domenica, giugno 04, 2006

La guerra dei mondi


Ho visto ieri su uno dei canali pay per view di Sky "La guerra dei mondi", remake spielberghiano di un film del 1953 (regista Byron Haskin) e sopratutto del celeberrimo sceneggiato (o drammatizzazione?) radiofonica con cui Orson Wells nella trasmissione "Mercury Theatre on the Air" terrorizzò, suo malgrado, il New Jersey la sera del 30 ottobre 1938, raccontando un'immaginaria invasione aliena, con astronavi che emergevano dal sottosuolo e distruggevano uomini e cose.
Si tratta dell'adattamento, come è noto, del romanzo di Herbert George Wells, pubblicato nel 1897 e ambientato nella nebbiosa Londra di fine secolo, la stessa teatro delle gesta di Jack lo squartatore.
C'è un filo rosso che, probabilmente, unisce i tre diversi contesti storici.
La Londra degli ultimi anni dell'800, all'apice della sua potenza imperiale, già avvertiva probabilmente, almeno nei suoi spiriti più sensibili e lungimiranti, lo spettro di quella che, benché superata in ferocia ed efferatezza dalla seconda guerra mondiale, è e rimarrà per sempre "la grande guerra".
L'America di fine anni '30, benché in ripresa rispetto al crollo del 1929, non poteva non avvertire i tuoni minacciosi, di là dell'Atlantico, di un conflitto che sarebbe scoppiato dopo meno di un anno dal 30 ottobre 1938, con l'invasione nazista della Polonia.
Il Mondo del 2005 guarda sgomento all'immagine indelebile delle Twin Towers centrate dagli aerei passeggeri scagliati da Atta e complici, alla guerra in Iraq, all'Iran che procede verso l'arma nucleare, al terrorismo islamico insediatosi nel giardino di casa.
La fantascienza può dar corpo ai sogni e agli incubi, a seconda dei periodi storici.
Nel 1977 l'aspirazione alla pace, l'idea di un progresso benevolo e benefico, gli echi non del tutto spenti del '68, dei valori e delle utopie della generazione dei figli dei fiori, costituirono il retroterra culturale nel quale Steven Spielberg potè collocare, in modo efficace e suscitando un'ondata di emozione e commozione (come sempre riesce a questo ineguagliabile regista-produttore, in ogni sua iniziativa), l'edificante favola di "Incontri ravvicinati del terzo tipo", con i suoi alieni diafani e angelicati, l'apoteosi di colori e suoni delle astronavi aliene, l'indimenticabile lunga sequenza dell'arrivo dell'astronave madre sul pizzo del diavolo, con successiva edizione rimpolpata dalle immagini dell'interno dell'astronave.
Certo gli effetti speciali curati da quello stesso Douglas Trumbull di "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick (1968) si erano affinati, senza poter raggiungere le vette della moderna tecnologia digitale (ma è un po' come con Biancaneve e i più recenti cartoon della Disney: quale ha maggior poesia e suggestione?); ma in "Incontri ravvicinati" soffiava un vento leggero e fresco di speranza e ottimismo che il grandioso affresco di "2001" non aveva e non voleva avere nella sua visione angosciante di un futuro dominato dallo scontro tra gli astronauti e Hal 9000 e dalla solitaria discesa dell'unico astronauta sopravvissuto sul pianeta Giove e in effetti all'interno della propria coscienza ed esperienza.
La stessa visione ispirava, nel 1982, "E.T. l'extraterrestre", con quel "cucciolo" di alieno (e almeno così lo trattavano i ragazzini protagonisti del film) tenerissimo quanto un cagnolino, intelligentissimo, capace col suo ditone allungato e luminescente di ogni guarigione, esserino tanto miracoloso da miracolarsi da solo quando sembrava irreparabilmente morto tra le lacrime di grandi e piccini nel buio delle sale cinematrografiche.
Ma quella favola a lieto fine era poi declinata in quella triste e struggente del bambino-robot di "A.I. artificial intelligence" del 2001: l'11 settembre era ancora, sia pur di poco, di là da venire ma nella rilettura fantascientifica di Pinocchio e nell'avventuroso viaggio del bambino-robot alla ricerca della sua umanità e della mamma che lo aveva abbandonato, c'erano ancora alieni benevoli che, riscoperto il bimbo ibernato nelle profondità marine di una New York spopolata coperta dalle acque e poi dai ghiacci, gli consentivano il "miracolo" di riportare in vita la mamma e passare con lei un lungo-breve giorno, dall'alba al tramonto, prima di rimetterla a letto e lasciarla al suo sonno eterno.
Niente di tutto questo, ovviamente, ne "La guerra dei mondi". Qui le astronavi aliene si annidano sotto terra e vengono riattivate da alieni cattivi, anzi spietati, e orridi che si catapultano nelle stesse portati da terrificanti fulmini che attraversano il cielo e perforano l'asfalto.
Gli alieni distruggono tutto, cose e persone, queste ultime polverizzate da raggi di calore che lasciano intatti e svolazzanti (come i fogli di carta nel cielo dell'11 settembre dagli squarci delle torri gemelle?) soltanto i vestiti, e succhiano il sangue degli umani, risputandolo sotto forma di fertilizzante destinato a dar vita a piante mostruose e rosse, e a trasformare il pianeta azzurro in pianeta rosso, in albe e tramonti lividi tra i fuochi e le esplosioni dei vani scontri tra truppe terrestri e astronavi "tripodi", con le tre gambe che riproducono quelle filiformi e mostruose degli alieni.
Qui la fantascienza da corpo agli incubi di oggi; ed è impossibile non scorgere nella emersione delle astronavi aliene dal sottosuolo e nel conseguente sgomento e terrore la metafora della scoperta di un terrorismo insabbiato e incistato nel sottofondo delle società occidentali, che si risveglia e colpisce e distrugge.
Un intenso Tom Cruise interpreta il protagonista Ray Ferrier, operaio portuale dalla vita privata sbrindellata, che nella fuga avventurosa e nella tenace resistenza al pericolo della distruzione aliena saprà riscattare lo sbiadito passato di padre immaturo e irresponsabile e riguadagnare l'amore e il rispetto dei suoi due ragazzi l'adolescente Robbie e la piccola Rachel, che riporterà sani e salvi alla mamma (rimasta tranquilla e illesa nella casa dei suoi genitori a Boston, assieme al suo nuovo, inutile e inetto compagno della middle class).
Nel film c'è anche un "cammeo" di Tim Robbins, nel ruolo di uno stralunato e impazzito solitario "resistente" che nell'accenno all'impossibile impresa di scavare un cunicolo e arrivare nelle fogne e metropolitane delle grandi città rappresenta l'allusione al finale alternativo immaginato da Herbert George Wells.
Il film invece ripropone il finale classico: gli alieni si beccano una quantità industriale di virus, battesi, protozoi e miceti che ne minano il sistema immunitario e li uccidono.
Conclusione che, in tempi di aviaria e rischi di pandemia, delinea almeno uno scenario futuribile più o meno consolante, in attesa delle astronavi aliene.