sabato, ottobre 28, 2006

NEL NOME DEL PADRE

Scrivo poco, lo so, preso da molte cose che servono a riempirmi la vita.
Eppure la vita a volte ti viene addosso come un sinistro autoarticolato, del tipo di quellì'icona del male che è l'autotreno di "Duel", opera giovanile di Steven Spielberg.
Ieri mattina stavo tornando da Roma e ho chiamato al telefono un amico, che è come e forse più di un fratello, che possiede quella saggezza, quel senso delle cose, quella profonda intelligenza degli altri che a me spesso fa difetto.
Ci completiamo, siamo come dice lui una "squadra".
Il mio amico appena qualche ora prima era stanco, dopo una settimana di lavoro intensa, ma sereno e contento, perché avrebbe dedicato il fine settimana alla famiglia, alle sue tre splendide bambine, in compagnia dei loro nonni, che dovevano partire dal loro paese in quel di Caserta alla volta di Roma, per stare assieme in occasione della "festa dei nonni".
E invece è toccato a lui tornare al paese, per sostenere lo strazio della morte improvvisa del padre.
Se la vita è una trama, un tessuto di legami, sentimenti, doveri, abitudini quotidiane, aspettative, nulla è più doloroso della lama acuminata che senza preavviso, senza ragione, con la violenza del fatto e del destino brutale, la squarcia in un punto, lasciando intravvedere dallo squarcio il mistero buio del suo senso inconoscibile.
So cosa significa perdere il Padre, ci sono passato. So che in quei momenti affiora un senso di colpa pesante e insensato, la sensazione di non aver fatto abbastanza, di non aver vissuto abbastanza quel rapporto, di aver lasciato che la quotidianità affogasse e diradasse più abbracci, più baci, più parole.
Tutto è insopportabile, inadeguato, vano e vacuo, anche le parole dette col cuore diventano frasi di circostanza.
C'è solo un momento in cui il groppo alla gola si scioglie e la morsa allo stomaco si allenta: quando, guardandosi allo specchio, una mattina, magari facendo la barba, si scorge nell'immagine riflessa qualcosa, uno sguardo, la piega della bocca, un piccolo sorriso, che apparteneva a Chi si è perduto, a Chi ci ha lasciato e ha chiuso gli occhi alla luce di questa vita, per aprirli per sempre, si spera, a una luce più grande, calda, luminosa, eterna.
Solo questo posso augurare al mio amico-fratello: che questo momento giunga presto.

sabato, ottobre 07, 2006

Un Prefetto "di ferro"

L'altra sera ho visto la terza puntata di "Anno Zero", questa volta dedicata alla mafia.
Pare che la nuova trasmissione di Santoro non faccia grandi ascolti, forse perché con l'uscita dalla scena governativa di Berlusconi anche il biondo-cinereo anchor man, ritornato dall'esilio televisivo, ha perso mordente.
Nè maggior aiuto sembrano dargli una ragazzina di nobili origini e alto lignaggio, che poco sembra poter rappresentare il punto di vista dei giovani d'oggi (tra studi stentati, telefonini, disoccupazione e call center), la pur bella e grintosa Rula Jebreal e il robespierre Marco Travaglio, che legge tutta la realtà esclusivamente negli atti giudiziari, anche lui con poco mordente vista l'eclissi del protagonista principale dei suoi libri e instant book.
La trasmissione ha aggiunto assai poco a quello che si sapeva e si sa della "nuova" mafia, e dell'inabissamento della strategia stragista del '92-93.
Ha toccato però un punto molto bello e alto quando ha parlato dell'ex Prefetto di Trapani Fulvio Sodano.
Sodano fu Prefetto di Trapani sino al 2003 e venne trasferito, senza il suo consenso e nonostante fosse già malato (di sclerosi laterale amiotrofica, s.l.a.).
Ora è in fase avanzata di malattia, ridotto su una sedia a rotelle, con un tubicino che gli entra in gola e lo fa respirare attraverso un c.d. "ventilatore", che gli pompa aria nei polmoni avendo perso la funzionalità della muscolatura polmonare, oltre che di tutti gli altri muscoli; riesce ancora a scrivere con la mano atrofica e contorta qualche parola a stampatello, assistito dalla moglie.
Si dice che Sodano fu trasferito perché cercò di evitare che un'impresa di calcestruzzi, confiscata alla mafia, tornasse in mano a imprenditori mafiosi trapanesi, grazie a una compiacente perizia di un funzionario dell'agenzia regionale siciliana del demanio, ora indagato per concorso mafioso, e dopo che con un passaparola, cui pare avesse partecipato anche il senatore forzista D'Alì, all'epoca sottosegretario agli interni e ora presidente della provincia di Trapani, e anche l'associazione locale degli industriali, era stato vivamente raccomandato alle imprese costruttrici di acquistare calcestruzzo da altre imprese, in mano a quegli imprenditori in odore di mafia che avrebbero potuto acquistare l'impresa confiscata ove posta in liquidazione e quindi venduta sul "libero" mercato.
Qualche malpensante, in qualche sito internet trapanese, giunge a ipotizzare che Sodano fu trasferito anche se non soprattutto per pressioni del senatore D'Alì, già sottosegretario al ministero dell'Interno e collega di partito del Ministro Pisanu.
Intervistato, Sodano ha confermato, come poteva, con cenni del capo e le lacrime agli occhi di essersi opposto alla "svendita" di quella impresa, di aver ricevuto qualche rampogna dal D'Alì, di esser rimasto solo e di esser sicuro che il suo trasferimento sia stata una punizione per aver cercato di fare soltanto il proprio dovere. E alla fine, con sforzo, ha scritto un breve messaggio di speranza che le cose possano cambiare, anche se ci crede poco.
Certo, se l'uomo non fosse malato, molto malato, l'impatto emotivo di quella intervista sarebbe stato assai minore; ma pare di capire che era malato, anche se in stadio meno grave, anche quando ne fu disposto il trasferimento.
E poi non è nemmeno questo quello che conta. Se la storia è vera, se cioé qualcuno ha allontanato un Prefetto solo perché stava cercando di opporsi ad una manovra speculativa per riportare sotto il controllo d'imprenditori "pungiuti" un'impresa già confiscata a mafiosi e che comunque dava fastidio a imprenditori mafiosi; e se questo fastidio era condiviso dall'associazione locale degli industriali, e spiaceva in qualche modo al potente politico di riferimento della zona (poco importa davvero il suo "colore" politico)è una storia agghiacciante e istruttiva.
E' la storia di uno degli "eroi" solitari dello Stato, di uno di quei funzionari che fanno onore allo Stato, e a cui lo Stato, nelle sue personificazioni politiche, fa disonore.
Diceva Brecht che sono felici solo i popoli che non hanno bisogno di eroi.
E aveva ragione, ma forse per ragioni opposte a quelle che sottintendeva.
E' paradossale che si debba essere e si sia eroi solo perché si fa il proprio dovere, cioé ciò che dovrebbe essere scontato, normale, nemmeno degno di lode particolare.
Ciò che dovrebbe essere ordinario, diventa straordinario, il funzionario qualunque di ordinaria diligenza diventa un eroe.
Ma quando lo Stato si lascia rappresentare in modo indegno, quando non protegge e anzi punisce i suoi servitori fedeli, e quelli rimangono soli, bene allora è proprio giusto definirli eroi.
E' una lezione anche per me, che mi ricordi sempre, attraverso l'immagine del povero prefetto Sodano, di fare "la cosa giusta", sempre e comunque, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi costo: perché sono figlio di un Uomo che chiamava lo Stato, di cui pure era fedele funzionario, con la "S" maiuscola.

venerdì, settembre 15, 2006

LA LEZIONE DI ORIANA FALLACI


Oriana Fallaci se ne è andata in una notte settembrina, nella sua Firenze. L'alieno con cui combatteva da anni, e che aveva approfittato della sua ultima grande battaglia contro il terrorismo islamico e del ritardo con cui aveva contrastato l'offensiva decisiva del cancro, ha vinto alla fine, come lei sapeva da almeno quattro anni.
Se una grande, grandissima donna, un'immensa scrittrice e giornalista, così bella, lucida, appassionata da far invidia ad una trentenne, lascia che l'alieno le invada il corpo per combattere una battaglia culturale, in realtà l'alieno non può aver vinto veramente; anche se ora Oriana Fallaci ha gli occhi chiusi e la sua voce è inaudibile, basterà aprire e rileggere i volumi della sua trilogia della civiltà per tornare ad ascoltarne la voce e a ritrovarne il pensiero forte, così inusuale ai tempi del pensiero "debole" da risultare insopportabile ai tanti capaci solo di pensieri deboli, flebili, quasi non-pensieri; così insopportabile che, non potendo negare la grandezza della persona, sono già cominciati i "distinguo" tra la Fallaci del "prima" e quella del "dopo" 11 settembre.
Credo che Oriana Fallaci avrebbe seppellito con disprezzo questo ennesimo dileggio, che è l'ultima ingiuria che si cerca di infliggerle.
Dopo aver letto "La forza della ragione" cercai e trovai indirizzo e numero telefonico di Paola, la sorella di Oriana, e spinto da un impulso di ammirazione e rispetto la chiamai, spiegando di essere semplicemente un lettore che voleva congratularsi con Oriana, farle giungere sentimenti di ammirazione e, per quel poco che poteva valere, incoraggiamento alla sua battaglia culturale.
La signora Paola mi spiegò che Oriana, proprio quel giorno, era andata a Milano per una visita medica o forse una chemioterapia, e con inusitata gentilezza annotò i miei numeri di telefono.
Potevo essere chiunque, un seccatore importuno o anche peggio, eppure Paola Fallaci fu cortese e disponibile.
Quella stessa sera di estate (due anni fa), Oriana mi chiamò. Ero a cena in un ristorantino sul mare, e sul mare scuro della sera estiva le parlai forse per quindici minuti, ascoltando una voce stanca ma bella, calda, intensa come la intensa bellezza del volto segnato da piccole rughe, incorniciato da lunghi capelli lisci, illuminato da occhi grandi e profondi, quel viso così bello che aveva fatto innamorare Alessandro Panagoulis, eroe della resistenza nella Grecia dei colonnelli, ucciso per saldare i conti con la sua tenace resistenza al regime.
Oriana Fallaci mi disse che aveva poco tempo, pochissimo tempo davanti, che non avrebbe potuto leggere il mio piccolo romanzo, che comunque le mandai con una dedica e una lettera carica di rispetto, ammirazione, gratitudine.
E quel poco tempo doveva spenderlo, aggiunse, per continuare a scrivere e a cercare di interpretare fino in fondo quel ruolo tragico di poco ascoltata Cassandra che aveva scelto di incarnare dinanzi al declino dell'Occidente e all'emersione della Eurabia (le stragi di Londra erano ancora, di poco, di là da venire).
E' curioso, ma del tutto emblematico, che Oriana Fallaci se ne sia andata in una notte di settembre, a qualche ora dal "memorial day" del primo quinquennio dell'11 settembre, mentre infuriano le reazioni al discorso del Papa a Ratisbona.
Spero che Oriana abbia avuto modo di sentire quelle frasi e quelle parole del Papa e che le siano state di conforto, perché finalmente la Chiesa cattolica ha detto ciò che per anni non ha saputo e voluto dire, adeguandosi al timore reverenziale che circonda questo pavido e incerto occidente di Eurabia circa ogni cosa che riguardi l'Islam.
Benedetto XVI è un Papa teologo, e forse per questo, pur non avendo il "carisma delle folle" di Giovanni Paolo II, non ha esitato a condannare l'idea della Jihad e che questa possa essere gradita a Dio: parliamo qui della jihad come guerra vera, che identifica il nemico nell'infedele, che pretende di imporre la propria visione religiosa con la forza ("la spada del Profeta", che campeggia nella bandiera araba), non della jihad che, è stato spiegato, sarebbe sforzo mistico di lotta dell'uomo con se stesso per affermare in se l'idea e la realtà di Dio.
Le reazioni sdegnate suscitate in tutto il mondo islamico danno ragione una volta di più a Oriana Fallaci (e a quel grande e coraggioso intellettuale che è Magdi Allam): non esiste, in effetti, un Islam "moderato", un Islam dialogante; e non può esistere sinché l'Islam non scioglie i nodi ambigui che intrecciano religione e politica, cose di Dio e cose degli uomini.
Al di là di personali giudizi sulle radicali differenze tra cristianesimo e islamismo (l'uno fondato su un Dio di amore e amico, che esalta tanto la libertà degli uomini da lasciare al cuore degli uomini la scelta se amarlo o meno, l'altro fondato su un Dio padrone, corrucciato e irato, che apprezza solo la sottomissione e non ama altra libertà che la propria) e sulle loro radici (il Dio cristiano si fa Uomo e muore per la salvezza dell'Uomo, il Dio islamico rimane lontano, algido e chiede che l'uomo muoia per dimostrargli incondizionata fedeltà), se la spada di Maometto non sarà riposta nel fodero, se i musulmani non comprenderanno, se mai lo potranno senza negare i fondamenti della loro religione, che la religione non può essere il fine della politica, né la politica il mezzo della religione, che questa idea abbassa e umilia la religione, non potrà mai porsi una vera linea di demarcazione tra un Islam buono e in grado di dialogare e un Islam fondamentalista che non condanna, quando non protegge e alimenta, i terroristi che usurpano il nome di Allah.
Gli avvenimenti di questi ultimi giorni, le parole del Papa, le reazioni del mondo islamico, il solito imbarazzo euroarabico nel condannarne la tracotanza, che vorrebbe chiudere la bocca al Capo della Chiesa, forse avrebbero fatto piacere a Oriana la "visionaria", la profetessa disarmata che aveva visto più e meglio, e il cui testimone è nelle mani di Allam e di quanti non hanno paura delle verità scomode me così necessarie.
La cecità dell'Eurabia è per tanti versi sconfortante: il suo declino economico, culturale e di valori si accompagna alla povertà del pensiero "debole", alla falsa idea di tolleranza come disponibilità alla sottomissione, alla cattiva coscienza per cui si accetta che le "enclave" musulmane costruiscano una società nelle nostre società, neghino i diritti delle donne, pretendano scuole islamizzate e coranizzate e rifiutino i crocifissi nelle nostre aule quale contropartita dei lavori "sporchi", sottopagati, usuranti che i loro uomini accettano di svolgere a salari più bassi finanziando il nostro sistema previdenziale, con quell'irrisolto complesso di colpa che deriva dal vecchio colonialismo e da vecchie vessazioni inflitte al mondo musulmano.
Era questo il clima che portava a vedere nel Nazismo una reazione legittima alle umiliazioni inferte alla Germania uscita sconfitta e distrutta dalla prima guerra mondiale, che alimentò la mollezza delle diplomazie europee, che consentì a Hitler di procedere indisturbato con occupazioni e annessioni, salvo il risveglio brusco dell'inizio della seconda guerra mondiale.
Oriana Fallaci parlava di Nazismo islamico, e così ne parla anche Magdi Allam: ma i nostri politici e intellettuali di complemento, preoccupati di un eterno appeacement con il mondo islamico, rigettano appelli e profezie, discutono su se e come si debba pretendere che l'Iran rinunci al nucleare, blandiscono hezbollah e Siria, rivalutano in qualche modo il regime di ordine di Saddam, si sciolgono in elogi e carezze all'Islam moderato, che è come l'isola che non c'è, si vergognano delle incontestabili radici cristiane della civiltà occidentale.
La libertà occidentale è la libertà che, ancor prima dell'Illuminismo e della rivoluzione francese, è stata affermata duemila anni fa da Cristo, proclamata nei Vangeli, sostenuta da quei "mujaheddin dell'amore" che erano i primi cristiani, resistenti al potere senza armi. Quei mujaheddin hanno vinto la loro battaglia spargendo solo il proprio sangue; questi mujaheddin islamici la perderanno, nonostante spargano tanto sangue di altri, perché la libertà è una vocazione naturale dell'uomo, parola incisa nel suo animo dal dito di Dio, e non di un profeta la cui spada è meno acuminata della verità.

giovedì, settembre 07, 2006

Missioni "pret-a-portér"

Destra o Sinistra, la vocazione provinciale ad interpretare in chiave di politica interna ogni scelta di politica internazionale non mi pare sia cambiata nel passaggio dal berlusconismo al prodismo-d'alemismo.
Come pure non mi pare sia mutato l'orientamento a fare del pacifismo un'arma "impropria" nella dialettica politica interna a seconda delle convenienze delle piccole botteghe dei piccoli partiti pacifisti.
Il Bertinotti ormai di governo e sempre meno di lotta, e il suo fido scudiero Franco Giordano (che io ricordo segretario provinciale di una FGCI al declino e vedi un po' che ha combinato tangentopoli...!), si affannano a "pompierare" i focherelli pacifisti che si riaccendono puntualmente alla sinistra della sinistra, cioé dalle parti del Diliberto castrista e chavista, del Pecoraro Scanio solecheghigna, della diaspora movimentista-trockista interna ferrandiana.
In questo li aiuta il sostanziale declino del pacifismo (vedi il sostanziale fallimento del raduno di Assisi) e l'ipocrisia dei "nomen": perché una missione di peace's keeping o peace's enforcing, se formalmente targata ONU, e se diretta a contenere gli ardori difensivi israeliani, è "cosa buona e giusta", e quindi spendibile anche dalla sinistra antiamericana e antisraeliana filopalestinese e sotto sotto filohezbollahiana e filoiraniana (in fondo "il nemico del mio nemico è mio amico", no?); mentre le spedizioni in Afganistan e Irak, fa niente se legittimate ex post dalla stessa ONU, e fa niente se orientate ad esportare la democrazia (con le prime elezioni libere in quei martoriati paesi), sono naturaliter "guerrafondaie" perché sporcate dall'iniziativa a stelleestrisce.
Intendiamoci: l'iniziativa di politica estera dalemiana è opportuna e segna un positivo dinamismo, anche se destinata a raccogliere meno di quanto si riprometteva (l'Italia rimane fuori dal "sestetto" che cerca di trattare con l'Iran la moratoria sul suo falso nucleare pacifico e autentico nucleare bellico).
Rivenderla, però, come una sostanziale discontinuità rispetto all'atlantismo berlusconiano è operazione di puro marketing elettorale interno, necessaria a tener buona e possibilmente coesa una maggioranza divisa praticamente su tutto (come dimostrano le polemiche sui contenuti della manovra finanziaria, e sulla sua entità).
L'ONU è davvero una foglietta di fico, che non può coprire la realtà: gli israeliani hanno accettato l'arrivo delle forze UNIFIL solo perché pressati dagli USA e dal nuovo "multilateralismo" di Condoleeza Rice; e gli USA hanno dovuto delegare ad altri la missione perché non potevano permettersi di mandare truppe in regioni dove esse sono quasi più invise che in Iraq, e di regalare un formidabile argomento propagandistico agli aiatollah iraniani; né avrebbero potuto tollerarlo Russia e Cina, grandi importatori ed esportatori in affari con Teheran e protettori non occulti, per interessi propri concreti, del "pazzo" Amadinejad.
Mentre si avvicina l'anniversario dell'11 settembre, grande è la confusione sotto il cielo, come diceva Mao Tse Dong, gli equilibri economici mondiali si ristrutturano verso il dragone cinese, l'Occidente declina smarrendo la sua identità e i suoi valori, l'Islam oscurantista e pre-medievale avanza anzitutto culturalmente con le sue indisturbate enclaves nelle società occidentali, il petrolio va rapidamente esaurendosi per l'inesausta sete energetica cui si aggiunge la poderosa spinta produttiva e consumistica cinese, il clima è cambiato e non promette nulla di buono (per il decisivo contributo sino-indiano specialmente, guardate cosa è accaduto proprio negli anni del boom economico di "Cindia").
E noi qui in Italia, ormai periferia delle periferie occidentali, stiamo a baloccarci con missioni "buone" e "cattive", tronfi discorsi prodiani alle truppe in partenza (e si criticava il berlusconismo militarista!!!), compiaciute interviste dalemiane, tese a farci sapere che dalla barca a vela era sempre aperta la linea diretta con l'amica "Condoleeza", furbate finiane dell'ultim'ora su impossibili ordini del giorno tesi a rivendicare continuità tra le missioni vecchie e nuove che mai e poi mai la maggioranza potrebbe permettersi di ammettere in pubblico, pena la sua immediata rottura con gli ipocriti pacifisti nostrani arcobalenisti.
Come diceva la Mondaini a chiusura di "Casa Vianello": che noia, che barba, che barba, che noia.

lunedì, settembre 04, 2006

Un minuto di silenzio per il calcio nel pallone


In questi giorni sto finendo di leggere un bellissimo libro di Oliviero Beha "Indagine sul calcio", che racconta le trasformazioni dell'ambiente e del fenomeno calcistico dai Mondiali di Spagna del 1982 sino alle soglie del Mondiali di Germania 2006.
Il volume non si occupa delle ultimissime vicende di "calciopoli", ma costituisce un contributo indispensabile per chiunque voglia comprendere come e perché il calcio è finito "nel pallone".
Dalle vecchie e nuove sudditanze arbitrali, a un panorama dirigenziale chiuso e autoreferenziale, ai guasti della sentenza "Bosman" che liberalizzò il trasferimento dei calciatori, alla televisivizzazione del calcio, ai diritti televisivi, ai doping farmacologici e sportivi, ai troppi quattrini guadagnati in modo rapido e spregiudicato, tutta la parabola (discendente) dei valori sportivi è analizzata in modo rigoroso e documentato.
E mentre è stata evitata, si potrebbe dire in zona Cesarini, l'ennesima puntata del rapporto ormai sempre più stretto tra calcio e giustizia (ordinaria e non solo sportiva), nell'incapacità dell'ambiente di autoriformarsi in tempo, e mentre l'attualità, purtroppo politica e non solo calcistica, sbiadisce il pur fresco ricordo della conquista del campionato del mondo, arriva oggi una notizia triste, triste, triste, come la canzone di uno sfortunato Ivan Graziani ("Firenze: canzone triste"), pure lui scomparso in modo molto prematuro.
Giacinto Facchetti, capitano dell'Inter e della Nazionale, già dirigente e da ultimo presidente dell'Inter, ha lasciato questa terra proprio oggi, stroncato da un tumore aggressivo e veloce, più veloce delle sue mitiche discese sulla fascia, quando inventò, prima di Sacchi, del sacchismo, di Capello, del capellismo, e dei tanti mega-allenatori superpagati del calcio moderno, la figura del terzino "fluidificante" (ora si dice e fa più fino, difensore esterno.
Facchetti aveva il viso pulito e bello dei ragazzi del '42 coi capelli corti, senza le mirabilie muscolari degli ultimi vent'anni ma col fisico asciutto e integro del vero atleta; aveva l'eleganza del tocco di palla, la velocità del cursore, il colpo di testa, e soprattutto la lealtà del difensore che non giocava a "spezzare le gambe", non faceva "falli da dietro", non mulinava gomiti e pugni, in un tempo in cui non c'erano le moviole né la prova televisiva e si poteva star certi di farla quasi sempre franca.
Come nelle grandi coppie del cinema (Stanlio e Ollio, Gianni e Pinotto, Totò e Peppino, Jerry Lewis e Dean Martin...) aveva un compagno fedele, il roccioso Tarcisio Burgnich, friulano scolpito nella pietra, con cui formava la coppia di terzini meglio assortita che si sia mai vista; quanto il primo era elegante, un vero fenicottero dalle gambe lunghissime, l'altro era sodo e magari anche sgraziato, ma quasi insormontabile (lo sormontò Pelé nel primo gol della quaterna rimediata in finale nel mondiale del '70, ma era Pelé, mica un Klose qualsiasi).
Fa male pensare che ancora qualche settimana fa, quando era già malato (e la notizia non doveva essere impenetrabile nel mondo calcistico), il solito Moggi lo abbia chiamato in ballo (da che pulpito) cercando di sporcarne l'immagine con le allusioni a "passaportopoli" e alla vicenda di Recoba.
Ma questo è il calcio di oggi, queste le figure e mezze figure, questi gli "uomini" (?!?), anche se nei "coccodrilli" dei giornali non si troverà nessuno che non si sciolga in lacrime, commozione e rimpianto per il "grande campione del calcio e della vita" che non calca più il campo della vita.
Io sono interista, ma questo non c'entra con il rimpianto per Giacinto Facchetti: la mia generazione era troppo piccola per ricordare in modo nitido la grande Inter di Angelo Moratti, ma non per non ricordare Facchetti (e Burgnich, e Mazzola, e Rivera, e Riva, e De Sisti, e tanti altri di quei mondiali di "Messico e nuvole") come alfieri di un calcio poco televisivo eppure così emozionante, in bianco e nero, senza muscolature poderose, senza sponsor, persino senza il nome dei giocatori sulle maglie; di un calcio di stadi affollati (quanti ricordi nel vecchio stadio della Vittoria di Bari, pieno zeppo all'inverosimile anche in serie C, e quanta malinconia per gli spalti semivuoti del San Nicola), di partite vissute attraverso i mitici radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto, con Enrico Ameri che dirigeva le danze dal "campo principale", contendendosi il palcoscenico sonoro con Sandro Ciotti ("Scusa Ameri...Scusa Ciotti...) in una rivalità sana e pulita d'altri tempi e ciascuno con i suoi tempi di radiocronaca (preciso, nitido, chiaro, essenziale Ameri, ruvido, immaginifico, rauco, passionale Ciotti).
Ecco. Sarà che sono anzianotto, ma è questo il calcio che mi manca.
E di questo calcio Facchetti era uno degli emblemi, il più bello, elegante, rassicurante.
Caro Giacinto, che la terra ti sia lieve.

giovedì, agosto 31, 2006

QUEL CHE RESTA DEL GIORNO

Devo ripetermi: sono inguaribilmente tardivo. Scopro ora, ben oltre un decennio dopo, e in un passaggio televisivo di fine estate, un film bellissimo, che ho accuratamente evitato perché avvinto al pregiudizio che si trattasse di un indigesto "polpettone" ambientato in quella atmosfera, all'apparenza asfittica, propria dell'Inghilterra post-vittoriana, tra le due guerre.
Ancora una volta faccio ammenda, e ammetto di aver sbagliato.
"Quel che resta del giorno", tratto dal romanzo di Kazuo Ishiguro, è un delizioso film "d'ambiente" che descrive la vita nella tenuta di un nobile inglese (Lord Darlington) tra le due guerre, e in particolare negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale.
"Sua Signoria", ossia Lord Darlington, si diletta di politica estera e, memore di un'amicizia con un nobile tedesco sbocciata durante la prima guerra mondiale, manifesta un orientamento filo-tedesco e una evidente ammirazione per la struttura "d'ordine" della società germanica sotto il regime nazista, chiudendo gli occhi sulla natura totalitaria del sistema hitleriano e sulla crescente persecuzione antiebraica.
Nell'universo chiuso della sua tenuta i rapporti sono rigidi sotto la guida del maggiordomo mister Stevens Junior che serve con assoluta dedizione come il padre mister Stevens Senior e della governante miss Kenton. Mister Stevens Junior, formatosi alla rigida scuola del padre, è un maggiordomo inappuntabile, intriso di senso del dovere e di assoluta fedeltà al padrone, pago di occupare un posto di osservazione privilegiato nel contesto in cui crede che i dilettantistici maneggi diplomatici di Lord Darlington possano davvero "fare la storia".
Il maggiordomo non lascia che nessun evento turbi la propria incrollabile fedeltà, a differenza di miss Kenton che vede sempre più lucidamente l'ingiustizia delle scelte del padrone (come il licenziamento di due profughe tedesche ebree necessario a non guastare la buona fama e i rapporti di Darlington con i diplomatici tedeschi).
Miss Kenton, innamorata di Mister Stevens, che pure la ama ma non lo confesserà mai, forse nemmeno a se stesso, non riesce a vincerne l'autismo sentimentale, e accetta di sposare un altro servitore che ha abbandonato la tenuta.
Morto Lord Darlington, la tenuta viene acquistata da un ricco americano, che a suo tempo aveva partecipato a una conferenza internazionale ivi svoltasi in rappresentanza degli Stati Uniti, e Mister Stevens torna al suo servizio e al ruolo (l'unico) che sappia interpretare.
Film complesso, giocato su più piani (da quello storico-sociale sulla nobiltà e società inglese, quasi al tramonto dell'impero, a quello sentimentale-esistenziale), recitato da attori di grande finezza e sensibilità, dai tempi, colori e fotografia perfetti, pur potendosi considerare un capolavoro non vince nemmeno uno degli otto oscar cui era candidato.
Cosa mi ha preso di questo film, dai tempi lunghi, fitto di dialoghi e silenzi, primi piani e campi medi, di taglio teatrale?
Anzitutto, il titolo. Cosa resta del giorno è il tramonto, e il film riguarda appunto più tramonti: dalla mezza età di mister Stevens, che ricorda i giorni "luminosi" (?!?) di Lord Darlington e degli inappuntabili ricevimenti nella tenuta, a quella serena ma infelice di Miss Kenton, che ha sposato senza amore e ripone ormai ogni speranza nella figlia e nel nipotino che essa porta in grembo, dal patetico "sfiorire" delle velleità di Lord Darlington, ingenuamente convinto di poter essere "facitore" della Storia, con la S maiuscola, al lento ma inarrestabile declino della potenza inglese e del suo impero, ed in effetti di un'epoca centenaria che toccò il suo culmine con la regina Vittoria, all'inesorabile trasformazione dei rapporti sociali e "di classe", segnata dal rifiuto di Miss Kenton a continuare ad avvalersi del "privilegio" di servire una casata tanto onusta di tradizione e gloria.
Nel film e nei suoi molti piani di lettura non è difficile scorgere anche una metafora della vita nella sua tensione tra i poli opposti del dovere e dell'accettazione dei ruoli e del sentimento e dell'aspirazione alla felicità, con la rassegnata "morale" finale così bene espressa dal "rientro" di Mister Stevens e Miss Kenton nei rispettivi gusci.
Eppure, nella scena finale, in cui il nuovo proprietario americano della tenuta cattura un colombo entrato per caso in uno dei grandi saloni, e lo libera, nello sguardo di Mister Stevens che rimane a comtemplarne il volo, si coglie, se non una speranza, un principio di nuova consapevolezza: la vita è andata, ma, piuttosto che tenersi al caldo nel "nido" di un ruolo, meglio sarebbe stato spiccare il volo, libero, con i pericoli e le opportunità della libertà e la pienezza di vita che essa solo sa dare.
Un capolavoro, non c'è dubbio.
Leggerò il romanzo.

lunedì, agosto 07, 2006

E la chiamano estate


Una grande e struggente canzone di Bruno Martino, cantante confidenziale anni '60 scomparso qualche anno fa (più introverso e meno romantico forse dell'altro cantante dello stesso tipo, Nico Fidenco, credo tutt'ora in qualche attività nei revival televisivi e di piazza), da il segno di questa estate, tra bolle di calore, temporali e acquazzoni subtropicali, sommosse di piazza (tassisti e calciopoli) e guerre libanesi.
Non che le estati di pochi o tanti anni fa non conoscessero eventi più o meno negativi e luttuosi (nel 1968, era di agosto, l'invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati del patto di Varsavia, nel 1982 la "vecchia" invasione israeliana del Libano, nel 1985 il disastro della frana di Stava, nel 2000 l'affondamento del sommergibile Kursk...).
Forse era diversa la percezione di quegli eventi, come appunto un acquazzone che scoppiava più o meno lontano o vicino ma poi si esauriva, e si tornava ai materassini di gomma, alla "stessa spiaggia, stesso mare", alle "pinne, fucile ed occhiali", a scrivere "t'amo sulla sabbia", alle angurie da mangiare in riva al mare nelle sere più fresche.
Ora invece, finiscono tra parentesi proprio i riti tranquillizzanti della quotidianità estiva, le canzoni d'estate durano al massimo un'estate, il bollettino degli incidenti stradali non conosce pause, le vacanze non sono forse mai state così piene di angosce, tutto si consuma in un eterno presente perché il futuro è una scommessa, si progetta poco e niente della vita.
Forse per questo abbiamo bisogno di anestetizzarci con euforie collettive (ma il mondiale vittorioso sembra finito da un pezzo e alle finestre rimangono sparute bandiere dimenticate o non rimosse per pigrizia) passeggere come acquazzoni estivi, che lasciano un clima ancor più umido e appiccicaticcio.
Umido e appiccicaticcio è il clima morale, e non solo alle nostre latitudini.
Israele ha ragione, si difende, intravvede dietro il turbante e la barbetta dell'occhialuto Nasrallah il viso cattivo e sfigato degli ayatollah iraniani, ma poi fa una ecatombe di donne e bambini, che saranno pure le moglie e i figli degli hezbollah, ma non è un bel vedere di cadaveri calcinati.
Condoleeza ha scoperto il multilateralismo, ma nemmeno lei sa come si esce dal pantano iracheno, e cosa si può fare in concreto per contrastare e vincere la battaglia della democrazia in società islamiche che hanno cadenze civili, quanto ai diritti, premedievali, segmentate in tribù, con uomini baffuti o barbuti e donne velate o burkate.
Castro è un dittatore-satrapo che opprime la sua isola, ma l'alternativa di una liberazione cubana potrebbe essere il ritorno puro e semplice agli anni di Fulgencio Batista, quando era il bordello e la casa da gioco del cortile di casa degli U.S.A. (e la prostituzione giovanile o addirittura infantile dell'Avana ne è la scoraggiante premessa).
Il Papa non mediatico si sforza di guidare la grande nave della Chiesa universale, ma le chiese particolari sono semivuote, qualche volta popolate di preti impresentabili, e il risveglio delle coscienze sembra così remoto.
Le baruffe chiozzotte parlamentari proseguono indisturbate, tra ministri di lotta e di governo che incarnano il peggior populismo (da Di Pietro al ministro rifondarolo della solidarietà sociale, tal Ferrero se non mi sbaglio), furbate dilibertiane per strappar voti nell'area dei c.d. movimenti, improvvisate agostane di Casini, cafonate more solito di Berlusconi, dichiarazioni inattendibili di Prodi circa la forza della sua sfilacciata maggioranza.
Molto stanco e un po' nauseato torno a scrivere sul mio solitario blog dopo un mese, e di una cosa sola sono certo: erano meglio le estati dei '60 e '70, magari anche degli '80, perché dal '90 in poi la convulsione della caduta dei blocchi, il terrorismo islamico, la crisi della prima repubblica, la nascita di una scalcinata seconda repubblica, la perdita di virtù civili e di senso dei valori e dell'esistenza sono state esiziali per lo spirito pubblico e anche per l'umore privato.
Certo ogni cambiamento è travaglio, dall'inabissamento dei vecchi equilibri ne nasceranno altri, qualcosa di buono alla fine spunterà all'orizzonte.
Ma se penso che, negli anni '70, il musical "Hair" dipingeva ottimisticamente il 2000 come l'era del progresso, dell'illuminazione, della pace, dell'ottimismo, perché era dell'Aquario (e io sono un aquario!), sorrido amaro, almeno per il momento.
Quella di Bruno Martino era, nonostante tutto, un'estate; questo mi sembra invece "il lungo inverno".

domenica, luglio 09, 2006

VIVA L'ITALIA

Stamattina sono uscito per comprare giornali e sigarette. La città delle domeniche estive è bella, tranquilla, seguendo i parallelepipedi d'ombra dei palazzi, lasciando scorrere lo sguardo sulle strade deserte, guardando le finestre cieche e i balconi fioriti.
Tra qualche ora l'Italia si sveglierà febbricitante di passione calcistica e se l'Italia vince e sarà tetracampion (come direbbero i brasiliani)sarà una grande festa.
In questa frenesia di festa, baldoria, euforia collettiva, c'è, senza fare facili sociologismi, il bisogno di riscoprire che siamo vincenti, che non c'è solo il declino, che si può convivere e appassionarsi a un'identità comune al di là dell'eterna guerra delle corporazioni, delle lobby, dei partiti e partitini, delle cordate, dei furbetti del quartierino e dei furboni del condominio dei poteri forti, delle intercettazioni globali (altro che "Echelon"!), e dei titoli sparati sui giornali, delle richieste di amnistia per calciopoli e dei processi sommari che rischiano di creare un contenzioso infinito (non ha detto Della Valle che andrà alla Corte europea di Strasburgo?).
Tutto si mischia in questa temperie calcistica, tutto si ferma e si sospende: eppure l'Italia oggi non sono solo le piazze e i maxischermi, i cortei di motorini e di auto imbandierate, le ragazze abbronzate e provocanti, i ragazzi a mostrare i pettorali palestrati e urlare; oggi, come ieri, come domani, ci sono i più sfortunati, gli anziani soli che boccheggiano soli nelle piccole case coi ricordi polverosi, i malati che inseguono la loro personale vittoria (la vita e la guarigione) nelle corsie degli ospedali, la nostra vita precaria, fatta di piccole gioie e grandi tragedie.
Viva l'Italia, sì, e vinca l'Italia; il Padreterno, neutrale per definizione, ricordi che il suo Vicario in terra abita a Roma e non a Parigi, non dimentichi che la Francia è molto laica, e anche tanto presuntuosa nella sua idea di autosufficienza e grandeur. E se possibile, ci dia anche un "aiutino". Ma soprattutto pensi che, chissà, forse una vittoria dell'Italia potrà dare un sussulto di gioia anche a chi soffre e ha ben altro a cui pensare che a un pallone che rotola sul prato verde dello Stadio dove Hitler voleva celebrare i successi della razza ariana e si trovò, scornato, ad assistere al successo del nero Jesse Owen.
E se andasse male, poi, pazienza, è più importante vincere altre battaglie, quelle quotidiane dei vecchi, dei poveri, dei malati, delle famiglie, della solitudine, dell'infelicità, di Pessottino che è caduto nel buco nero della depressione e che deve tornare alla vita, a sua moglie, alle sue figlie.
Ma se va bene, in fondo, è meglio.

giovedì, giugno 29, 2006

L'anticiclone delle Azzorre

Da Roma in Puglia ieri il cielo era bianco di umidità. La cappa di afa sembrava un mantello steso a nascondere il cielo ai dannati della terra.
Il termometro non è sceso al di sotto dei 37 gradi, con punte di 42 sulle propaggini pugliesi dell'Appenino.
Tutto bolliva, tra cantieri di lavoro, rallentamenti, code per incidente, con i volontari che distribuivano bottigliette d'acqua, ovviamente a temperatura ambiente, e quindi calda.
Qualche utilitaria o vecchia berlina si avventurava in autostrada a finestrini aperti e non so se e come conducente e passeggeri siano riusciti ad arrivare vivi alla loro destinazione.
C'è qualcosa di sinistro, ormai, anche nel lessico meteorologico. Dalle radio e dai canali televisivi s'insiste che questo inferno bianco d'afa è dovuto all'alta pressione africana, che fa da contraltare alla bassa pressione artica.
Già detta così la condizione climatica mette ansia; in quell'alta pressione africana c'è un riflesso del mistero e dell'orrore del cuore nero dell'Africa nera da viaggiatori dell'ottocento, da lettori di antiche gazzette a quattro facciate che si chiedevano ansioni che fine avesse fatto Livingstone, da cuore di tenebra congolese di conradiana memoria.
E in quella bassa pressione artica come non avvertire il senso sgomento della solitudine degli omologhi esploratori dei ghiacci, la ricerca febbrile del comandante Umberto Nobile e della sua mitica tenda rossa fra le macerie del dirigibile Italia?
Non basta la fresca immagine dell'annunciatrice di Sky Meteo e i suoi eufemismi circa il cielo soleggiato e il lieve ulteriore aumento delle temperature.
In questo scenario climatico da day after tomorrow ci vorrebbe il viso simpatico, arguto, rassicurante, da nonno affettuoso, del colonnello Edmondo Bernacca, il vero inimitabile antesignano della metereologia d'intrattenimento (altro che il supponente con falso low profile Fabio Fazio!).
Solo Bernacca potrebbe rassicurare, con la competenza del colonnello dell'areonautica a riposo o prossimo alla pensione, con la bonomia del vecchio militare che si è occupato per una vita di isobare e millibar, con l'arguzia saggia dei sessantenni d'un tempo, che non si tingevano i capelli e non conoscevano le lampade UVA.
Ma Bernacca non avrebbe mai parlato di alta pressione africana o bassa pressione artica.
Nel suo lessico la prima era il "macho" anticiclone delle Azzorre, che già a chiamarlo così suggerisce l'idea positiva di qualcosa che protegge, e non minaccia; la seconda, invece, la depressione islandese, come un'algida ma affascinante vichinga dagli occhi di ghiaccio.
Si dirà: come che la si chiami è un'afa boia.
Vero, ma poichè il caldo e la sua sopportazione sono anche collegati con le nostre percezioni e sensazioni, con nostro clima psicologico, può non essere indifferente confrontarsi con qualcosa di meno minaccioso di questa alta pressione africana; che appunto preme dall'alto, schiaccia, annichilisce, con la forza implacabile, misteriosa, irresistibile di un rito tribale.
Nelle città nemiche della natura, negli uffici e case della giungla d'asfalto, nei canyon urbani, in queste grandi bolle sataniche che sono gli agglomerati urbani, è più difficile sopportare l'alta pressione che l'anticiclone.
O no?

giovedì, giugno 22, 2006

Chi è senza divano scagli la prima pietra?

Il miglior commento che ho letto sulla squallida vicenda di "Raiopoli", ossia sui traffici tra veline e portaborse per promuovere gli ingaggi televisivi di queste ragazze di belle (??) speranze, è stato quello di Lina Sotis sul Corriere della Sera di ieri.
Si ha un bel dire che "così fan tutte" (e tutti), e che se non c'è vera costrizione non c'è concussione; questi sono discorsi forensi e giudiziari che lasciano il tempo che trovano. E' possibile, forse probabile, che quei portaborse la "sfangheranno" e non è detto che le protagoniste dei loro discorsi "porcelli" non ne usciranno con rinnovata notorietà e qualche contratto televisivo più vantaggioso.
Ed il punto non è nemmeno se la Rai di centrodestra sia stata più sentina di vizi di quella di centrosinistra: il potere e il sotto-potere, il governo e il sottogoverno esigono sempre i propri dividendi, siano tangenti, contributi ai partiti, incarichi e prebende, posti di lavoro, divani ministeriali con bonazze scosciate.
E' che è francamente disarmante pensare che quegli uomini, un po' grassocci, un po' vecchiotti, che parlano tra loro con il tipico linguaggio casermesco, che sembrano la riedizione di personaggi della commedia pecoreccia cinematografica degli anni '70, siano in modo diretto o indiretto, i "reggitori" delle cose pubbliche.
Da un re mancato, cresciuto senza una corte vera e costretto a inventarsi una specie di "corte dei miracoli", cresciuto circondato di sorelle e con un padre severo, distaccato e lontano, ci si può anche attendere discorsi come quelli intercettati e "sparati" sui giornali in questi giorni. I Savoia seppero fare anche di peggio, in fondo, e anche l'antenato unificatore d'Italia fu uomo nel privato alquanto greve e rozzo, tutt'altra pasta rispetto al padre Carlo Alberto, tanto da far sospettare che non fosse il suo vero erede.
Ma questi portaborse campano dalla politica, campano dai partiti e dalle istituzioni, qualche volta sono anche "graziosamente" destinatari di seggi parlamentari, insomma campano alle nostre spalle, cioé campano di danaro pubblico, siamo noi che li paghiamo.
Sarebbe lecito, dunque, attendersi almeno un minimo di decenza, di pudore nell'utilizzare il loro potere, le macchine e i divani ministeriali.
E gioverebbe di più alla credibilità dei loro "mentori" una dissociazione almeno dalla grevità dei comportamenti, anziché le alte grida al complotto.
Sono tutt'altro che giustizialista, credo che le intercettazioni vadano usate con discernimento, ricordo che Binnu Provenzano è stato catturato senza intercettazioni, coi vecchi metodi investigativi di una volta, che richiedono più tempo e fatica e consentono molte meno "uscite" trionfanti in conferenze stampa radio-tv ma che costituiscono il vero cuore del lavoro di polizia giudiziaria e criminale.
Questo però non giustifica che si guardi solo al protagonismo di certi PM (che pure è innegabile), o alla sincronia sorprendente di certi esiti giudiziari, quando lo "spirito pubblico", come ha detto bene, devo riconoscere, Piero Fassino a Ballarò, segna un punto così basso.
Perché siamo caduti così in basso?
Un tempo c'erano i partiti, che funzionavano male certo, con le loro correnti, i signori delle tessere, le spartizioni d'influenza elettorale del territorio; ma almeno esisteva un cursus honorum, dalle sezioni ai consigli di quartiere, a quelli comunali, provinciali e regionali; c'erano, bene o male, i congressi dei partiti, un minimo meccanismo di controllo democratico, una formazione alla politica, ideologie e qualche ideale.
Con la crisi della prima repubblica, la scomparsa dei partiti di massa, i partiti-azienda, i partiti-comitati elettorali, i partiti-leader è venuta meno quella minima coesione democratica e la politica è diventata guerra per bande d'interessi, spartizione di risorse tra tribù, clan, capiclan.
Il vuoto della politica è colmato dai poteri (banche, imprese, chiesa, magistratura, burocrazia, televisioni...) e ciascuno di essi è al suo interno frammentato, e soprattutto ciascuno gioca in proprio.
Il senso delle istituzioni, il senso dello Stato si disperde in mille rivoli, generalmente intorbidato dagli interessi oligarchici, e risplende solo, di tanto in tanto e a fatica, nel sacrificio anonimo quotidiano di quelli che "fanno il proprio dovere" e come il capitano Bellotti de "Il giorno della civetta" mangiano solo la poca razione del pane dello Stato e si accontentano di quella.
Questi sì sono veri uomini e donne, e dati i tempi sono quasi degli eroi.
Gli altri, che si riempiono le tasche e le ganasce, che si sollazzano con le veline (e/o con i velini), che siedono indegnamente su scranni di organi elettivi e che dovrebbero rappresentare la Nazione (!!!!), sono nemmeno ominicchi e quaquaraquà.
Sono niente.
Anzi, come si dice in Sicilia: Nuddu miscato a nniente.

lunedì, giugno 19, 2006

Domani è un altro giorno (?)

Domani è un altro giorno

E' uno di quei giorni che ti prende la malinconia
che fino a sera non ti lascia più
la mia fede è troppo scossa ormai ma prego e penso fra di me
proviamo anche con dio non si sa mai
e non c'è niente di più triste in giornate come queste
che ricordare la felicità
sapendo già che è inutile ripetere:
chissà ?
Domani e' un altro giorno si vedrà
è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita
bilancio che non ho quadrato mai
posso dire d'ogni cosa che ho fatto a modo mio
ma con che risultati non saprei
e non mi sono servite a niente esperienze e delusioni
e se ho promesso non lo faccio più
ho sempre detto in ultimo :
ho perso ancora ma
domani è un altro giorno, si vedrà
è uno di quei giorni che
tu non hai conosciuto mai
beato te si beato te
io di tutta un'esistenza spesa a dare,
dare, dare .... non ho salvato niente, neanche te
ma nonostante tutto io non rinuncio a credere
che tu potresti ritornare qui
e come tanto tempo fa ripeto :
chi lo sa ?
Domani è un altro giorno si vedrà
e oggi non m'importa
della stagione morta
per cui rimpianti adesso non ho più
e come tanto tempo fa ripeto :
chi lo sa ?
Domani e' un altro giorno si vedrà
domani e' un altro giorno si vedrà.

Capita di svegliarsi con una canzone in testa e di non riuscire a liberarsene; come se essa racchiudesse, almeno in quel momento, il senso complessivo che, in un punto del tempo, si avverte della vita.
A me è capitato oggi, con la canzone della Vanoni, che ho sentito dal vivo l'ultima volta in una serata fredda e umida dei primi di gennaio, in concerto con Gino Paoli al "Teatroteam" di Bari, una di quelle tensostrutture periferiche che sostituiscono i teatri, nel nostro caso il Petruzzelli ancora di là da ricostruire.
Mi riconosco in ogni parola, e nemmeno io so quadrare i bilanci, anzi non mi provo nemmeno a farli: nella partita doppia dare-avere sono una vera frana, ho una propensione nulla alla gestione contabile, si tratti di soldi o di sentimenti, e non è detto che debba essere un titolo di vanto, anzi.
Ma si può immaginare un romantico curvo sul libro dei conti, a incolonnare cifre esistenziali?
Di più, per un romantico è pericolosissimo cimentarsi nei bilanci: Cesarone Pavese ci provò in una stanza d'albergo cinquantasei anni fa, e Luigi Tenco lo stesso trentanove anni fa, ed è finita come sappiamo.
E poi. I bilanci hanno un senso se, accanto al consuntivo si redige un preventivo, si sceglie come investire e su cosa, come ripartire le risorse per le varie spese.
Si può immaginare un romantico che decide come investire i suoi sentimenti, quanto e chi amare, dove stabilire il limite di spesa di se stesso?
Temo proprio che sia impossibile. Almeno lo è per me.
Certo, investendo dissennatamente se stessi, senza far conto della remunerazione dell'investimento, si fa come quei commercianti che comprano, comprano, comprano senza preoccuparsi se e quanto venderanno, e che vanno poi, quasi infallibilmente, a fallimento.
Ma io penso che tutto sommato è meglio essere debitori verso se stessi che creditori verso gli altri: come dice Ornella meglio dare, dare, dare, che pensare o forse illudersi di ricevere, anche se qualche volta è bello anche ricevere. Anche se dipende da chi.

domenica, giugno 11, 2006

Compagni di scuola

Compagno di scuola

Davanti alla scuola tanta gente
otto e venti, prima campana
"e spegni quella sigaretta"
e migliaia di gambe e di occhiali
di corsa sulle scale.
Le otto e mezza tutti in piedi
il presidente, la croce e il professore
che ti legge sempre la stessa storia
sullo stesso libro, nello stesso modo,
con le stesse parole da quarant'anni di onesta professione.
Ma le domande non hanno mai avuto
una risposta chiara.
E la Divina Commedia, sempre più commedia
al punto che ancora oggi io non so
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito.
Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene
perché, ditemi, chi non si è mai innamorato
di quella del primo banco,
la più carina, la più cretina,
cretino tu, che rideva sempre
proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole,
gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto
sotto il banco.
Mezzogiorno, tutto scompare,
"avanti! tutti al bar".
Dove Nietsche e Marx si davano la mano
e parlavano insieme dell'ultima festa
e del vestito nuovo, fatto apposta
e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te)
e le assemblee e i cineforum i dibattiti
mai concessi allora
e le fughe vigliacche davanti al cancello
e le botte nel cortile e nel corridoio,
primi vagiti di un '68
ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare!
E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te...
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola, compagno per niente
ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?

Notte prima degli esami

Io mi ricordo quattro ragazzi con la chitarra
e un pianoforte sulla spalla,
come i pini di Roma la vita non li spezza,
questa notte è ancora nostra,
come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati.
Le bombe delle sei non fanno male,
è solo il giorno che muore, è solo il giorno che muore.
Gli esami sono vicini e tu sei troppo lontana dalla mia stanza,
tuo padre sembra Dante e tuo fratello Ariosto,
stasera al solito posto, la luna sembra strana
sarà che non ti vedo da una settimana.
Maturità t'avessi preso prima, le mie mani sul tuo seno
è fitto il tuo mistero,
e il tuo peccato è originale come i tuoi calzoni americani,
non fermare ti prego le mie mani
sulle tue cosce tese, chiuse come le chiese
quando ti vuoi confessare.
Notte prima degli esami, notte di polizia,
certo qualcuno te lo sei portato via,
notte di mamme e di papà col biberon in mano,
notte di nonne alla finestra, ma questa notte è ancora nostra,
notte di giovani attori di pizze fredde e di calzoni,
notte di sogni di coppe e di campioni,
notte di lacrime e preghiere,
la matematica non sarà mai il mio mestiere,
e gli aerei volano alto tra N.York e Mosca,
ma questa notte è ancora nostra,
Claudia non tremare, non ti posso far male, se l'amore è amore.
Si accendono le luci qui sul palco
ma quanti amici intorno che mi viene voglia di cantare,
forse cambiarti, certo un po' diversi
ma con la voglia ancora di cambiare,
se l'amore è amore - se l'amore è amore - se l'amore è amore -
se l'amore è amore - se l'amore è amore ...

Giulio Cesare

Eravamo 34 quelli della terza E
tutti belli ed eleganti tranne me.
Era l’anno dei mondiali quelli del '66
la regina d'Inghilterra era Pelè.
Sta crescendo, come il vento questa vita mia
sta crescendo, questa smania che mi porta via
sta crescendo come me.
Eravamo 34 quelli della terza E
sconosciuto il mio futuro dentro me,
e mio padre una montagna troppo alta da scalare
nel paese una coscienza popolare.
Sta crescendo, come il vento questa vita mia
sta crescendo, questa rabbia che mi porta via
sta crescendo come me.
La giovane Italia cantava ehi ahi ha ha,
Davanti alla scuola pensavo viva la libertà,
tu dove sei, coraggio di quei giorni miei
coscienza, voglia e malattia di un canzone ancora mia,
ancora mia.
Nasce qui da te, qui davanti a te, Giulio Cesare.
Eravamo 34 e adesso non ci siamo più
e seduto in questo banco ci sei tu,
era l'anno dei mondiali quelli dell'86,
Paolo Rossi era un ragazzo come noi.
Sta crescendo, come il vento questa vita tua
sta crescendo, questa rabbia che ti porta via
sta crescendo come me.
L’estate è nell’aria brindiamo alla maturità,
l’ Europa è lontana, partiamo, viva la libertà
tu come stai ragazzo dell'86
coraggio di quei giorni miei
coscienza, voglia e malattia di un canzone ancora mia,
ancora mia.
Nasce qui da te, qui davanti a te, Giulio Cesare.

E' un trittico di canzoni di Antonello Venditti, notissime alla mia generazione ma di certo non sconosciute ai "giovani d'oggi" (espressione che titolava l'ultimo film della serie di Don Camillo, imparagonabile a quelli "veri" con Gino Cervi e Fernandel).
La seconda canzone della serie ha dato titolo anche a un recente film, che come sempre vedrò in pay per view ("Notte prima degli esami").
Sono canzoni che, per me, hanno il sapore dei primi anni settanta, il lustro nel quale (dal 1971 al 1976) si è racchiusa l'esperienza del liceo classico, il "Quinto Orazio Flacco" di Bari, che per Bari è quanto dire il "Giulio Cesare" di Roma, protagonista della terza canzone.
Il senso complessivo alle altre due canzoni lo da la prima "Compagno di scuola", che richiama una categoria dello spirito nitida e diversa da quella della "amicizia", quanto questa è diversissima da quella della "colleganza".
Coi colleghi c'è la condivisione di una condizione di lavoro, di problematiche comuni, di interessi omogenei.
Con gli amici c'è l'affinità di modi di essere e di sentire, il dialogo, il sostegno e la confidenza, la spalla su cui piangere, magari, i momenti felici e infelici.
Con i compagni di scuola c'è qualcosa di diverso, e molto di più: l'iniziazione alla vita, alla dimensione sociale dell'esistenza, la fuoriuscita dal guscio familiare, la condivisione dei turbamenti amorosi, delle passioni politiche, del senso straniato e straniante dell'adolescenza, quando si mollano gli ormeggi del porticciolo dell'infanzia e si affronta sulla stessa imbarcazione (la classe che raccoglie i compagni di scuola) il mare della vita.
Per questo il legame coi compagni di scuola è legame di sangue, patto iniziatico, linguaggio cifrato che si ritrova quando ci si rivede, anche dopo quarant'anni.
La vita divide e separa, certo. Ma quando ci si ritrova, magari un po' ingrassati, con le rughe, coi capelli spruzzati di grigio, coi primi acciacchi dell'età, negli sguardi reciproci rimane l'immagine ferma e immobile dei quattordici-diciotto anni, i soprannomi di un tempo, il sentimento di appartenenza di tutti a ciascuno, e di tutti a un tutto unitario, la propria classe.
C'è una linea sottile che divide la spontaneità, freschezza e magia del ritrovarsi dalla pateticità dell'amarcord, dalla malinconia sottile che pervade l'inevitabile constatazione delle "ingiurie" del tempo e della vita.
E' difficile non varcare il confine: ed io, infatti, proprio per non varcarlo non ho mantenuto consuetudine di vita coi miei compagni di scuola. Li vedo poco, purtroppo spesso in questa fase della vita ai funerali dei genitori (mi è accaduto appena tre giorni fa), perché è passato il tempo dei matrimoni, e prima ancora quello delle lauree. E so che, prima o poi (ma speriamo più tardi che mai) ci rivedremo ai "nostri" funerali, e quando non li rivedrò sarà perché staranno celebrando il mio.
Ma, quando li rivedo, e quando mi rivedono, non c'è bisogno di raccontarsi nulla, e non conta davvero raccontarsi nulla; non importa cosa si è diventati, in meglio o in peggio, se si ha la pressione alta o bassa, se si è ancora sposati o già separati e divorziati, se i figli vanno bene o male a scuola (per chi ha figli), se si abita ancora nel vecchio quartiere o si è cambiato rione o addirittura città o nazione.
Si è semplicemente, e per sempre, compagni di scuola, e dietro le rughe, le pance, i capelli grigi, si scorgono i capelli lunghi, i fisici, i visi appena coperti di lanugine barbosa, l'acne più o meno soffusa o aggressiva, degli anni verdi.
Si è i ragazzi che si è stati e che si rimane dietro la scorza rugosa degli anni, come una castagna fresca nel suo guscio acuminato.

domenica, giugno 04, 2006

La guerra dei mondi


Ho visto ieri su uno dei canali pay per view di Sky "La guerra dei mondi", remake spielberghiano di un film del 1953 (regista Byron Haskin) e sopratutto del celeberrimo sceneggiato (o drammatizzazione?) radiofonica con cui Orson Wells nella trasmissione "Mercury Theatre on the Air" terrorizzò, suo malgrado, il New Jersey la sera del 30 ottobre 1938, raccontando un'immaginaria invasione aliena, con astronavi che emergevano dal sottosuolo e distruggevano uomini e cose.
Si tratta dell'adattamento, come è noto, del romanzo di Herbert George Wells, pubblicato nel 1897 e ambientato nella nebbiosa Londra di fine secolo, la stessa teatro delle gesta di Jack lo squartatore.
C'è un filo rosso che, probabilmente, unisce i tre diversi contesti storici.
La Londra degli ultimi anni dell'800, all'apice della sua potenza imperiale, già avvertiva probabilmente, almeno nei suoi spiriti più sensibili e lungimiranti, lo spettro di quella che, benché superata in ferocia ed efferatezza dalla seconda guerra mondiale, è e rimarrà per sempre "la grande guerra".
L'America di fine anni '30, benché in ripresa rispetto al crollo del 1929, non poteva non avvertire i tuoni minacciosi, di là dell'Atlantico, di un conflitto che sarebbe scoppiato dopo meno di un anno dal 30 ottobre 1938, con l'invasione nazista della Polonia.
Il Mondo del 2005 guarda sgomento all'immagine indelebile delle Twin Towers centrate dagli aerei passeggeri scagliati da Atta e complici, alla guerra in Iraq, all'Iran che procede verso l'arma nucleare, al terrorismo islamico insediatosi nel giardino di casa.
La fantascienza può dar corpo ai sogni e agli incubi, a seconda dei periodi storici.
Nel 1977 l'aspirazione alla pace, l'idea di un progresso benevolo e benefico, gli echi non del tutto spenti del '68, dei valori e delle utopie della generazione dei figli dei fiori, costituirono il retroterra culturale nel quale Steven Spielberg potè collocare, in modo efficace e suscitando un'ondata di emozione e commozione (come sempre riesce a questo ineguagliabile regista-produttore, in ogni sua iniziativa), l'edificante favola di "Incontri ravvicinati del terzo tipo", con i suoi alieni diafani e angelicati, l'apoteosi di colori e suoni delle astronavi aliene, l'indimenticabile lunga sequenza dell'arrivo dell'astronave madre sul pizzo del diavolo, con successiva edizione rimpolpata dalle immagini dell'interno dell'astronave.
Certo gli effetti speciali curati da quello stesso Douglas Trumbull di "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick (1968) si erano affinati, senza poter raggiungere le vette della moderna tecnologia digitale (ma è un po' come con Biancaneve e i più recenti cartoon della Disney: quale ha maggior poesia e suggestione?); ma in "Incontri ravvicinati" soffiava un vento leggero e fresco di speranza e ottimismo che il grandioso affresco di "2001" non aveva e non voleva avere nella sua visione angosciante di un futuro dominato dallo scontro tra gli astronauti e Hal 9000 e dalla solitaria discesa dell'unico astronauta sopravvissuto sul pianeta Giove e in effetti all'interno della propria coscienza ed esperienza.
La stessa visione ispirava, nel 1982, "E.T. l'extraterrestre", con quel "cucciolo" di alieno (e almeno così lo trattavano i ragazzini protagonisti del film) tenerissimo quanto un cagnolino, intelligentissimo, capace col suo ditone allungato e luminescente di ogni guarigione, esserino tanto miracoloso da miracolarsi da solo quando sembrava irreparabilmente morto tra le lacrime di grandi e piccini nel buio delle sale cinematrografiche.
Ma quella favola a lieto fine era poi declinata in quella triste e struggente del bambino-robot di "A.I. artificial intelligence" del 2001: l'11 settembre era ancora, sia pur di poco, di là da venire ma nella rilettura fantascientifica di Pinocchio e nell'avventuroso viaggio del bambino-robot alla ricerca della sua umanità e della mamma che lo aveva abbandonato, c'erano ancora alieni benevoli che, riscoperto il bimbo ibernato nelle profondità marine di una New York spopolata coperta dalle acque e poi dai ghiacci, gli consentivano il "miracolo" di riportare in vita la mamma e passare con lei un lungo-breve giorno, dall'alba al tramonto, prima di rimetterla a letto e lasciarla al suo sonno eterno.
Niente di tutto questo, ovviamente, ne "La guerra dei mondi". Qui le astronavi aliene si annidano sotto terra e vengono riattivate da alieni cattivi, anzi spietati, e orridi che si catapultano nelle stesse portati da terrificanti fulmini che attraversano il cielo e perforano l'asfalto.
Gli alieni distruggono tutto, cose e persone, queste ultime polverizzate da raggi di calore che lasciano intatti e svolazzanti (come i fogli di carta nel cielo dell'11 settembre dagli squarci delle torri gemelle?) soltanto i vestiti, e succhiano il sangue degli umani, risputandolo sotto forma di fertilizzante destinato a dar vita a piante mostruose e rosse, e a trasformare il pianeta azzurro in pianeta rosso, in albe e tramonti lividi tra i fuochi e le esplosioni dei vani scontri tra truppe terrestri e astronavi "tripodi", con le tre gambe che riproducono quelle filiformi e mostruose degli alieni.
Qui la fantascienza da corpo agli incubi di oggi; ed è impossibile non scorgere nella emersione delle astronavi aliene dal sottosuolo e nel conseguente sgomento e terrore la metafora della scoperta di un terrorismo insabbiato e incistato nel sottofondo delle società occidentali, che si risveglia e colpisce e distrugge.
Un intenso Tom Cruise interpreta il protagonista Ray Ferrier, operaio portuale dalla vita privata sbrindellata, che nella fuga avventurosa e nella tenace resistenza al pericolo della distruzione aliena saprà riscattare lo sbiadito passato di padre immaturo e irresponsabile e riguadagnare l'amore e il rispetto dei suoi due ragazzi l'adolescente Robbie e la piccola Rachel, che riporterà sani e salvi alla mamma (rimasta tranquilla e illesa nella casa dei suoi genitori a Boston, assieme al suo nuovo, inutile e inetto compagno della middle class).
Nel film c'è anche un "cammeo" di Tim Robbins, nel ruolo di uno stralunato e impazzito solitario "resistente" che nell'accenno all'impossibile impresa di scavare un cunicolo e arrivare nelle fogne e metropolitane delle grandi città rappresenta l'allusione al finale alternativo immaginato da Herbert George Wells.
Il film invece ripropone il finale classico: gli alieni si beccano una quantità industriale di virus, battesi, protozoi e miceti che ne minano il sistema immunitario e li uccidono.
Conclusione che, in tempi di aviaria e rischi di pandemia, delinea almeno uno scenario futuribile più o meno consolante, in attesa delle astronavi aliene.

sabato, giugno 03, 2006

Da Buttiglione (il colonnello) a Bertinotti


Negli anni '70 fu tutta una fioritura di filmetti della c.d. commedia all'italiana sull'esercito e i militari. Cominciarono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia col "sergente Rompiglioni", una mini-saga credo in due o tre "puntate" nella quale già faceva capolino, tra i comprimari, Aldo Carotenuto, un attore di qualità che come tanti, in quegli anni, per guadagnarsi la pagnotta dovette accettare parti e particine in quei filmetti.
Carotenuto fu poi il trait d'union con le commedie sexy, che di tanto in tanto le TV locali (che però spesso ora trasmettono sul satellite, potere del digitale globalizzante!) ripropongono: "La dottoressa del distretto militare", "La soldatessa", "La soldatessa alle grandi manovre" e compagnie (e battaglioni) via cantando.
Negli stessi anni il personaggio radiofonico del colonnello Buttiglione diede vita a sua volta a un film e vari sequel, il primo interpretato da un attore caratterista francese Jaques Duphilo, gli altri da Aldo Maccione (che era poi uno dei "Brutos" complesso comico-vocale degli anni '60, quello in cui il più brutto di tutti prendeva immancabili scoppole dagli altri: mi riferisco a "misteri gloriosi della TV" noti solo agli anzianotti come me).
Regina incontrastata delle caserme a luci "rosse" (ma forse solo "rosa", visto che si vedevano nudi abbastanza "casti", rispetto a quelli attuali) era Edwige Fenech, ora splendida quasi sessantenne ancora molto bella e piena di glamour, che fece sognare almeno due generazioni di adolescenti, dividendoli nei due "partiti" dei fenechiani e dei bouchetiani (Barbara Bouchet era l'alternativa bionda della valchiria dalla chioma nera).
Indimenticabili protagonisti di quei film erano poi, oltre a Carotenuto, Aldo Montagnani (altro attore di teatro di qualità costretto ad arrotondare la mesata con quei film) e Alvaro Vitali (interprete della saga di "Pierino").
Quale era il mondo di quella vita militare?
Camerate in cui le reclute subivano atroci scherzi dai "nonni", si accollavano le corvee (immancabile la pulitura delle latrine), marcavano visita con i più ingegnosi sistemi; sottufficiali frustrati, generalmente tonti e prepotenti; ufficiali, colonnelli, generali tromboni.
Diciamolo: per molti anni l'esercito (onnicomprensivamente parlando delle tre armi) è stato visto come lo specchio della peggiore Italia, la sentina di ogni incompetenza e cialtroneria, una cosa sostanzialmente inutile e autoreferenziale.
Giocava in quel sentimento la memoria della guerra perduta, di ufficiali che non si dimostrarono all'altezza, lo scarsissimo sentimento nazionale, un amor di Patria diventato imbarazzante quasi come un'orientamento pedofilo, la naturale propensione italica a defilarsi, uno spirito "guerresco" del tutto evaporato.
Poi sono iniziate le missioni di pace: era il 1982 e un contingente italiano, al comando del generale Franco Angioni, fu spedito in un Libano martoriato dalla guerra civile tra musulmani e cristiano-maroniti (con i relativi sponsors siriano e israeliano) come forza d'interposizione sotto l'egida dell'ONU.
Ancora un decennio, e un'altro contingente italiano andò il Somalia nel quadro di una forza multinazionale che tentò, vanamente, di rimettere ordine nel paese del corno d'Africa sbrindellato pezzo a pezzo tra bande al servizio dei c.d. signori della guerra.
Vennero poi le missioni nei Balcani, la guerra "umanitaria" per proteggere le popolazioni del Kossovo (a proposito, lì l'Italia partecipò attivamente a missioni belliche, con le sue basi e i suoi aerei che andarono a bombardare i serbi...), il piccolo contingente di Timor est, la partecipazione a "enduring freedom", ossia al consolidamento della pace in Afganistan, e quella, da ultimo, tesa allo stesso obiettivo nell'Iraq meridionale.
Fu allora che scomparve l'immagine macchiettistica delle nostre forze armate, e iniziammo a celebrare i primi funerali dei primi militari caduti in azione dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Fu così che la parata del 2 giugno, che aveva conosciuto alterne vicende dalla sua istituzione nel 1948, riprese vigore e diventò un appuntamento di un qualche significato e di una certa solennità.
I contromanifestanti piddiccini, rifondaroli e verdi (solecheghigna, più che ridere) naturalmente non sanno niente di tutto questo, né della distinzione tra guerra d'aggressione, guerra difensiva, missioni di polizia internazionale, missioni umanitarie.
I loro leader, da Diliberto a Pecoraro Scanio, citano come sacro manifesto del pacifismo unilaterale e unidirezionale l'art. 11 della Costituzione.
Ma che dice l'art. 11 della Costituzione?
Che l'Italia, uscita come tutta l'Europa e il Mondo intero dalle macerie di una guerra terribile come la seconda mondiale, "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli", ossia rifiuta la guerra di aggressione, volta alla conquista, e ripudia la guerra "come strumento di risoluzione delle controversie internazionali", ovvero l'escalation bellica tra nazioni che accampano reciproche pretese.
Rientrano in questo solenne paradigma le missioni di polizia internazionale, le missioni umanitarie, le missioni d'interposizione tra belligeranti?
A me non pare del tutto evidente.
Prendiamo i tre esempi: Kossovo, Afganistan, Iraq.
In Kossovo, si trattava di evitare una carneficina e una nuova pulizia etnica dopo quelle che Milosevic e i suoi soci avevano sostenuto in Bosnia e in altri pezzi della ex Jugoslavia.
In Afganistan, di stanare dai loro santuari i talebani e i qaedisti, coautori dell'11 settembre e di tante successive stragi.
In Iraq, di deporre un dittatore che aveva a sua volta fatto operazioni di pulizia etnica (i massacri dei curdi), sanguinose repressioni, appoggiando il terrorismo palestinese e islamico.
Sono state queste guerre di aggressione? Erano rivolte alla conquista di quelle nazioni e ad attentare alle libertà dei loro popoli? O non piuttosto a liberare quei popoli dal giogo di dittature sanguinarie e oscurantiste?
E' troppo sperare che queste cose le sappiano e ci riflettano i ragazzotti dei centri sociali; dovrebbero saperlo i "combattenti e reduci" ultracinquantenni della sinistra radical-kitch che amoreggiano con Castro e i neodittatori sudamericani; lo sanno ma hanno il loro tornaconto politico ad alimentare pacifismo e confusione i leader politici piddiccini, rifondaroli, verdi.
Di certo lo sa anche il Presidente della Camera, che ieri, imbarazzato e stranito, ha seguito la sfilata dal palco delle autorità per dovere istituzionale, cercando di rimanere "di lotta" (almeno un pochino) col distintivo arcobalenista sul bavero della giacca.
Non credevo di poter mai condividere un giudizio di Bondi (che trasfonde nella sua fede nel berlusconismo quella stessa cecità che molti trasfondono nella fede comunista e pacifista).
Ma Bondi ha detto ieri una cosa giusta: "Il modo con cui Bertinotti adempie alle sue responsabilità di presidente della Camera è imbarazzante e fa precipitare l'Italia nel ridicolo".
Chissà che non se ne sia accorta anche "Lady" la cagnetta meticcia mascotte dei carabinieri, in parata anche lei tra i monumentali cavalli dell'Arma.
Le cronache non lo dicono, ma mi piace immaginare che arrivata all'altezza del Presidente di lotta e di governo gli abbia abbaiato festante. E magari ha alzato la zampina posteriore, accostandosi al palco.

giovedì, giugno 01, 2006

Questioni di stile


La mia generazione aveva quattordici anni quando fu ucciso Luigi Calabresi, "il commissario", e ricorda le immagini in bianco e nero dei telegiornali, la pozza scura del sangue nell'angusto spazio tra due automobili, di quelle comuni rigorosamente nazionali, anzi "Fiat", che circolavano allora.
E se all'epoca della strage di piazza Fontana eravamo più piccoli, comunque avevamo avuto modo di conoscere, quali "contemporanei", la bomba piazzata nella sala circolare della Banca nazionale dell'agricoltura di Milano, la morte per "precipitazione" da una finestra del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, i sospetti su quel suicidio che molta parte della sinistra parlamentare ed extraparlamentare considerava un omicidio, o una messinscena di suicidio, gli slogan dei cortei ed uno in particolare "La strage è di stato, Pinelli assassinato", che nel 1972 si aggiornò in "Feltrinelli assassinato", quando l'editore rosso Giangiacomo, di sicure pulsioni rivoluzionarie, restò dilaniato sotto un traliccio dell'alta tensione da una bomba che, si disse, stava "piazzando" in prima persona (ma pochi ci credettero, almeno all'epoca).
Era, e rimane nonostante i tanti processi, dei quali quello di piazza Fontana chiusosi dopo infiniti dibattimenti in varie diverse sedi processuali senza colpevoli ufficiali e certificati, il periodo più oscuro e nebuloso della storia recente dell'Italia repubblicana.
Ma di quella nebulosa di immagini, titoli di giornali, cortei, slogan, bombe, sangue, pallottole, gruppuscoli di destra eversiva, gruppuscoli di sinistra rivoluzionaria, infiltrati, processi, rimane nitido un ricordo: l'immagine di "assassino" che, a torto o ragione, e molto probabilmente a torto, una generazione giovanile si fissò negli occhi, nella mente e nel cuore, del commissario Luigi Calabresi.
Non so dire se il suo omicidio, starei per dire nella logica dei suoi assassini la sua "esecuzione", ebbe davvero Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani come mandanti e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali.
Una verità processuale, stabilita dopo un tormentato processo costellato di annullamenti della Cassazione e rinnovazioni dei giudizi di appello, vuole che appunto i quattro, in quei ruoli, abbiano compiuto quel delitto.
Una verità politica, questa non controvertibile, è che Luigi Calabresi fu additato come il boia di Pinelli, il prezzolato poliziotto al servizio di trame oscure, il "nemico del popolo" per antonomasia.
Ed è incontestabile che tra i più tenaci accusatori di Calabresi, che gli cucirono addosso l'immagine che si fissò nella mente e nel cuore della mia generazione e di quella immediatamente precedente(cioé del mondo giovanile sensibile alla politica), vi fu "Lotta continua", giornale-movimento di cui Adriano Sofri era il leader indiscusso e Pietrostefani e Bompressi dirigenti autorevoli.
E' comprensibile e umano che gli ex di LC disseminatisi nel mondo dell'informazione e della cultura (compresi i Lerner, i Mughini, e via andare) o qualche ex PCI amico alla Ferrara credano e giurino sull'innocenza di Sofri.
E' innegabile che l'Adriano Sofri giornalista e commentatore autorevole, che ha scritto reportage da Saraievo e intelligenti "lettere dal carcere" di Pisa su Panorama, sia persona stimabile e perbene.
Certo le "lettere dal carcere" e i quaderni di Antonio Gramsci non ebbero la stessa immediata diffusione e fortuna, ma c'era una dittatura, un regime, e in più Gramsci morì giovane, finito di consumare dal carcere non avendo salute di ferro.
Personalmente, e sul piano giuridico, ho dissentito dalla pretesa di Castelli di considerare come "duale", ed in senso politico, il potere di grazia, che, come poi riconosciuto dalla Corte Costituzionale, appartiene invece al solo Presidente della Repubblica.
E' vero però che questo istituto di antiche origini, espressione storica di un potere proprio dei sovrani assoluti, poi passato alle monarchie costituzionali, si attaglia molto meglio a delitti comuni che a delitti "politici", o se vogliamo essere precisi a delitti comuni di matrice e ispirazione "politica".
Per questi ultimi, se e in quanto sia possibile sotto il profilo storico e appunto politico, sono più congeniali atti di clemenza "collettivi", ossia amnistie e indulti.
Ma amnistie e indulti in questa materia sono a loro volta comprensibili solo quando si inaugura una stagione che chiuda, con passaggi più o meno sanguinosi seguiti da una rilegittimazione popolare del potere, una stagione precedente, in cui un potere, che non ha mai avuto o ha perso legittimazione popolare o democratica, abbia commesso delitti.
Tanto per intenderci: ancora si discute sulla famosa "amnistia Togliatti" dei delitti dei gerarchi fascisti, e della mancata "epurazione" delle classi dirigenti fasciste, riciclatesi in larga misura nella classe dirigente repubblicana; e son passati si badi, sessant'anni; e quella amnistia aveva comunque quale retroterra una guerra, e anche una guerra civile, e milioni di morti, e il passaggio dalla dittatura fascista alle libertà costituzionali e democratiche del nuovo regime repubblicano.
Ho la sensazione quindi che sia prematuro, ancora molto, se non del tutto inappropriato, invocare una "amnistia" per chi si è macchiato di delitti nella stagione del terrorismo e della delinquenza politica, con buona pace di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, Cossiga e circoli politico-culturali.
Anche perché non c'era un "regime" o una "guerra civile" che in qualche modo potesse legittimare terrorismo e guerra civile, come invece, ad esempio, per il terrorismo etnico basco o quello religioso irlandese.
E' davvero un nodo arduo: difficile immaginare l'adeguatezza della grazia, ancor più la percorribilità della strada dell'amnistia.
O meglio, va bene la grazia solo se giustificata da ragioni "umanitarie", riferite cioé alle sole condizioni di salute che rendano inutile nei suoi fini afflittivi e rieducativi l'espiazione della pena (e mi auguro perciò che le ragioni di salute di Bompressi siano vere, radicate e fondate, come non dubito peraltro).
Ciò vale a più forte ragione per Sofri, che come si sa è stato molto male, è sopravvissuto per miracolo e la cui salute potrebbe oggi essere seriamente minata.
Certo, non sarebbe stato sbagliato se la concessione della grazia a Bompressi fosse stata preceduta da un'iniziativa tesa a informare la vedova e i figli di Calabresi, se si fosse atteso ancora qualche mese, se non si fosse trattato quasi del primo atto del Presidente Napolitano, se questi avesse affidato la notizia a un più compassato comunicato stampa anziché a dichiarazioni in video.
Questioni di stile, forse: ma da un Presidente del cui stile non si è mai dubitato era legittimo attendersi un po' più di stile e sensibilità.

martedì, maggio 23, 2006

Per non dimenticare D'Antona e Biagi


Ieri sera ho visto la prima puntata di "Attacco allo Stato", una miniserie (due sole puntate)sugli omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi, la casuale cattura di Nadia Desdemona Lioci dopo la sparatoria in cui rimasero uccisi l'altro brigatista Galesi e il sovrintentente polfer Petri, lo smantellamento delle nuove BR.
Ricordo il senso d'incredulità e sbigottimento alla notizia dell'omicidio di D'Antona e alla lettura del relativo "volantino" di rivendicazione: le BR sembravano appartenere ormai all'archeologia di una stagione di sangue, tra il 1970 e i primi anni '80, rimandando ad immagini sbiadite in bianco e nero di vecchi TG, ai titoli di pagine ingiallite di giornali, ad un clima di scontro sociale e politico ormai superato dalla globalizzazione.
E invece, sia pure con mezzi e militanti assai più ridotti, le BR erano "risorte" conservando l'armamentario ideologico allucinato del passato.
Svuotate le fabbriche di "quadri" operai in relazione all'avvento di processi produttivi all'insegna dell'automazione e alla delocalizzazione, le nuove BR si proponevano di parlare a nuovi interlocutori sociali, nell'area del lavoro precario e/o flessibile, dei centri sociali, dell'emigrazione, delle "nuove povertà".
Benché quel "progetto" sia stato sventato, è bene ricordarlo: se forse mai più i gruppi eversivi potranno avere la base di (relativa) massa che ebbero in passato, un'area di scontento sociale ci sarà sempre, e in quest'area di vecchie e nuove marginalità potranno sempre annidarsi i germi di azioni terroristiche o para-terroristiche (comprese le iniziative dei c.d. anarco-insurrezionalisti, con i loro pacchi-bomba); come pure non può escludersi che nel brodo di coltura di certi centri sociali allignino "alleanze" e "convergenze d'interesse" con gruppi terroristi islamici, nel comune cemento del risorgente antisemitismo (più o meno mascherato come critica allo stato d'Israele, che però è lo stato ebraico, e quindi parliamo della stessa cosa) e dell'imperituro antimperialismo anti-U.S.A.
Se rivado con la memoria al passato, ricordo ancora, alle prime azioni BR (il sequestro del sostituto procuratore Sossi, ad esempio, taluni "espropri proletari"...) il vivace dibattito interno alla sinistra giovanile di allora, il rifiuto di pensare che le BR potessero essere altro che "fascisti provocatori" da parte del P.C.I. e della F.G.C.I. o invece, da parte di taluni gruppi della sinistra extraparlamentare, la considerazione che si trattava di "compagni che sbagliano", cioé i cui obiettivi, e non anche i mezzi, erano in fondo condivisibili.
Scorrendo le biografie dei capi storici brigatisti, invece, si è visto che provenivano spesso dalle fila dei movimenti giovanili della sinistra "ortodossa", avevano matrice cattolica, coltivavano il mito della "Resistenza tradita", ossia della mancata insurrezione rivoluzionaria al termine della seconda guerra mondiale, organizzandosi in strutture che scimmiottavano quelle delle formazioni partigiane, e assegnandosi pseudonimi proprio come i partigiani.
I loro volti non erano estranei, come si è detto efficacemente, all'album di famiglia della sinistra italiana, anche se da quela famiglia erano poi usciti per entrare in clandestinità.
Certo rimane, e forse rimarrà sempre, oscuro il ruolo giocato nelle azioni più eclatanti (il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro) dai servizi segreti italiani, americani e sovietici, ed ancor oggi la lettura del libro di Flamigni "La tela del ragno" - Edizioni Kaos, appunto dedicato al sequestro Moro, lascia aperti molti inquietanti interrogativi.
Eppure, per tornare al bel sceneggiato (la seconda e ultima puntata stasera su canale 5), non era affatto casuale e sfuocato il senso di colpire due uomini come Massimo D'Antona e Marco Biagi, giuristi intenti, quali consiglieri di due diversi ministri del lavoro (il diessino Bassolino il primo, il leghista Maroni il secondo) alla stessa opera: costruire un "nuovo mercato del lavoro" in cui fossero coniugabili flessibilità e tutela dei diritti, nuove forme di lavoro e nuove garanzie giuridiche.
Se qualcosa manca nello sceneggiato è il clima in cui maturò soprattutto l'omicidio di Marco Biagi: non si può né si deve dimenticare le critiche, anche molto, troppo aspre, che alcuni settori del sindacato, della CGIL e della FIOM, mossero in quella stagione al giuslavorista bolognese, al suo "libro bianco", alla riforma che porta il suo nome (e che oggi settori della sinistra radicale parlamentare vorrebbero senz'altro eliminare con un tratto di penna). Il "cinese" Cofferati, prima di vestire i panni istituzionali di Sindaco di Bologna, e di intraprendere giuste battaglie per la "legalità" cittadina, polemizzò aspramente con Biagi e quei settori sindacali che non rifiutavano a priori le sue idee.
Sarebbe folle sostenere che quelle polemiche abbiano avuto un peso nella decisione delle nuove BR di uccidere Biagi; ma di certo non le dissuasero dal proposito criminale, e chissà alimentarono nella loro allucinata percezione della realtà l'idea che vi potesse essere un "consenso" ai loro obiettivi di lotta.
Voglio chiudere con un piccolo ricordo personale di Massimo D'Antona: nel dicembre 1983 quando sostenni l'orale del concorso per entrare in magistratura D'Antona era uno dei componenti della commissione di concorso; non aveva ancora i baffi, era molto giovane, molto gentile, e contribuì ad allentare la tensione con cui molti come me affrontavano quella difficile prova; sulla sua materia (Diritto del lavoro) ebbi 10.
Lo ritrovai qualche anno dopo, non so in quale convegno o occasione pubblica, e lo salutai ricordando quella prova orale.
Mi sorrise sotto i baffi.

sabato, maggio 20, 2006

La bestia nel cuore


"La bestia nel cuore" è un film bellissimo. L'ho visto ieri sera in pay per view su Sky. Ero tornato da Roma stanco e anche un po' depresso, per niente in particolare e per tutto in generale. Sapevo che era stato candidato all'Oscar per miglior film straniero. Ma il suo oscar lo aveva già vinto come successo di pubblico e critica. Sapevo che era tratto da un romanzo della stessa regista Cristina Comencini, e che il romanzo era andato a ruba. Sapevo che era uscito in contemporanea con "I giorni dell'abbandono" e che si era scatenata la solita guerra italiana "guelfi-ghibellini" tra i sostenitori della Margherita Buy, protagonista del film di Roberto Faenza, e quelli di Giovanna Mezzogiorno, intensissima interprete del film della Comencini.
Perché il film mi è piaciuto?
Secondo me un grande film, pur avendo un nucleo narrativo portante, deve essere capace di offrire una ricchezza di intrecci di storie, situazioni, sentimenti, vite come è normale nella vita di ogni giorno e di ciascuno.
La storia centrale è quella di due fratelli, Sabina e Daniele, figli di due austeri e all'apparenza grigi e inappuntabili insegnanti di scuola media superiore.
In una casa piccolo-borghese degli anni '60-'70, ingombra di mobili classici, solidi, comuni, con le porte di vetro smerigliato, si dipana l'esistenza di una famiglia "normale": il padre, severo, corregge i compiti nel suo studio, la madre, sbiadita e succube, li corregge in cucina.
La famiglia "normale" ha un "cuore di tenebra": dietro l'apparenza perbene della qualunque famiglia, così rassicurante nel quadretto classico (padre, madre, il maschietto più grande, la femminuccia), si nasconde il terribile segreto di un'infanzia violata, di un padre pedofilo che, finita la correzione dei compiti, percorre il corridoio e chiama il figlio, con voce lamentosa e quasi da bambino, per i suoi "giochi" malati; e dopo la ribellione del figlio, che la madre consapevole e accondiscendente cerca di rassicurare dicendogli "siamo una famiglia", approccia anche la piccola Sabina, solo due volte.
Troppo poco perché Sabina ne serbi un ricordo cosciente. Troppo perché non ne resti segnata nell'inconscio, dal quale l'incubo emergerà in forma di sogno dopo che essa avrà ripreso contatto con le foto dei genitori, di cui torna a occuparsi per la traslazione dei resti a distanza di anni dalla loro morte.
Emilia, l'amica cieca di Sabina, che vive rinchiusa in un appartamento con il suo cane, passando il tempo su un telaio e ascoltando musica, e che ama Sabina, e che ricorda quel ritratto di famiglia "normale" e "rassicurante", coglie il senso del rifiuto inconscio dell'amica di affrontare il dolore e l'angoscia quando le dice che lei cerca di mettere sempre una "distanza", un "distacco", dalle cose che la feriscono.
Maria, l'amica cinquantenne di Sabina, che la dirige nel suo lavoro di doppiatrice, non riesce a penetrare la superficie del mare oscuro che è la coscienza di Sabina, perché troppo presa a sopravvivere all'abbandono del marito, che si è messo con una amica della loro figlia, e che l'ha lasciata dicendole: "Vorrai mica che invecchi con te?".
Franco, il compagno di Sabina, attore di teatro duro e puro che alla fine si piega alle esigenze della quotidianità e accetta di recitare in un serial TV di ambiente medico, non sa andare oltre il piano consueto di un rapporto d'amore e convivenza.
Sabina decide allora di raggiungere il fratello Daniele in una piccola città degli U.S.A., dove egli insegna in quelle "incantevoli" realtà di campus universitari organizzati, ricchi di mezzi, libri, buoni rapporti sociali, case indipendenti con prato e giardino.
L'incontro sarà dirompente e decisivo: Sabina riuscirà a scuotere il rigido controllo in cui il fratello ha chiuso la sua sfera emotiva, sottoponendosi ad anni di analisi senza riuscire a liberarsi del tutto del trauma infantile, di cui rimane traccia nell'incapacità di abbracciare i propri figli nel terrore di ritrovare in quelle effusioni l'eco malata degli abbracci paterni, di ritrovare in sé le stigmate di una morbosità, di un "contagio" della depravazione.
Dal doloroso scavo nei ricordi infantili però i due fratelli porteranno alla luce non solo il grande affetto che li lega ma anche il senso di una famiglia che non hanno mai avuto: orfani e figli solo di se stessi, e per questo legati da un filo più profondo di quello "normale" tra fratelli, adulti senza infanzia eppure ancora bambini che l'infanzia dovranno viverla attraverso i loro figli.
Perché anche Sabina avrà un figlio da Franco, e lo chiamerà Daniele; e Daniele, nella scena finale, riuscirà finalmente ad abbracciare uno dei suoi due figli.
Il viaggio della vita quotidiana attraverso il dolore, la solitudine, la diversità.
La faticosa educazione alla vita e alla maturità.
Questo è il succo de "La bestia nel cuore", che a ben guardare non ha personaggi "minori", tra quelli femminili.
Non è una figura minore quella di Emilia, due volte diversa perché cieca e lesbica, che ama senza essere riamata Sabina e che trova la voglia di uscire dalla sua tana attraverso l'amore di Maria, donna concreta, pratica, forte ma ferita nel suo orgoglio, nelle sue certezze, dall'abbandono del marito per la solita sciaquina venti-trentenne; e Maria, a sua volta, nell'amore "diverso" di Emilia riscopre tenerezza, affetto, passione.
I personaggi maschili sono invece, salva la figura inquietante del padre di Sabina e Daniele, sfumati e sostanzialmente banali e stereotipati: Franco, il compagno di Sabina, che si ribella quando lei, in partenza per gli Stati Uniti, gli predice che la tradirà con la prima che "glielo fa rizzare", e in effetti si scopa una compagna di set; il regista del serial TV, che vagheggia un improbabile tenero film su due spazzini che ritrovano un bambino in un cassonetto e lo adottano.
Storia di dolore, solitudine, diversità, dicevo; e anche di speranza: le cicatrici, scrive Daniele a Sabina in una e-mail, restano ma bisogna imparare a vivere nonostante le cicatrici, lasciare che esse sbiadiscano, perdonarsi perché non si è colpevoli del male che si è ricevuto e di quello che non si è riusciti, nonostante tutti gli sforzi, a impedire.
Film bello anche nella tecnica, nei piani sequenza della casa dei genitori, abbandonata, coi mobili impolverati, tomba dei segreti inconfessabili della famiglia "normale", nella fotografia che vira su toni ora freddi ora caldi, nella recitazione intensa e così naturale di Giovanna Mezzogiorno (Sabina), Luigi Lo Cascio (Daniele), Stefania Rocca (Emilia), Angela Finocchiaro (Maria), nei simbolismi (la rottura delle acque di Sabina, in un vagone solitario nella campagna pugliese di una vacanza estiva, che nella sua mente è un fiume che travolge la casa famigliare e i suoi abitanti, spazzando via nel naufragio della famiglia quei legami inconfessabili e dolorosi).
Leggerò il romanzo.

domenica, maggio 14, 2006

BIANCONERI DEL BORGOROSSO


"Bianconeri del Borgorosso, rosso rosso rosso rosso, bianconeri del borgo rosso, rosso rosso football club"!
Ve lo ricordate l'inno intonato con orgoglio dall'indimenticabile Alberto Sordi, nei panni del Presidente del Borgorosso Football Club?
Sembra passato un secolo, ed era solo ieri o l'altro ieri. Le società di calcio non erano società quotate in borsa, i calciatori facevano lunghe trafile dalle serie inferiori, gli allenatori erano ruspanti come il mitico Oronzo Pugliese, con i suoi riti propiziatori (cui forse si ispirò Trappattoni ai mondiali nippo-coreani del 2002, senza fortuna, con l'acqua santa sparsa sul campo...), i giornali raccontavano con retoriche guerresche gli epici scontri della domenica pomeriggio (altro che anticipi e posticipi serali), il calcio era in bianco e nero come tutto il resto, ma non nel senso dell'egemonia juventina.
Tutto pulito a quei tempi? No, anche allora c'erano magagne, arbitri comprati e venduti, ma in maniera "casereccia", alla buona, senza metodo "scientifico", senza pianificazioni che magari coinvolgevano interi campionati e poi qualificazioni in coppa dei campioni (così si chiamava allora, prima che l'anglicismo imperversante e la formula a gironi eliminatori ne facessero un supercampionato europeo).
I Presidenti erano industrialotti che scoprivano il pianeta calcio mettendoci dentro quel tanto di mecenatismo che avevano e potevano, magari rovinandosi, come appunto il Presidente del Borgorosso, senza decreti "spalmadebiti" e salvataggi più o meno politici, senza "parametri" di ripescaggio, con la forza della proprietà dei cartellini dei giocatori, che erano veri "lavoratori dipendenti" e non "liberi professionisti" della pedata, senza sponsor unici, tecnici, senza nomi sulle maglie, senza dirette televisive e processi televisivi di compagnie di giro.
A quei tempi il calcio aveva il sapore e il colore di "Tutto il calcio minuto per minuto", già "90° minuto" era un'innovazione trascendentale, "La Domenica Sportiva", condotta da Enzo Tortora o da Tito Stagno un vero rito religioso per i fedeli di "Eupalla" (la immaginifica divinità della penna inimitabile di Gianni Brera), le moviole avevano immagini sgranate, da cui si vedeva abbastanza poco, gli arbitri erano i signori e padroni incontrastati del campo di gioco, e Concetto Lobello aveva l'autorità di un ministro.
L'arrivo delle dirette, dei digitali terrestri, spaziali, interplanetari, interstellari e intergalattici (gli unici "spazi" in cui l'Inter sia incontestabilmente prima!), le ricche sponsorizzazioni, il riparto della ricca torta dei diritti TV, la lievitazione incontrollata dei prezzi dei giocatori svincolati dalla sentenza "Bosman", e quindi dei loro ingaggi, e di conserva quella degli "onorari" dei loro procuratori, dei compensi degli allenatori, dei dirigenti-manager, di tutta la compagnia "contante" (forse solo i magazzinieri ne son restati fuori), hanno fatto del calcio un'industria: e siccome i profitti dipendono dai risultati e dai titoli vinti, è quasi naturale che in questa industria allignassero, come d'altra parte in tanti settori di questo Paese, pratiche "anticoncorrenziali" e "cartelli oligopolistici".
Che ha fatto, in fondo, Moggi di diverso da quanto hanno fatto e fanno i capitani d'industria, compresi quelli presuntamente "coraggiosi" celebrati ai tempi della privatizzazione della Telecom, i Consorte, i Fiorani, i "furbetti del quartierino" noti e quelli meno noti sfuggiti alle maglie della giustizia, i tanti che hanno beneficiato delle privatizzazioni sostituendo monopoli privati a monopoli pubblici (vedi caso Autostrade)?
Ha, ne più né meno, applicato, con gli adattamenti del caso, pratiche anticoncorrenziali, per consolidare un oligopolio pallonaro che generasse profitti.
Tanto più che l'azionista di riferimento della Juve si era man mano sfilato dalla gestione e disimpegnato finanziariamente (un po' come accaduto alla Fiat sino a appena due anni fa) e quindi si doveva "industriare" e "ingegnare".
Dopo di che, siccome anche Moggi "tiene famiglia", come poteva non pensare a "sistemare" il figlio?
Mi scoccia dar ragione a Mughini, ma è vero che troppe "vergini" presunte e dell'ultima ora si stracciano le vesti disperate e affrante, non avendo sino a ieri o all'altro ieri disdegnato l'alcova del "manovratore" o le sue blandizie, tessendone le lodi, contendendoselo per le sue capacità di novello Re Mida del mondo pallonaro.
Certo, è un po' triste (e se lo dice un interista c'è da credergli) vedere i tifosi juventini che nonostante tutto, oggi, hanno invaso Bari e il San Nicola, in un tripudio di sciarpe e cappellini bianconeri e bandiere tricolori, per festeggiare uno scudetto solo provvisoriamente assegnato, destinato con ogni probabilità a essere revocato, assieme al 28°, e fosse solo questo sarebbe niente perché a leggere i giornali la retrocessione è cosa abbastanza probabile, se non certa.
Vedendoli passare, nei pullman scortati dalla polizia, guardando in TV le immagini di piazza Castello a Torino, quei festeggiamenti un po' mesti ricordano i funerali di New Orleans, con le orchestre di diexiland che suonano motivetti allegri accompagnando le bare al cimitero.
Ma anche questi tifosi hanno poi diritto a tutta la comprensione del mondo? Non sono loro che, insaziabili, incontentabili, incontenibili, hanno spinto questo mondo pallonaro, inscenando manifestazioni di piazza per la cessione o il mancato acquisto di un campione, alimentando i processi televisivi e le compagnie di giro dell'avanspettacolo calcistico-giornalistico?
Fa un po' ridere, devo proprio dirlo, sentire che qualcuno, per cavalcarne la delusione, arrivi a prospettare richieste di risarcimenti alla Lega, alla FIGC, alla Juve, alla Triade, nel nome dei diritti del consumatore, quasi che ci sia un diritto a vincere gli scudetti, a non retrocedere, a qualificarsi per le coppe europee.
Se la rifondazione comincia così, c'è poco da sperare.

mercoledì, maggio 10, 2006

BUONA FORTUNA, "COMPAGNO" PRESIDENTE


Una voce insistita vuole che Giorgio Napolitano sia figlio naturale di Umberto II, e certo alla fortuna di questa leggenda metropolitana ha giovato la notevole somiglianza fisica tra il neopresidente della Repubblica e il c.d. "re di maggio": stessa stempiatura giovanile e alta, stessi tratti aristocratici, stesso fisico asciutto, verrebbe da dire anche stessa incontestabile "regalità" di posture, eleganza sobria, toni, timbri vocali.
Se non si trattasse soltanto di una leggenda metropolitana, verrebbe da pensare che l'ascesa al Colle di Giorgio "il migliorista" sia una di quelle curiose "vendette" che la Storia ogni tanto concede: Napolitano s'insedia nel palazzo del Quirinale esattamente sessant'anni dopo (giorno più giorno meno) in cui ne uscì Umberto II, salutando una piccola e affranta folla, per salire su un aereo che lo avrebbe portato nell'esilio portoghese di Cascais.
Al di là di stupidi e ingialliti "gossip", il giudizio sulla elezione di Giorgio Napolitano alla massima carica istituzionale della Repubblica si presenta complesso e articolato.
E' indiscutibile il profilo istituzionale della personalità politica: Napolitano, allievo di Giorgio Amendola, animatore dell'ala "migliorista", e cioé moderata (o di "destra") del vecchio P.C.I., "ministro degli Esteri" ombra del vecchio "Bottegone", è stato presidente della Camera e poi, soprattutto, Ministro dell'Interno, titolare cioé di un dicastero che sino allo sfaldamento del blocco comunista, tra il 1989 e il 1991, mai e poi mai la vecchia D.C. avrebbe ceduto ad altri: dai tempi lontani di Scelba troppo importante era il controllo di un Ministero che comanda Prefetti, Questori, Polizia di Stato e costituisce il vero nerbo della macchina amministrativa dello Stato.
Nel vecchio P.C.I., peraltro, l'influenza di Napolitano (e anche del suo maestro Amendola) era abbastanza modesta, come sul versante opposto dell'estrema sinistra quella di Pietro Ingrao (primo presidente comunista della Camera), per la larga egemonia del "centro" berlingueriano.
E d'altra parte per chi, come Napolitano, ha vissuto tutta intera la propria parabola politica nel P.C.I. dominato dalle figure di Palmiro Togliatti, Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, era una "missione impossibile" conquistare spazi di maggiore influenza nel partito.
Soltanto leaders carismatici come i tre citati (cui nei vecchi slogan del P.C.I. si aggingeva quale nume tutelare la figura di Antonio Gramsci: Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, a indicare una continuità più postulata che reale, soprattutto tra Gramsci e Togliatti) potevano tener assieme le anime di un grande partito di massa in cui convivevano aspirazioni di stampo più o meno socialdemocratico (come quelle "miglioriste", appunto) e ispirazioni "gauchiste" di alternativa di sinistra (come quelle ingraiane) dalle quali del resto aveva tratto spunto la mini-scissione del gruppo de "Il Manifesto".
Se Amendola e Napolitano guardavano all'esperienza storica della SPD e della socialdemocrazia tedesca (dominata dalla grande figura di Willy Brandt, già sindaco di Berlino Ovest e poi indimenticato cancelliere tedesco), il gruppo de "Il Manifesto" e Ingrao criticavano da sinistra l'esperienza storica del comunismo burocratico sovietico, con qualche apertura all'esperienza maoista.
Toccava appunto a Barlinguer tenere la barra al centro e cercare una "terza via" quella dell'Eurocomunismo, con i leader del Partito comunista spagnolo e portoghese (il partito comunista francese di Marchais era su posizioni filosovietiche ortodosse); fallito poi l'Eurocomunismo, Berlinguer si arroccò, com'é noto, nella difesa orgogliosa e intransigente della "diversità comunista", imperniata sulla questione morale, e forse perse l'occasione storica per lanciare una sfida di vero riformismo e modernizzazione (quella che aveva intuito il primo Craxi, prima di impaniarsi nel CAF (Craxi Andreotti Forlani) ossia nel patto di potere che lo portò alla rovina).
Riemerge ora, da quel passato, e questa sì che è una rivincita, la figura di Napolitano che, poco incisiva nella vita e nella politica del P.C.I., si consegna ad un impegno istituzionale per il quale ha di certo un profilo più che adeguato, ma che, nella confusa situazione politica italiana, avrebbe forse postulato una personalità più netta e politicamente forte.
Con un governo che sarà debole e guidato da un Prodi sempre in bilico nel tentativo di tener assieme la sua eterogenea maggioranza, un'opposizione a sua volta non coesa in modo granitico (e dalla quale la Lega si sfilerà, con ogni probabilità, dopo la sconfitta annunciata al referendum costituzionale di fine giugno) e attraversata dalla non troppo sotterranea guerra di successione a Berlusconi (che soltanto radicalizzando lo scontro può sperare di conservare la sua leadership, come infatti sta facendo), una situazione dei conti pubblici dissestata, una ripresa economico-produttiva ancora incerta e non tumultuosa, un panorama europeo e internazionale complesso e pieno di nuvole minacciose, la cultura e l'equilibrio istituzionale di Napolitano rischiano di ridimensionarne il ruolo a quella funzione "notarile" che fu propria dei presidenti della Repubblica sino a Giovanni Leone.
La strisciante trasformazione del ruolo presidenziale, il rafforzamento del Quirinale, concise con la crisi del sistema dei partiti, a cominciare dal sequestro e dall'omicidio di Aldo Moro, il cui significato è stato forse poco compreso e valorizzato.
Aldo Moro, di cui due giorni fa è ricorso il ventottesimo anniversario della tragica morte, aveva compreso come fosse ineludibile una transizione politica, istituzionale e sullo sfondo costituzionale di cui il compromesso storico, e l'ingresso del P.C.I. nell'area della maggioranza parlamentare e, in prospettiva, nel governo, costituiva un passaggo obbligato, dato il contesto internazionale (erano gli anni del breznevismo e dell'apice della potenza "imperiale" sovietica).
Quel tentativo era in anticipo di oltre dieci anni rispetto ai tempi storici: il mondo era segnato ancora dalle demarcazioni e dai confini tra le sfere d'influenza disegnate nella conferenza di Yalta e di Potsdam, e quella "sperimentazione" non poteva avere successo, risultando inaccettabile tanto a Washington quanto a Mosca (al di là di ogni zona d'ombra, tutt'altro che dissipata, sul ruolo che i servizi statunitensi e sovietici, la C.I.A. e il KGB, possano aver giocato nella vicenda).
La incipiente crisi dei partiti produsse la presidenza forte (anche se un pò populista) di Sandro Pertini, grande "vecchio" della Resistenza, socialista incatalogabile nella geografia correntizia del vecchio P.S.I., primo vero "nonno" della Repubblica (nel senso buono: da allora gli italiani hanno gradito la presenza sul Colle di augusti vegliardi, e questo spiega anche il successo popolare di Ciampi e il preconizzabile successo, nella stessa linea, di Napolitano).
Una presidenza forte, ma non amata per il carattere dell'uomo e i suoi indimenticati trascorsi di Ministro dell'Interno negli anni più aspri e bui del decennio 1970-1980, tali da meritargli il "K" iniziale e l'odio di una generazione studentesca extraparlamentare, tra le cui fila avrebbero pescato i gruppi armati dell'eversione di sinistra, fu quella di Francesco Cossiga, il "picconatore".
Una presidenza tendenzialmente forte, anche se nata nel momento di massima debolezza della politica e del parlamento, e sotto il frastuono orrendo dell'attentatuni di Capaci, è stata quella di Oscar Luigi Scalfaro, che ha segnato il punto di massima divisione tra le forze politiche nate dal naufragio giudiziario-mediatico della prima repubblica.
Una presidenza forte, sempre nel segno però della sostanziale debolezza della politica della seconda repubblica e dell'aspra divaricazione tra maggioranza polista e opposizione di centrosinistra, è stata quella di Carlo Azeglio Ciampi, "civil servant" non sgradito ai c.d. mitici "poteri forti" e cioé a quel groviglio di interessi e istituzioni industriali e finanziarie, coi i loro relativi "media" di riferimento (l'area della stampa, più che quella delle televisioni, ovviamente), che sia in relazione alla "apoliticità" (meglio "apartiticità") della persona che al profilo bonario di "nonno" della Repubblica, e ad una condivisa operazione di "marketing" mediatico, si è proposto come "il Presidente più amato dagli Italiani".
L'ascesa al Colle di Napolitano si pone in evidente linea di continuità, sotto questo profilo, del "ciampismo", benché l'elezione non sia avvenuta con la larga maggioranza del predecessore per l'esigenza di Berlusconi di smarcarsi dal tentantivo aennino-uddiccino, e cioé finian-casiniano, di farsi "garanti" dell'opposizione di centrodestra nei confronti del centrosinistra, e sotto sotto di marcare l'inizio di una "fuoriuscita" dalla stagione del berlusconismo e di rompere l'asse di ferro tra Berlusconi e Lega.
Certo l'elezione di un ex comunista, e la definitiva caduta anche per la massima carica istituzionale del c.d. fattore "K" (ossia della pregiudiziale anticomunista) ha anche un suo significato storico-istituzionale, perché è vero che chiude, col tramonto definitivo di quel fattore (per vero già declinato con la presidenza del consiglio a D'Alema e prima ancora col ministero dell'Interno a Napolitano) la stagione della prima repubblica e delle sue regole non scritte ma cogenti.
Napolitano sarà certamente il presidente "di tutti" e "super partes": e come potrebbe essere diversamente?
Il punto è, semmai, se la sua presidenza saprà produrre quegli stimoli forti verso un rinnovamento della politica, del suo quadro, delle sue strategie, in una parola verso le riforme istituzionali come si suol dire "condivise", che altra personalità più marcata e più forte politicamente, come D'Alema, avrebbe probabilmente saputo e potuto imprimere.
Il "paradosso italiano" potrebbe essere proprio questo: che un presidente "super partes" serva peggio la causa di una reale ristrutturazione del quadro politico e di un superamento condiviso dello stato di belligeranza continua tra maggioranza e opposizione di quanto avrebbe potuto un presidente "intra partes".
La risposta non la darà la Storia, con la S maiuscola, ma probabilmente già la cronaca politica dei prossimi mesi.
In ogni caso gli italiani ritrovano un "nonno della Repubblica", equilibrato, istituzionale, molto "british", elegante, e, ciò che non guasta, meridionale: un uomo di partito, ma non "partigiano" o partitizzato, che nel contesto internazionale farà la sua brava e innegabile figura, un'immagine idealtipica di un Presidente.
Buona fortuna, compagno Presidente.