Avevo diciotto anni, vale a dire un secolo fa, quando, avvicinato da un sub-sub-sub-sub agente dell'Einaudi, mi lasciai convincere a comprare, a rate, una quantità di libri.
I libri scelti rispecchiavano gli interessi, gli ideali, gli ardori e le ingenuità di un diciottenne, non ancora uscito dalla chiesa pci (di cui ero piccolo parroco come segretario della cellula FGCI più grande tra quelle delle scuole medie superiori).
Comprai a man salva vari libri cult dell'epoca: da una Storia della musica di Massimo Mila in due volumi, alla Rivoluzione francese di Mathiez-Lefebre, al teatro completo di Eduardo (in due volumi telati con sovraccoperta: la Cantata dei giorni pari e la Cantata dei giorni dispari) e tanti altri quali la Storia della Resistenza italiana di Salvatorelli, una Storia dell'industria non so di chi, non il mitico Spriano Storia del partito comunista italiano, perché erano davvero troppi volumi e costavano di conseguenza.
In termini di costo, l'incidenza maggiore fu data dall'acquisto niente meno che delle Opere complete di Cesare Pavese, un cofanetto con forse sedici-venti volumi.
Non dico che li lessi tutti, ma ne lessi buona parte, magari non le recensioni e i saggi critici, ma le poesie e i romanzi si.
Tra i volumi di Pavese uno, con la copertina bianca ormai ingiallita, è "Il mestiere di vivere", celeberrimo diario intimo, antesignano serio e sofferto degli odierni blog.
Oggi, forse perché sono un po' giù (più del solito, direi), l'ho riaperto, cercando le mie ingenue sottolineature di allora.
Ve ne propongo, cari confratelli, un florilegio; citazioni citabili, ma soprattutto meditabili che a distanza di trent'anni riscopro con una consapevolezza diversa, di vita vissuta, e quindi con una più profonda intelligenza.
Pavese non è indicato come un romantico, ma come un decadente, un po' neorealista, sostanzialmente esistenzialista ante litteram.
Eppure, se nei romantici, come ho detto, vi è una sottile vena di disadattamento alla vita, un senso di orgogliosa, ma quanto dolorosa, separatezza dal mondo, dai cinici, dai pragmatici, insomma da quelli che il mestiere di vivere lo conoscono e praticano così bene, e con risultati di certo superiori, quando non eccellenti, Pavese è uno dei numi tutelari di questa congregazione.
Ecco, allora, le citazioni:
Sulla disillusione:
"...Cadono in questi mesi molti valori del passato e si distruggono abitudini interiori che -straordinaria fortuna- nulla per ora sostituisce. Debbo imparare a prendere questa faticosa inutilità come un benedetto dono...Ritorno a uno stato larvare d'infanzia, meglio d'immaturità, con tutte le rozzezze e le disperazioni del periodo...Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l'altra riva, e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un'altra volta...Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia umiltà, la scoperta insomma di nuovi valori, un nuovo mondo..."
(16 febbraio 1936)
Sull'abbandono:
"Eppure -o che l'infatuazione mi inganna, ma non credo- avevo trovato la via della salvezza. E con tutta la debolezza ch'era in me, quella persona mi sapeva legare a una disciplina, a un sacrificio, col semplice dono di sé...perché il dono di lei mi alzava all'intuizione di nuovi doveri, me li rendeva corpo dinanzi. Perché abbandonato a me, ne ho fatta l'esperienza, sono certo di non riuscirsi. Fatto una carne e un destino con lei, ci sarei riuscito, ne sono altrettanto certo. Anche per la mia stessa viltà: sarebbe stato un imperativo al mio fianco..."
(10 aprile 1936)
Sulla donna:
"Una donna che non sia stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia stupida, presto o tardi, trova un uomo sano e lo riduce a un rottame. Ci riesce sempre"
(3 agosto 1937)
Sul modo più conveniente di amare:
"Ma questa è la cosa più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"
(30 settembre 1937)
"Per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonarglisi, non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore. Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona. Erano in gamba gli inventori dell'amore di Dio: altro che insieme si possieda e si goda, non esiste"
(16 novembre 1937)
"L'errore dei sentimentali è non di credere che esistano 'teneri affetti', ma di accampare un diritto su questi affetti in nome della propria tenera natura. Mentre soltanto le nature dure e risolute sanno e possono crearsi una cerchia di teneri affetti. E va da sé -tragedia- che essi li godono meno. Chi ha denti, ecc."
"Sia chiaro, una volta per tutte, che essere innamorato è un fatto personale, che non riguarda l'oggetto amaro -nemmeno se questo riami..."
"L'arte di farsi amare consiste in tergiversazioni, fastidi, sdegni, avare concessioni che epidermicamente riescono dolcissime, e legano il malcapitato a doppio filo; ma in fondo al suo cuore e al suo istinto fan nascere e covano un rabbioso rancore, che si esprime in disistima e desiderio tenace di vendetta. Far degli schiavi è cattiva politica, e si è visto e si vedrà ancora. La consueta tragedia: sa farsi amare soltanto chi sa farsi odiare dalla stessa persona. Così finisce la giovinezza: quando si vede che l'ingenuo abbandono nessuno lo vuole. E ci sono due modi di questa fine: accorgersi che non lo vogliono gli altri e accorgersi che non possiamo accettarlo noi. I deboli invecchiano nel primo modo, i forti nel secondo..."
(5 dicembre 1937)
"Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli"
(13 novembre 1938)
"L'arte di vivere è l'arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiamo bisogno d'invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle, ma bisogna anche disprezzarle. Come con le donne non basta essere stupidi ma bisogna anche essere stupidi"
(27 dicembre 1938)
"A una donna ripugna un uomo che pensi a lei giorno e notte -per la ragione che lei non ci pensa"
(14 ottobre 1940)
"Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige è amato. Cioé, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioé lo amiano. Il dare è una passione, quasi un vizio..."
(27 maggio 1941)
Forse se il buon Cesarone avesse avuto a quei tempi prozac e similari, l'avrebbe messa giù meno dura. E se ci fosse già stata la televisione, nugoli di veline, letterine, piccolesorelle dei grandi fratelli, missitalie, gli avrebbero alleviato la solitudine. Ma allora non sarebbe stato Pavese, ma un Mughini qualsiasi. Dura essere grandi, durissima.
Buona giornata, confratelli.
venerdì, marzo 17, 2006
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