Vorrei scrivere un nuovo romanzo, dopo quello ormai lontano del 1999, pubblicato il 2004 (I fasti di Pompeo).
Ma sono consapevole che si scrive davvero troppo e forse si legge troppo poco.
Per questo sto essenzialmente leggendo, e nemmeno letteratura, a parte qualcosina di deaver, che è un ottimo (il migliore) professionista nel genere criminalistico.
La mia agrafia coincide con l'idea che bisognerebbe dire cose di cui ne valga davvero la pena, che raccontino un pezzetto di mondo e vita di valore universale, che aiutino chi legge a condividere e riconoscersi in ciò che leggono, e chi scrive a vincere, nobilitandolo, l'impulso narcisistico per cui, essenzialmente, si scrive.
L'altro ieri sono passato alla Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi di Roma (ma la più grande è fornita, almeno a Roma, è quella di Largo di Torre Argentina), e mi ha colto un senso di spaesamento tra le tante copertine e dorsi di libri, tutti gli autori, i tanti titoli, le edizioni in brossura o economiche, le varietà di dimensioni.
Ecco, poter scrivere qualcosa che sia anche piccolo, ma in cui ogni parola sia cosa e abbia senso, e viva più di trenta secondi nell'attenzione di chi legge, e possa essere cercata e ricercata, e generi sempre qualche idea nuova, qualche spunto, qualche risposta in quello che dovrebbe essere il colloquio tra l'anima di chi ha scritto e l'anima di chi legge.
Può darsi che io sia poco ricettivo, o attraversi una fase di aridità, ma nessun titolo in questo momento, salvo i classici (che non vuol dire solo i classici-classici, ma anche Sciascia, Saramago, cioé i classici contemporanei), riesce a comunicarmi una voglia divorante di leggere letteratura.
Mi rifugio allora nella saggistica, soprattutto nella storia che in fondo è la madre della letteratura, perché è l'archetipo del racconto.
Chissà se dalla storia non possa nascere la voglia di raccontare qualche storia.
giovedì, novembre 06, 2008
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