giovedì, maggio 28, 2009

The Untouchables


Perché parlare di un film vecchio ormai di ventidue anni?
Ci sono film che si stagliano, solidi, forti di una capacità evocativa che il tempo non affievolisce, perfetti nella miscela di ingredienti che fanno di un semplice film "il film", dalla trama, alla delineazione psicologica dei personaggi, alla scelta di attori che sappiano incarnare sino in fondo il ruolo, dalle scenografie, alla fotografia, al colore, al ritmo narrativo, alla maestria della ripresa, nel gioco tra primi piani, piani sequenza, stacchi, alle musiche che del film devono saper sintetizzare l'anima poetica.
Non sono un cinefilo, ma nella mia ideale filmografia di film così se ne possono contare forse una ventina, forse una trentina
Non tutti sono capolavori, nel senso pieno e vero, certo lo sono praticamente tutti quelli di Kubrick, moltissimi di Hitchcock, parecchi di Truffaut, alcuni di Sam Mendes, alcuni di Altman, almeno tre di Francis Ford Coppola, almeno cinque di Spielberg, qualcuno di Fellini, di Dino Risi, di Monicelli, di De Sica...
Poi ci sono film in ogni caso eccellenti, che conservano una freschezza sorprendente, che visti a cinema si rivedono volentieri ad ogni passaggio televisivo.
Gli Intoccabili (The Untouchables) è un film appunto eccellente, come il suo regista Brian De Palma (di cui a parte "Mission impossible" e "Mission to Mars", film commerciali di buona fattura e nulla più, rimane memorabile "Vestito per uccidere" con un Michael Caine al vertice della sua maestria attoriale).
Eccellenti sono gli attori, da Kevin Costner (che interpreta l'agente federale del Tesoro Elliot Ness, l'uomo che sconfisse Al Capone), ad un intensissimo e ironico Sean Connery (l'umanissimo poliziotto Malone, che dalla strada, dove si era esiliato nell'assoluta estraneità all'ambiente corrotto della Polizia di Chicago, ritorna al fianco di Ness ad un ruolo investigativo), al misurato ed efficace Andy Garcia (giovane poliziotto italo-americano, il volto pulito e presentabile dell'Italia che sbarcava ad Ellis Island negli anni dell'emigrazione a frotte verso l'America), all'insuperabile Robert De Niro (che realmente ingrassato di una ventina e passa di chili, interpreta un Al Capone gigione, ironico, crudele, furente secondo un pentagramma di umori e passioni che padroneggia sino in fondo), sinanche ai protagonisti minori, come il killer dal vestito e dal cappello bianco e l'occhialuto e buffo contabile che entra nella squadra di Ness e sarà il primo a lasciarci la pelle, seguito dal coraggioso Malone.
Eccellente è lo sviluppo della trama, il ritmo narrativo, la costruzione delle immagini, la fotografia così bene virata dai toni caldi e opulenti dei grandi alberghi e palazzi dove Capone e i suoi tessono le proprie trame criminali e ne godono i frutti dorati, ai toni freddi e catramosi della Chicago notturna, memorabile -con voluta citazione alla Corazzata Potiomkin- la lunga sequenza della sanguinosa cattura del mezze maniche contabile di Capone, sulla scalinata della Chicago central station, ode architettonica al treno, all'epoca mezzo principe di locomozione, e alle grandi stazioni viste in tanti film dell'America anni trenta e quaranta, porti di terra in cui si intrecciano e di disperdono i fili di viaggiatori frettolosi o assorti, gioiosi o disperati.
Serratissima, dopo l'uccisione di Malone e la cattura del contabile di Capone, è la lunghissima sequenza del processo a Capone, la cui svolta è rappresentata dalla scoperta della lista dei giurati corrotti nelle tasche del killer biancovestito, catturato e buttato giù dal tetto del palazzo di giustizia da un Elliott Ness furente per il dileggio gratuito che il cattivone riserva all'amico Malone, che ha barbaramente sforacchiato con una sventagliata di mitra.
Perché Ness, che all'inizio della storia era un idealista convinto di poter combattere il crimine con le sole nude armi della legalità, dopo la sua dolorosa "perdita dell'innocenza" capisce che l'unico modo per battere Capone è fotterlo comunque, e non esita a ricorrere alla bugia, turlupinando il povero giudice al quale rivela che oltre alla lista dei membri della giuria corrotta da Capone, anche il suo nome figurerebbe tra quelli "comprati", e così lo costringe, superando le pastoie della procedura, a cambiare la giuria e quindi ad impacchettare Capone verso un penitenziario federale.
E poi, su tutto il film, attraverso il film, nelle sue scene, vi è l'incanto della colonna sonora, essa pure memorabile nel tema principale, dovuta all'arte inarrivabile di Ennio Moricone.
L'ho rivisto ieri sera "The Untochables", storia di come la giustizia, qualche volta, trionfa davvero, e non sempre lo fa seguendo la via maestra, ma più spesso per strade tortuose, perché tortuosi sono gli uomini, sia che siano delinquenti, sia che siano poliziotti, ladri o guardie, e al fondo anche giudici.
E del film, emblematica, è la furiosa reazione di Capone al cambio della giuria, quando capisce che il suo impero criminale è davvero crollato, e a Ness che lo sfida risponde "Ma vattene, non sei niente, sei solo chiacchiere e distintivo, solo chiacchiere e distintivo".
E forse è vero che spesso gli uomini di legge sono solo "chiacchiere e distintivo", o anche "chiacchiere e toga".
Ma qualche volta no.
Per fortuna.

mercoledì, maggio 27, 2009

La questione morale secondo "Franceschiello"


Dario Franceschini ha scoperto la variante neomediatica e gossippara della "questione morale", cercando di aggiornarne i termini e adeguarli agli scenari della c.d. seconda Repubblica, e riuscendo piuttosto ad appiattirli nei termini dell'unica e ultratrentennale "La Repubblica".


Le dichiarazioni di ieri, del senso "Mamme, affidereste i vostri figli a un uomo così?", sottilmente evocative degli spettri che oltre due anni fa si agitarono tra le aule dell'asilo di Rignano Flaminio, piuttosto che degli scenari di "Lolita" di Nabokov, sono state francamente, "franceschinamente", infelici.


La risposta dei figli che già sono stati affidati, storicamente e naturaliter, all'uomo "così", ossia ai figli veri, concreti, legittimi del Cav. è stata immediata, forte, e anche dignitosa: e se i figli veri di un uomo "così" lo difendono all'unisono, forse le mamme d'Italia più che allarmate dall'interrogativa retorica di Franceschini sono uscite rassicurare dalle risposte della stirpe berlusconiana.


Nel frattempo è fallito anche il tentativo di tirar per la tonaca la Conferenza episcopale italiana a pronunciarsi sul merito della questione: perché è vero che l'Avvenire, a proposito del divorzio Berlusconi-Lario, ebbe a invitare il premier a maggior sobrietà, ma di qui a pronunciare pubblico interdetto su un supposto (sino a prova provata contraria) corruttore di minorenni ce ne corre.


E la Chiesa e i suoi Vescovi, che hanno esperienza bimillenaria e traguardano le cose di questo mondo con una lente rovesciata perché, in ogni caso, devono guardare più da vicino profili trascendenti, e alla luce di quelli cercare di esercitare il proprio magistero, non potevano trasformarsi in agenzia di certificazione di qualità di una questioncina morale a evidenti fini elettorali.


Franceschini, in piena ebbrezza elettorale e forse davvero convinto d'essere non un semplice "pilota di porto" per condurre la malconcia nave democratica verso un congresso ma addirittura un possibile comandante di quel vascello, ha pensato bene di giocare sino in fondo una partita aggressiva, all'americana, senza ricordare che in quella società, imbevuta di valori protestanti (che sono la vera etica del capitalismo), il giudizio morale sui comportamenti privati dei policiti conta davvero, in questa, invece, che è cattolica, il confine tra etica pubblica e morale individuale è ben più netto e marcato, e i peccati privati si lavano in confessionale e non in pubblici lavacri parlamentari, di stampa, mediatici.


Piaccia o non piaccia questa è l'Italia e questa la sua "tradizione".


E Franceschini non avrebbe dovuto dimenticarlo, poiché nel suo partito d'origine su molti vizi "privati" di eminenti esponenti era steso un velo spesso e oscuro, che giammai il PCI, il PSI o alcuna delle forze politiche di sinistra (e anche di destra a dire il vero) avrebbero pensato di sollevare, e non solo per questioni di stile, ma perché quel confine era chiaro e invalicabile.


Nemmeno Di Pietro, che pure ha il copiright dell'antiberlusconismo, ma che nella sua furbizia di prossime ascendenze contadine molisane è ben più sveglio e accorto, ha ritenuto di varcare quel confine (peraltro lui pure sposato due volte e con qualche frequentazione di soubrette: ai tempi in cui era Ministro delle infrastrutture è noto che per le stanze del dicastero di Porta Pia circolava l'Elona Weber).


Invece Franceschini, col suo faccino di bambino un po' invecchiato, il suo taglio di capelli da caposquadra dell'Agesci, il suo bonario accento emiliano, s'è dimenticato di tutta la tradizione sapienzale della vecchia DC, di cui si è nutrito assieme al latte materno, ed è andato fuori dal seminato (e dal seminario!).


E' proprio vero, allora, che i migliori amici del Cav. sono i suoi nemici, e che, come ripeteva Don Vito Corleone al giovane Michael insegnandogli i fondamenti del mestiere di padrino, i nemici bisogna tenerseli stretti, ben più degli amici.


Insomma il PD scopre oggi amaramente che più che a Franceschini si è affidato a Franceschiello, che fece la fine che sappiamo.

martedì, maggio 26, 2009

E SE FOSSE SUO NONNO?

Repubblica continua la saga della Letizia, cui dedica le energie migliori della sua redazione.
Con l'intervista al presunto fidanzato di Noemi è sceso in campo, nientepopodimenoché, Giuseppe D'Avanzo, come dire il Gian Antonio Stella del quotidiano romano, che nel decantati solco del grande giornalismo "d'inchiesta" (quello che una volta si occupava di stragi, mafia, corruttele, delitti eccellenti, cioé "robetta" al confronto dei "misteri di Noemi") ha intervistato il fidanzato (presunto) della ragazzina, un meccanico di discreto aspetto nerboruto e di qualche precedente penale (ma questo ovviamente taciuto), il quale ha dichiarato la sua verità sull'affaire, che coincide con le prime ipotesi investigative proposte dal "Washington Post" de noaltri: il book fotografico, l'intermediazione di Emilio Fede, la chiamata telefonica inattesa, la vacanza nella villa sarda, con condimento di decine di ragazze giovani e avvenenti, la improvvisa mutazione della Noemi, evidentemente assoggettata alle insane voglie dell'anziano anfitrione.
A questo punto Letizia padre ha dichiarato al Mattino di Napoli la sua verità: un incontro casuale una decina di anni fa, una lettera accorata all'indomani della tragica morte del fratello più grande di Noemi, la presentazione della famiglia al Cav., con la Noemi bambina di otto anni o giù di lì che propone di chiamare Silvio "nonnino", corretta dal padre che le suggerisce "non esagerare (mica è così vecchio) chiamalo papi".
E chissà perché a questo punto, come San Paolo sulla via di Damasco, un'illuminazione mi ha attraversato tutto, come una scarica elettrica: E SE FOSSE SUO NONNO????
Poiché ci si muove in un contesto puramente "indiziario", la realtà è aperta infatti a tante diverse letture.
Vediamo un po': la mamma di Noemi ha più o meno la stessa età di Marina Berlusconi, e se ci fate caso ha un profilo, con la mascelletta, e uno sguardo, che ricordano Marina, che è poi la versione femminile del Cav., ben più di Piersilvio, e molto più dei figli della Veronica, in cui i caratteri somatici del Cav. si sono meglio mescolati con quelli della Miriam Bartolini (in arte Lario).
Sappiamo anche che la mamma di Noemi ha frequentato ambienti televisivi, nei tempi di sua gioventù, senza grande fortuna, ma li ha frequentati, e anche qui ci potrebbe essere l'imprinting paterno, i geni non sono acqua fresca.
Poi ha sposato un oscuro dipendente comunale di bell'aspetto, che aveva frequentazioni socialiste nella Napoli socialista dei De Donato, che in fondo era uno dei milieu del Cav. (non Napoli, ma l'ambiente del P.S.I. craxiano).
E chissà, a questo punto, che come in un feilleuton di fine ottocento, il Cav. non abbia scoperto proprio sul finire degli anni '90 che tra le sue varie avventure in giro per l'Italia una aveva prodotto un frutto proibito e inconfessabile: una figlia naturale, mai riconosciuta e mai riconoscibile, a salvaguardia degli interessi dei rampolli legittimi, che già fan fatica ad andare d'accordo tra loro (certo non deve essere stato piacevole per Marina e Piersilvio ritrovarsi figli di separati perché Veronica Lario aveva avvinto nelle sue grazie il papà, ma questi sono probabilmente dettagli per Veronica).
Che fareste voi se scopriste di avere una nipote naturale, che è peraltro la più grandicella tra tutti i nipoti, e che, sfortunata, mai ha goduto e mai potrà godere dei frutti solari, pieni e polposi, di una illustre e ricca ascendenza?
Andreste ai suoi compleanni? Le fareste qualche regalino? La invitereste con un'amica, facendole trovare un ambiente "giovane", per regalarle una vacanza di fine anno? Vi ricordereste della festa dei diciotto anni?
Certo che lo fareste, tutti, senza distinzione.
Ma voi mica vi chiamate e siete Silvio Berlusconi, mica avete già cinque figli legittimi e quattro nipoti legittimi, mica dovete preoccuparvi di evitare che una verità "nascosta" deflagri come una atomica distruggendo quel minimo di armonia tra i figli che va pazientemente costruita col bilancino tra donazioni, intestazione di immobili e valori immobiliari, partecipazioni azionarie.
E forse addirittura preferireste, da un certo punto di vista, sentirvi dare del corruttore di minorenni e quasi pedofilo, sopportando lo sputtanamento muliebre e le inchieste di Repubblica, piuttosto che dover ammettere questa "verità nascosta" così destabilizzante, non per lo Stato o i destini dell'Italia, ma più prosaicamente per i destini di una famiglia.
La "variante del nonno", dite la verità, non l'avete mai considerata, e non la considera nemmeno Repubblica, perché al quotidiano di via Cristoforo Colombo, e al suo editore De Benedetti, interessa solo che l'Italia intera tracimi di indignazione per l'anziano signore che insidia le minorenni, cioé metaforicamente e potenzialmente, le "figlie" di tutti, dell'edicolante, come del vigile urbano, dell'operaio, come dell'avvocato, del medico, come del giornalista, insomma di tutta la "ggente".
E in Italia si sa, marturianamente, "i figli so' piezze e' core".

mercoledì, maggio 13, 2009

IL DEBITO DELLA VERITA'




Ieri sera, in tarda serata, su RAI 2 è stato ritrasmessa una puntata, a cura di Gianni Minoli, dedicata all'omicidio di Luigi Calabresi, con una ricostruzione accurata del fatto e del contesto e testimonianze di Gemma e Mario Calabresi, Panza, Mughini, D'Ambrosio e altri che in modo diverso furono "persone informate dei fatti".


Avevo letto un anno fa il libro di Mario Calabresi "Spingendo la notte più in là", che muovendo dalla dolorosa esperienza personale (l'autore aveva appena quattro anni al momento dell'assassinio del padre) e dai ricordi di come una tragedia personale abbia pesato sulla sua vita eppure non lo abbia piegato a logiche di rancore e risentimento, allargava lo sguardo ad alcuni familiari di vittime del terrorismo, persone minute di cui si perde prestissimo ogni memoria.


Pochi mesi fa ho letto "La notte che Pinelli", il saggio puntiglioso con cui Adriano Sofri ricostruisce le settantadue ore del ferroviere anarchico (era un "frenatore") nelle stanze della questura di Milano, ripropone i dubbi sugli esiti dell'indagine sulla sua morte, riepiloga -per vero in modo abbastanza sommario- la campagna di stampa di Lotta Continua contro il commissario Calabresi e le vicende del processo per diffamazione intentato contro il direttore del giornale.


Il 13 dicembre 1969 avevo poco meno di dodici anni, eppure ricordo bene le immagini del telegiornale e il grande buco nero sul pavimento del salone della Banca nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana, le foto e le immagini di Pietro Valpreda arrestato, il viso del commissario Calabresi, lo scalpore per la morte di Pinelli.


Il 17 maggio 1972, il giorno dell'omicidio di Calabresi, ero più grande e consapevole, e sopratutto avevo esperienze di prima mano sui cortei e gli slogan contro Calabresi e in generale sulla "strage di Stato" rimata con "Feltrinelli assassinato".


Capisco il punto di vista di Adriano Sofri, ma credo che nel suo libro, peraltro scritto bene e documentato, manchi veramente una parola piccola e sincera, un'ammissione senza se e senza ma di aver scelto un uomo e di averne fatto un simbolo, e quindi un bersaglio per pallottole che, sia o meno venuto un ordine esplicito o implicito dal leader di LC, comunque recavano una firma morale e politica inequivocabile.


Quell'assassinio, piaccia o non piaccia, ha aperto la strada della c.d. lotta armata, cioé dell'omicidio politico perché ha indicato come da parole generiche e astratte rivoluzionarie si potesse passare ad azioni concrete contro persone "emblematiche": se non sei in grado di uccidere lo Stato con la rivoluzione, almeno puoi far fuori gli uomini che stanno dalla sua parte, ne sono funzionari, lo servono.


E' questa la consapevolezza che è mancata in Sofri e in tanti della sua generazione, è questo il motivo per cui, ancora oggi, non sembra possibile chiudere con un gesto politico di amnistia la stagione delle stragi e del terrorismo.


Se però in qualche modo i silenzi e le omissioni di Sofri su questo punto sono comprensibili (eppure non giustificabili), quello che mi indigna è che, invece, nessuna riflessione critica vera, a parte quattro "ritrattazioni", è mai stata formulata dai tanti "intellettuali" che sottoscrissero l'appello e in realtà l'atto di accusa, l'imputazione, pubblicata da L'Espresso il 13 giugno 1971, cioé poco più di un anno prima dell'omicidio di Calabresi.


Certo molti del 757 firmatari non saranno più in questo mondo, altri saranno vecchissimi e avranno dimenticato, ma tanti ci sono ancora, a cominciare da Eugenio Scalfari, e in trentotto anni non hanno trovato tempo né voglia per dire: mi dispiace, forse allora sottoscrissi un documento che costituiva una sentenza politico-morale di condanna che, dato il clima e i tempi, era una condanna alla pena capitale, era un'assoluzione preventiva per quanti avessero fatto "giustizia di popolo".


E' questo ruolo oscuro e vischioso di molti intellettuali, che da colonne di giornali, cattedre universitarie, scranni parlamentari, inseguivano il pensiero comune, anziché cercare di formare coscienze democratiche, blandivano i movimenti e ne stimolavano progetti velleitari di rovesciamento violento dell'ordine politico e sociale, anziché indicare la strada del confronto democratico, che ha fatto anche da brodo di coltura del terrorismo e ha bruciato la peggio gioventù e anche qualche pezzo consistente della meglio gioventù.


Magari sono i cattivi maestri che poi si sono trovati una nicchia profumata e comoda nella società dell'informazione o che sono diventati direttamente e francamente aedi del berlusconismo: chierici allora e chierici oggi, all'insegna dell'eterno "Franza e Spagna purché se magna".


Come ci si può meravigliare se non si riesce a fare i conti e chiuderli con le vicende del 43-45, se in un contesto tragico ma di minor impatto storico, politico ed esistenziale, non si riesce a chiudere i conti con il periodo delle stragi e del terrorismo?


E così la memoria diventa un buco nero, tra generazioni che hanno vissuto e non riescono a dire "abbiamo sbagliato" e generazioni che non sanno e non vogliono conoscere.


E in questo buco nero che assorbe ogni luce di verità e coscienza, precipita anche la coscienza civile di un paese che inscena ogni giorno talk show e non veri dibattiti, dichiarazioni e parole d'ordine effimere, profluvi di parole che obsolescono da un giorno all'altro, perché tutte centrate sull'adesso e ora, una via l'altra.


Sullo sfondo rimangono due fotografie in bianco e nero, due uomini i cui destini si sono tragicamente intrecciati, due padri che non hanno potuto vedere crescere i figli, né abbracciare i nipoti.


A loro, tra i tanti, bisogna chiedere scusa, e non dimenticarli.


Onore a Luigi Calabresi e Pino Pinelli.

venerdì, maggio 08, 2009

L'ARMA FINALE: LA BOMBA DELLA LOLITA


I tedeschi negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale furono illusi che le sorti del conflitto, ormai irrimediabilmente segnate, potessero essere rovesciate con l'arma finale; ma in effetti nonostante gli scienziati nazisti si dilettassero con l'acqua pesante erano ancora ben lontani dalla atomica, cui invece erano vicinissimi gli americani, che nell'estate del 1945 ne fecero un uso "spettacolare" anche per mandare un avvertimento a Stalin.

La sinistra radical chic dei Santoro, Travaglio, De Gregorio (Concita), Vauro, La Repubblica e L'Espresso, e compagnia di giro cantante, si è convinta di aver trovato l'arma finale per abbattere Kaiser Silvio.

E quest'arma ha le sembianze, in f0ndo un po' banali e veline, di una ragazzotta di Casoria, figlia di un messo comunale, che risponde al nome gentile di Noemi, e che come molte ragazze più o meno belline della sua generazione (ma anche di quelle precedenti) vorrebbe arrivare al successo e ai soldi facili passando per le porte della TV, o almeno per quelle di Montecitorio (ma ovviamente solo come ripiego).

Perché, com'è noto, agli italiani tutto puoi chiedere e tutto possono tollerare, essendo campioni di vizi privati senza pubbliche virtù, meno che toccare "la famiglia" e i ccriature"; e quindi se insinui, suggerisci, arguisci, che uno che fa addirittura il presidente del consiglio dei ministri, ovvero il premier, attenta alle virtù della famiglia e sopratutto a quelle di una "minorenne", il risultato dovrebbe essere una deflagrazione distruttiva in senso figurato come l'atomica americana, con Silvio polverizzato quasi all'istante nel consenso popolare.

Il teorema Noemi è presto costruito: basta dire che il padre è un oscuro messo comunale (che ha avuto qualche guaio giudiziario di corruzione, anche se è stato assolto), che Silvione si precipita alla festa della ragazzotta e le regala un monile, che la criatura chiama Silvio "papi", che ha fatto un libro fotografico mandandolo in giro, ovviamente anche a Mediaset, che pare sia stata coi genitori ad Arcore e forse anche in Sardegna.

E se tutto questo non basta, rinforzare la bomba sporca con qualche condimento gossipparo, come la dichiarazione della Veronica che dicendo, a commento della illazione che la Noemi sia una figlia illegittima (pardon naturale ma non riconosciuta) di Silvio, "magari fosse sua figlia!" mette un suggello di dolente rassegnazione alla turpe idea della relazione tra l'anziano tycoon settantatreenne e la fresca fresca diciottenne, ovviamente con la ignobile complicità dei due genitori lenoni, a questo punto emuli dei Tenardier de "I Miserabili".

Perché poi la Veronica lascia intendere, anzi sostiene, che Silvione "non sta bene", cioé è malato, e che lei aveva implorato i suoi famigli e collaboratori di aiutarlo ma è rimasta inascoltata.

Ne nasce l'immagine di un anziano sessuomane, col chiodo fisso, che come tutti i dipendenti da qualcosa ha bisogno di dosi sempre più grandi di trasgressione, e non bastano più le trentenni, le venticinquenni, le ventenni, ma ci vogliono le diciottenni, già diciassettenni e prima ancora sedicenni o quindicenni.

Certo l'ideale sarebbe una bambina di otto o dieci anni, così l'immagine del pedofilo sarebbe piena, effettiva, autenticata; ma in mancanza d'altro basta essere comunque minori degli anni 18.

A me questa arma finale sembra come le V2 che bombardavano Londra: qualche palazzo poteva anche andar giù, ma di lì a polverizzare Westminster o Buchingam Palace, o il Ponte ce ne correva.

Così potrà crollare qualche pezzo di fondotinta cementizio dal volto del Cav., lasciando intravvedere le rughe e le borse sotto gli occhi, e i sondaggi flettere di due, tre, cinque punti.

Ma alla fine della fiera anche questa versione rosso-pecoreccia dell'antiberlusconismo potrebbe rischiare, paradossalmente, per rafforzarlo.

Perché Veronica che difende i figli distruggendo il loro padre nell'immagine, e manda lettere dolenti in giro per le agenzie di stampa e le redazioni dei giornali, non è la casalinga di Voghera che a fatica e caro prezzo (di spese legali) affronta la separazione sapendo che dovrà campare con un assegno di mantenimento di 400-600 euro; perché l'onesto meccanico di Abbiategrasso, che si compra a 50 euro l'amore mercenario delle lolite russe, ungheresi, rumene, baltiche, avrà forse un moto d'invidia, non di condanna per quello che lui stesso fa; perché le tante mamme tutt'inansia per le loro figliole, che ben vedrebbero sistemate anche come veline, figuriamoci come parlamentari, si ribelleranno all'idea di essere considerate anche loro delle venditrici delle filiali virtù.

E chissà che anzi il "popolino", tanto abborrito dalla sinistra radical chic, ma tanto concreto, reale e determinante, alla fin fine non solidarizzi pure con Silvio, pensando che la Veronica, ora raffinata e dolente, a suo tempo strappò il rampante e ricco imprenditore al talamo nunziale senza darsi troppo pena dei figli allora piccoli di primo letto, e che, in definitiva, come nel detto popolare, chi la fa l'aspetti.

A quel punto troverei giusto insignire Santoro, Travaglio, Vauro e la compagnia di giro della sinistra radical chic dell'Ordine di Silvio, giusta onorificenza di quattro guitti del giornalismo e della politica che tanto hanno fatto e meritato nel consolidamento del suo potere.