Va bene è Natale.
E allora?
Natale, visto in giro, è solo una sequenza di auguri rituali, di messaggini standard inviati in quantità industriali, di pacchi infiocchettati, di luci colorate ai balconi, di addobbi nelle strade (pochi qui a Bari, tanti a Roma, come sempre non c'è confronto).
E' una full immersion in cene, cenoni, poche tombolate, molte baccarate, c'è ancora qualcuno che gioca a piattino o a sette e mezzo?
E' il rassicurante concerto in TV, poca cosa rispetto a quello di Capodanno sulle note dei valtzer di Strauss (padre o figlio, o tutti e due), la benedizione urbi et orbi, i quotidiani con i programmi per tre giorni, dalla vigilia a Santo Stefano.
Quando ero bambino e ragazzino mi piaceva tutto il mese di dicembre, e tra Natale e Pasqua non avevo dubbi, preferivo il Natale, sarà perché Pasqua porta poche vacanze a scuola, molto perché a Pasqua non venivano a Bari i miei zii e mia cugina, i nostri mitici parenti di Gaeta.
Zia Lucia, austera e burbera sorella di mia madre, dal cuore tenerissimo, che era tanto affezionata al Re che dal referendum del 1946 non aveva mai più votato, nemmeno il partito monarchico, perché non si riconosceva nella Repubblica, e fumava tante sigarette, secondo la buona tradizione di famiglia.
Zio Peppe, maresciallo della Finanza, bell'uomo coi baffetti alla Clark Gable, imponente nella divisa come negli abiti civili, che era stato prigioniero in Germania e di quella fame vera e nera portava il ricordo nel modo quasi religioso con cui mangiava, a tocchetti piccolissimi di pane o di frutta, masticando tanto e tanto e tanto.
Zia Lucia e Zio Peppe arrivavano a Bari all'inizio di dicembre (e quando Peppe andò in pensione anche da novembre) e dormivano da mia nonna Anna, la madre di mia madre, in una casa che a me sembrava grandissima, ma aveva solo un ingresso con cucinotto in veranda, una stanza da pranzo, una stanza da letto e uno stanzino di passaggio, dove dormivano mamma bambina e la sorella più piccola Romana.
Era una festa saperli a Bari e vederli tutte le sere a casa mia, dove veniva a trascorrere qualche ora anche nonna Anna (per me semplicemente "la nonna" perché quella paterna, Rosaria, che viveva a Molfetta e vedevo molto meno aveva bisogno della specificazione del nome), dopo aver sceso, ultraottantenne, ottantotto faticosi scalini di un palazzo senza ascensore, che avrebbe poi risalito a tarda sera, con le sue gambe a tronchetto salde ma flebitiche e i piedi gonfi sempre profumati di borotalco.
Ma era anche una gran fatica il Natale, e prima la vigilia e poi Santo Stefano, per mia madre che doveva industriarsi a cucinare per tante persone e tante portate, e non aveva aiuto in casa, e si affannava dalla mattina della vigilia sino alla sera del 26, e quella stanchezza estrema, a ogni Natale, le procurava una colica renale, e la pressione le scendeva a 60 di massima, e io avevo una paura fottuta perché sapevo che senza di lei saremmo stati tutti persi, e se non ci siamo persi è soltanto grazie a lei e per lei. Così a Natale era di rito anche la visita del medico di famiglia, Michele Contesi che con due iniezioni metteva, quasi, tutto a posto.
Però poi Natale era anche la dolcezza del latte mattutino con avanzi di panettone e pandoro, il tepore delle luci intermittenti di un piccolo albero e del profilo bruno di un piccolo presepe nel buio della stanza da pranzo, nelle notti d'intermezzo tra le feste; e la letterina sotto il piatto di mio padre, certo non bella come quella di Nennillo, in "Natale in casa Cupiello", ma egualmente efficace ai fini della strenna natalizia, perché allora soldi se ne davano pochi o niente a bambini e ragazzini e regali solo nelle grandi occasioni, ossia il compleanno e la Befana.
La strenna era l'unico regalo di Natale, poi toccava aspettare il 6 gennaio, e una volta mia madre e mio padre (avrò avuto cinque-sei anni) mi fecero lo scherzo di farmi trovare del carbone (dolce) e io ero così scemo che ci piansi a dirotto, prima di consolarmi con il gioco che pure la benigna Befana non aveva mancato di portarmi, ma bisogna capire che ero proprio un piagnone da piccolo, oltre che un ammammato totale (ma questo in fondo, lo sono rimasto).
Il 26 però si andava dalla nonna Rosaria, a Molfetta, e lì trovavo i miei cuginetti, tutti più o meno coetanei: Pasquale, biondo come un cherubino e con gli occhi azzurri, appena di due anni più grande, Pietro, bruno e attivissimo (ora come allora) e Mauro, pure lui biondo e ceruleo di occhi, che erano i figli di zio Tanino, l'unico fratello di mio padre, professore di francese; Franchino, corrucciato e scontroso, ed Emiliana, piccola e vezzosa, che erano i figli della più piccola delle sorelle di mio padre, zia Giovanna.
Con loro era eterna la diatriba tra noi "baresi" e loro "molfettesi", ciascuno duro a rivendicare la superiorità della propria città; e se mio padre, esagerando, diceva che l'etimo di Molfetta era "Melficta", ossia "fatta di miele", mia madre, sempre pungente e polemica, replicava che era una storpiatura di "Mal fatta".
Io tutto quel miele in giro non lo vedevo, ma poi non mi sembrava fatta così male, almeno nella parte che affacciava sul porto e per la "villa" il giardino circolare grande meta del passeggio di ogni vero molfettese.
Non c'era miele, ma tante mandorle e buona farina nei dolci natalizi di nonna Rosaria, dagli amaretti alle mitiche spume di mandorla, brunastre, con la crosta dura di zucchero; oppure nel calzone con il merluzzo, che un amico di famiglia e storico della gastronomia volle immortalare in una delle ricette di un suo libro (era il buon professore Luigi Sada, che raccoglieva da vero collezionista un po' di tutto, dalle fotografie di Bari -con un archivio unico davvero-, a menù d'epoca di ristoranti, e mio padre lo definiva con l'ironia che solo un vero amico può permettersi, un "robivecchi").
Ecco, questo era Natale, il vero Natale; mentre ora è solo un intermezzo tra la fatica dei mesi post-estivi e quella dei mesi post-natalizi.
martedì, dicembre 25, 2007
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