venerdì, giugno 19, 2009

SE QUARANTANNI VI SEMBRAN POCHI PER UNA SCOMODA VERITA'


Quarant'anni sono un tempo lungo e per misurarlo nella sua profondità basta pensare che nel 1959 erano passati quaran'anni dal 1919, ossia da uno degli anni del "biennio rosso", in cui andava formandosi e irrobustendosi il partito fascista, che nel 1969 erano andati quarant'anni dai patti lateranensi, che chiudevano il sessanennio della "questione romana", che nel 1979 si celebravano i quarant'anni dall'inizio (agosto 1939) della seconda guerra mondiale con l'invasione nazista della Polonia.


In questo turbolento 2009, segnato dalla crisi economica mondiale e dalle miserie dello scenario politico italiano, cade il quarantennale dell strage di Piazza Fontana, il primo grande avvenimento (dopo l'assassinio dei due Kennedy) di cui posso dire di avere memoria diretta, anche se delineata nell'inquietante gioco di luci e ombre del bianconero dei telegiornali dell'epoca.


Di quelle immagini della sera di venerdì 12 dicembre 1969 conservo il ricordo del buco nero sul pavimento del salone centrale della Banca nazionale dell'Agricoltura, del salone cosparso di detriti, da cui erano già stati portati via i morti e i feriti, e lo sgomento di un fatto che, ai miei occhi di undicenne, era paurosamente prodigioso e inspiegabile.


Anche le foto della scena del crimine sono in bianconero, che è il colore del ricordo e che, nel contrasto tra luci e ombre, non restituisce ma paradossalmente attenua la cruda verità che apparve agli occhi di polizia, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri: le pareti chiazzate di sangue, frammenti di ossa e di materia cerebrale, i corpi anneriti dei morti, i pezzi anatomici sparsi, il colore della vita annientata o segnata per tutta la vita.


E le foto non dicono gli odori di quella scena, dall'acro della nitroglicerina uguale ai disinfettanti di ospedale al dolciastro della carne bruciata, al sentore di mandorle amare del binitrotoluolo (che era uno dei composti dell'esplosivo).


Leggo da qualche giorno "Il segreto di piazza Fontana" di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle grazie), forse il saggio più completo e documentato sulla strage e sugli attentati che nello stesso giorno colpirono Roma (sotterranei della Banca nazionale del Lavoro, Altare della Patria, pennone e lato Museo del Risorgimento, mentre la bomba alla Banca commerciale di Milano, probabilmente destinata non a scoppiare ma a lasciare una "firma" che servisse alla connotazione politica fu fatta frettolosamente brillare nel cortile di quell'istituto di credito).


E' un librone di 700 pagine (compresa una nota tecnica sul tipo di esplosivo utilizzato a piazza Fontana, i ringraziamenti, il fittissimo indice dei nomi), zeppo di riferimenti analitici anche tecnici (il tipo di borse utilizzate e le cassette che contenevano le cariche esplosive, ad esempio), molto diverso nell'impianto e nella narrazione da "La notte che Pinelli", il saggio con il quale Adriano Sofri ha ricapitolato la vicenda del ferroviere anarchico che precipitò da una finestra della Questura di Milano e i suoi sviluppi giudiziari; e ancora diversissimo dal lucido e tenero ricordo di "Spingendo la notte più in la" che ha proposto la inedita prospettiva delle vittime dei fatti di terrorismo, a partire dal ricordo di Mario Calabresi, che perse il padre quando aveva appena due anni eppure conserva un ricordo puntuale di quei giorni.


Il segreto della strage, nella lucida e argomentata ricostruzione di Cucchiarelli, è nel fatto che essa fu una strage "doppia", in cui furono coinvolti gli anarchici, convinti di fare una esplosione solo "dimostrativa" e in realtà attirati in una trappola dai fasciti di Ordine nuovo (Freda, Ventura, e il loro gruppo veneto-padovano) e di Avanguardia nazionale (Stefano Delle Chiaie), a loro volta manovrati da una parte dei servizi segreti, che voleva attentati eclatanti ma dimostrativi per sostenere un disegno di svolta autoritaria, sul tipo di quello che aveva portato al potere i colonnelli greci, ma dove qualcuno giocò sporco, cercando invece proprio la strage, per forzare ancora di più la mano, ottenendo invece l'effetto contrario di fermare la svolta autoritaria, alimentando soltanto la teoria, comunque politicamente utile, degli "opposti estremismi".


Vale la pena riportare un brano del libro:


"Il segreto della strage ha resistito per tanti anni godendo del silenzio di tutti i soggetti interessati: Stato, fascisti e anarchici. Questi ultimi dovevano scagionare Valpreda e rivendicare l'innocenza di Pino Pinelli. Si erano fatti tirare dentro, e ora la situazione non lasciava alcuno scampo politico: difficilmente sarebbe stata dimostrabile nelle aule di tribunale la loro buona fede di non voler causare morti. Da un punto di vista giuridico, la partecipazione degli anarchici alla vicenda sarebbe stata quantomeno un concorso in strage. Gli apparati che si erano resi colpevoli di connivenza coi fascisti dovevano a loro volta tutelarsi. Né poteva saltar fuori il ruolo di polizia politica che i servizi segreti svolsero -coprendo e depistando, facendo fuggire testimoni e occultanto o sottraendo prove- pur di tenere in piedi il tornaconto che la strage aveva offerto. Altrettanto prioritaria era l'esigenza di sottrarre alle condanne i veri responsabili materiali della strage, i fascisti. Avrebbero altrimenti potuto dispiegare un incredibile ricatto nei confronti di chi, all'interno degli apparati, aveva sostenuto l'operazione. Cosa che difatti accadde con le successive stragi. Salvando il segreto della strage, si salvavano anche i fascisti. Ecco perché probabilmente alla strage di Stato seguirono, su entrambi i fronti, le assoluzioni, altrettanto di Stato. Se si fosse distinto tra una borsa e l'altra, tutti sarebbero stati costretti ad ammettere pubblicamente qualcosa di inconfessabile. La trappola in cui erano caduti gli anarchici, che la sinistra doveva difendere a tutti i costi, era diventata ormai un segreto politico condiviso da tutelare. Da parte di tutti i soggetti interessati. Dentro quella trappola è così caduta un'intera generazione".


In pratica secondo Cucchiarelli, quel pomeriggio di venerdì' 12 dicembre 1969 tra le 16 e le 16.25 nel salone della BNA entrarono due persone, in momenti diversi: la prima, Valpreda, aveva una borsa contenente una cassetta metallica con esplosivo innescato da un timer (probabilmente era convinto che la "corsa" del timer fosse regolata a 120 minuti, e quindi che la bomba sarebbe esplosa a banca ormai vuota); la seconda con una borsa contenente esplosivo al plastico a innesco con miccia, che collocò la sua borsa sul ripiano del tavolo ottagonale centrale vicino a quella che aveva lasciato l'inconsapevole Valpreda; fu quest'ultima bomba a esplodere per prima attivando in una manciata di decimi di secondo anche la prima bomba, che era munita di un detonatore esterno; nessuno percepì due esplosioni, perché esse furono quasi istantanee.


La ricostruzione, argomentata e documentata, è del tutto verosimile, ed ha il pregio di mandare a posto praticamente tutte le tessere del mosaico.


Se posso aggiungervi un'impressione personale, direi che è abbastanza coerente con l'immagine di pochezza e sprovvedutezza che ebbi di Pietro Valpreda quando una sera autunnale del 1976 (o del 1977? qui il ricordo non mi conforta bene), andai con un altro colaboratore d Bari Radio Uno a prenderlo al palazzo dell'Ateneo di Bari, in un'aula della facoltà di lettere dove si svolgeva una infuocata assemblea proprio su piazza Fontana, per portarlo sino all'ottavo piano di via De Giosa con angolo piazza Luigi di Savoia via Carulli dove erano gli studi di Bari Radio Uno.


Quella serà andò in onda una intervista radiofonica condotta da Carlo Brienza, all'epoca direttore di Bari Radio Uno, e mi pare di ricordare che ci fossero anche Peppino Garibaldi, Bianca Tricarico, Fortunata Dell'Orzo, forse Susanna Napolitano, e chiedo venia se dimentico qualcuno.


Io non ebbi modo (ero uno degli ultimi arrivati nella redazione) di fare domande a Valpreda, ma lo vidi bene, lo osservai, ascoltai le sue risposte, sopratutto sul ruolo di Mario Merlino, il fascista infiltratosi nel circolo XXII Marzo fondato da Valpreda a Roma.


L'impressione che ne ricavai fu di una persona modesta, veramente modesta per intelligenza generale e politica, cultura generale e politica, del tutto inadeguata al ruolo che gli era toccato in sorte, e però qualcosa in lui non mi persuase del tutto; non riuscivo a scorgerne le stimmate del martire, dell'innocente assoluto predestinato a fare da capro espiatorio.


Fu una impressione vaga, che è rimasta sempre sepolta, e che mi torna alla mente rileggendo le pagine di Cucchiarelli.


Se l'ipotesi del libro è esatta Valpreda fu complice attivo (ma inconsapevole degli esiti mortali che non immaginava e non avrebbe voluto) della strage, fu l'uomo che, assieme agli altri anarchici, cadde nella trappola, e che aveva tutte le caratteristiche di sprovvedutezza e pochezza per diventare strumento di un disegno raffinatssimo che non poteva comprendere, nella sua mediocrità e inadeguatezza, come non lo poté capire, se non quando la strage fu cosa fatta e irreversibile, Giuseppe Pinelli.


Temo che Cucchiarelli possa aver visto giusto dopo dieci anni di ricerche, consultando tutte le fonti disponibili e anche qualche fonte orale informata dei fatti.


Se è così, in quella trappola siamo davvero caduti tutti quanti e la storia degli ultimi quarant'anni va riscritta a partire da questa scomoda verità.

lunedì, giugno 15, 2009

FACIMME AMMUINA

E' un riconoscibile falso il celebrato articolo 27 del Regolamento della Marina borbonica del 20 settembre 1841, secondo il quale, in occasione di ispezioni e visite a bordo di altre autorità, per dar l'impressione che si facesse qualcosa di operoso, attivo, importante, gli imbarcati dovessero fare "ammuina"; ossia, come avrebbe prescritto quel regolamento in pura lingua partenopea: "tutte chille ca stanno a prora, vann'a poppa e chille ca stann' a poppa vann'a prora; chille ca stann'a dritta vann'a sinistra e chille ca stanno a sinistra vann'a dritta; tutte chille ca stanno abbascio vanno 'ncoppa e chille ca stanno 'ncoppa vann'abbascio, passanno tutte p' 'o stesso pertuso; chi nun tene nient' 'a fa' , s'aremen' 'a ccà e 'a là ".
Però si deve esser grati a questo falso, di probabile ispirazione antiborbonica, perché descrive in modo plastico, e come meglio non si potrebbe, il senso di un'azione convulsa, frenetica, diretta appunto a dar la sensazione che tutto si muova e qualcosa accada mentre invece accade poco o nulla.
Forse il Cav. ha riscoperto, in una delle sue visitationes casoriane, il detto, e questo spiegherebbe l'ammuina del complotto più o meno "eversivo", evocato nei giorni scorsi, convalidato dal Sen. Cossiga con le rivelazioni di una congiura intesa a detronizzar Silvio per intronizzare Draghi, emblematico campione dei poteri forti delle banche, della finanza, del variegato mondo imprenditoriale e d'interessi che gira attorno alle une e all'altra.
Epperò, anche Max "statista" D'Alema, in omaggio alla sua intervistratrice (che però è di Sarno, provincia di Salerno, e non propriamente napoletana), ha annunziato alla Lucia "scosse", singulti tellurici, probabili sommovimenti politico-istituzionali, senza rivelare né le fonti delle sue divinazioni, né gli esiti che da questi sismi politici dovrebbero sortire (il crollo di Silvio, un'ennesima increspatura del cerone intonachizio della sua immagine di intramontabile sessantenne pure incamminato verso gli ottanta?).
Forse ognuno parla a nuora perché suocera intenda: il Cavaliere per serrare le fila della maggioranza, evocare un nuovo 1994, spaventare i moderati dell'UdC, mandare segnali alla Lega qualora la guardia pretoriana padana volesse in qualche modo smarcarsi troppo o troppo tirare la corda cui tiene avvinto il resto della maggioranza; Max "statista" per evocare l'esigenza che in passaggi delicati e cruciali non ci si dimentichi, appunto, di quanti, come lui, hanno dato prova di autorevolezza e nervi saldi, sin dal difficile passaggio della guerra del Kossovo, quando ha guidato, unico ex comunista della storia d'Italia, il governo; e magari anche per dire al popolo democratico che non è proprio il momento di affidarsi a convulsi conati giovanilisti pensando di affidare il partito ad una giovane quarantenne carina ma troppo immatura e certo "leggerina" come la Deborah Serracchiani.
L'oggetto comune del contendere, sul terreno politico, poi è nientepopodimenoché l'UdC di Casini e Cesa, che Berlusconi, facendo male i conti, aveva immaginato in liquidazione (dimenticadone il radicamento siciliano e territoriale, in quanto partito degli assessori al sud), e D'Alema vorrebbe imbarcata come un qualsiasi Udeur in un'ampia coalizione antiberlusconiana, comprensiva anche della Sinistra radicale nelle sue due declinazioni (S&L, RC-PdCI-Socialisti) e magari, perché no, anche dei pannelliani e boniniani.
Queste "simmetrie" berlusconian-d'alemiane dimostrano, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia logora e stantia la visione delle cose nel centrodestra e nel centrosinistra. così legata ai tatticismi e al gioco dei messaggi, così slegata dai bisogni e dalle esigenze della società italiana.
La politica sembra ormai soltanto un reality show, con la sua compagnia fissa di giro, le litigate, i pensieri poveri e debolissimi, laterali anzi periferici, gli orizzonti che non vanno al di là del salotto di Porta a Porta.
E in tutto questo Napolitano corre il rischio di far la parte di una qualsiasi Barbara D'Urso o Simona Ventura, quando richiama all'ordine senza convinzione i concorrenti con il fatidico "Ragaaaaziiiiii".