto finì lì e finì male.
Non so se anche quell'episodio lo spinse, l'anno dopo, il 1974, a inserire nell'album intitolato "Francesco De Gregori" una canzone che ha come titolo provocatorio "Niente da capire".
Resta il fatto che, secondo me, è una delle canzoni più belle, se non la più bella in assoluto, ed è una grande canzone d'amore, di un amore difficile, forse di un amore finito (non si capisce bene, ma se no come poteva tener fede al suo ermetismo?).
Una canzone di pochi e facili accordi, che anche uno come me che non suonava la chitarra proprio benissimo poteva suonare; e quante volte l'ho suonata, in genere da solo, di rado con amici, cantandola con quella poca voce che mi lasciava, già quasi trent'anni fa, l'inveterato vizio del fumo.
Oggi mi è venuta in mente e se anche non posso "postarla" col sonoro, mi piace trascriverne il testo, di cui raccomando all'attenzione la seconda, terza e quarta strofa prima del "refrain".
Sarà ermetica quanto si voglia, per me è chiarissima. E bellissima.
Le stelle sono tante,
milioni di milioni,
la luce dei lampioni si confonde con la strada lucida.
Seduto o non seduto,
faccio sempre la mia parte,
con l'anima in riserva e il cuore che non parte.
Però Giovanna io me la ricordo
ma è un ricordo che vale dieci lire.
E non c'è niente da capire.
Mia moglie ha molti uomini,
ognuno è una scommessa
perduta ogni mattina nello specchio del caffè.
Io amo le sue rughe
ma lei non lo capisce,
ha un cuore da fornaio
e forse mi tradisce,
però Giovanna è stata la migliore,
faceva dei giochetti da impazzire.
E non c'è niente da capire.
Se tu fossi di ghiaccio
ed io fossi di neve,
che freddo amore mio,
pensaci bene a far l'amore.
È giusto quel che dici
ma i tuoi calci fanno male,
io non ti invidio niente,
non ho niente di speciale.
Ma se i tuoi occhi fossero ciliege
io non ci troverei niente da dire.
E non c'è niente da capire.
È troppo tempo amore
che noi giochiamo a scacchi,
mi dicono che stai vincendo
e ridono da matti,
ma io non lo sapevo
che era una partita,
posso dartela vinta
e tenermi la mia vita.
Però se un giorno tornerai da queste parti,
riportami i miei occhi e il tuo fucile.
E non c'è niente da capire.
giovedì, aprile 13, 2006
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