E' finita davvero la campagna elettorale forse più lunga della storia d'Italia. I seggi aperti, le "gabine" come direbbe Umberto Bossi, i manifesti elettorali colorati di non meno di venti liste, e anche sino a ventisette, a seconda delle circoscrizioni, la polizia urbana e i militari a guardia dei seggi, la tessera elettorale -che qualche anno fa ha eliminato i certificati che venivano consegnati di volta in volta-, le solite romantiche matite copiative sempre poco temperate, e sempre indiziate di lasciare impronte a ricalco che in tanti casi invalidano i voti, le tabelle di scrutinio e i verbali delle sezioni elettorali che, se solo si seguissero le istruzioni diramate dal Ministero dell'Interno, anche un bambino saprebbe compilare, ma che finiscono zeppe di errori, spazi in bianco, cancellazioni...
Insomma, c'è proprio tutto l'armamentario del momento topico di una democrazia, nell'attesa delle fatidiche 15.00 di domani, lunedì 10 aprile, degli speciali elezioni di tutti i canali televisivi, anche loro governati da un rituale consolidato (prima compaiono le quarte, quinte linee dirigenziali dei partiti, i più sfigati che non se li fila mai nessuno, poi man mano che gli exit pool avanzano e si delineano i risultati finali effettivi, emergono le seconde e terze linee fino all'apoteosi dei c.d. leader).
Ricordo ancora l'emozione del primo voto: avevo diciotto anni, era il 1976, e da giovane comunista ancora iscritto, per poco, alla FGCI, riuscii a farmi nominare scrutatore in una sezione elettorale vicino la mia abitazione di allora. Incocciai un presidente di seggio che non aveva alcuna voglia di lavorare e che era del tutto disincantato (altro che sacro rito della democrazia!) assistito da un segretario ancora più neghittoso e ignorante. Gli altri scrutatori non erano da meno.
Il sabato, giorno deputato alle verifiche pre-voto, rimasi scandalizzato quando il presidente del seggio voleva andar via senza nemmeno apporre i sigilli alle finestre e alla porta del seggio, e lo feci da solo tra gli sberleffi degli altri componenti del seggio.
La domenica e il lunedì, oltre alle mie ordinarie mansioni di scrutatore, mi sobbarcai il compito di stilare i verbali delle operazioni elettorali, che altrimenti sarebbero rimasti in bianco; e durante lo scrutinio, oltre a segnare i voti sulle relative tabelle, dovetti intervenire più volte su questioni relative alla validità di voti.
Naturalmente toccò a me (ed era compito del presidente) recarmi a consegnare i plichi con le schede votate, i voti nulli, le bianche, e ricordo l'orgoglio di esser scortato da un vigile urbano.
Nel 1979 mi andò un po' meglio, perché almeno fui nominato vicepresidente, ma incocciai il solito presidente scansafatiche, che sparì per quasi tutta la domenica lasciandomi da solo a dirigere il seggio; ricomparve puntuale per lo scrutinio, e siccome era un democristiano totale e anche un po' imbecille fece questione su voti validissimi dati al PCI e ne nacque una furibonda diatriba con me che dettai una paginata di verbale sul motivo per cui quei voti dovevano considerarsi validi (ebbene sì, ero al terzo anno di giurisprudenza e quindi qualcosina di più sapevo rispetto alla prima esperienza).
Giurai da allora che non avrei mai più fatto non che lo scrutatore nemmeno il presidente di seggio, anche se mi rendo conto che non era atteggiamento espressivo di altissimo senso civico.
Che nostalgia però di quelle due esperienze, dell'odore di stampa delle schede, dei plichi di carta pesante e opaca, delle tabelle di scrutinio e dei verbali, delle istruzioni per gli uffici elettorali stampati su voluminosi libretti del Ministero dell'Interno, dell'orgoglio di essere parte di una macchina pubblica, di ricoprire un ufficio importante e delicato.
E' lo stesso orgoglio che riscopro quando, nonostante questo Stato così sghangherato e pieno di furbastri, rifletto che sono un funzionario dello Stato, anzi addirittura un magistrato, che ora ricopre una carica elettiva nell'organo di autogoverno della magistratura amministrativa.
E' lo stesso orgoglio di quando, quasi venti anni fa, da giovane pretore di una cittadina di ben novantamila abitanti, all'epoca in cui c'erano le vecchie e indimenticabili preture mandamentali e il pretore faceva tutto (PM e giudice, civile, penale, lavoro, vigilanza sulle carceri mandamentali, comandante della polizia giudiziaria), tenevo le udienze, interrogavo imputati, facevo sopralluoghi giudiziari, compivo il pietoso compito di autorizzare il seppellimento di persone morte in circostanze violente o disponevo autopsie.
E' l'orgoglio che aveva mio padre buonanima, vincitore a soli venti anni di un concorso nazionale da maestro elementare, e poi di un concorso nazionale per direttore didattico, e poi di un concorso nazionale per ispettore scolastico, quando parlava con riverenza dello "Stato" e quando essere funzionario statale era motivo di orgoglio, prestigio sociale, rispetto.
Lo Stato, cioé l'ente supremo di una comunità nazionale, con un po' di retorica diremmo "la casa di tutti", di tutti tutti, al di là delle distinzioni politiche e partitiche.
Venerdì scorso, tornando da Roma, ho incrociato in una stazione di servizio una figura importante dell'Italia repubblicana, il senatore a vita Giorgio Napolitano; è rimasto quasi sorpreso quando gli ho ceduto il passo, mi ha ringraziato e stretto la mano, e io ho pensato che è un peccato che la politica, a destra, al centro, a sinistra, non abbia più uomini di quella qualità, di quello spessore, che incarnano anche visivamente, nella loro compostezza, nella misura ed equilibrio, nella lucidità politica, nel senso delle istituzioni, una concezione alta della politica e della vita dello Stato.
Una classe dirigente è certo il frutto e lo specchio dei tempi, ma dovrebbe essere il meglio e non il peggio che una società sa esprimere, dovrebbe esprimere una funzione educativa, costituire un esempio.
Chissà se torneremo mai ad avere uomini delle istituzioni e dello Stato capaci di farci sentire l'orgoglio di questa bistrattata entità che è diventata lo Stato.
domenica, aprile 09, 2006
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