martedì, aprile 25, 2006

LE RAGIONI DEL CUORE


Ho modificato la descrizione del blog, a quasi due mesi dal primo post, perché di discussione ce ne è assai poca (a parte i post dei miei fratelli, di Chris e di Luna, mentre Wil Coyote è scomparso, e me ne dispiace), mentre rimane essenziale, per me, la fedeltà alle ragioni "ideologiche" che mi hanno spinto a tenere questo diario on line.
Le ragioni sono quelle che esponevo in un "Manifesto degli ultimi romantici" postato l'11 marzo e reperibile sotto quella data, che ho sintetizzato nella descrizione.
E' difficile, molto difficile, la fedeltà alle ragioni del cuore, perché se è vero che il cuore ha una sua ragione e le sue ragioni, è innegabile che il mondo se ne fa molto spesso beffe. Anzi quasi sempre, se non sempre.
Quante volte ci si scontra contro la "ragion pratica", e meglio pragmatica, di chi, invece, e dal suo punto di vista magari a buon diritto, mette il cuore al guinzaglio della Ragione?
Quante volte, da ultimi romantici, capita di essere chiamati, con malcelata o evidente compassione, mista magari a una remota ammirazione, "sognatori","visionari",
"idealisti", "utopici", o peggio "fuori di testa"?
Quante volte la realtà delle cose e dei rapporti umani tradisce le illusioni, le speranze, le aspettative?
La regola, piuttosto che l'eccezione, è proprio questa.
Gli ultimi romantici si sentono dire spesso che sono persone belle, splendide, irripetibili, ineguagliabili ma...ci si arrischia poi ad affidargli la propria vita? Si compie il grande balzo, oltre la prosaica realtà quotidiana, i riti, le regole, le convenzioni, che richiede la loro mano tesa?
Eppure, se si è veri ultimi romantici, e siccome lo si è e non lo si diventa, non si cambia lo statuto della propria esistenza, anche quando l'esperienza dimostra che non si va da nessuna parte oltre l'orizzonte del proprio cuore.
Ma se l'orizzonte di quel cuore dovesse chiudersi, se la speranza dovesse spegnersi, se soprattutto dovesse subentrare la rassegnata accettazione delle regole del gioco del mondo antiromantico, non vi sarebbe più vera possibilità di vita: la vita diventerebbe un deserto piatto, arido e secco, molto più di quello evocato da Wil Coyote, una sequenza di giorni tutti uguali, la ripetizione meccanica di gesti, parole, abitudini disincarnate dalla passione, dalla emozione, da ogni impulso vitale vero.
Gli ultimi romantici piangono molte lacrime e ridono molto poco, al massimo sorridono, e spesso di se più che degli altri.
E' vero, tutto vero. Ma in quelle lacrime, in quelle malinconie, in quegli scoppi di rabbia verso il mondo antiromantico e prosaico, in quei sogni, in quelle illusioni, si racchiude un tesoro di vita, il senso che non si è diventati degli zombie, morti viventi quanti ne vediamo, a frotte, per le strade, negli uffici, nei cinema, nei ristoranti.
Se non ho altro che la ricchezza dei miei sogni, lasciatemi dormire in pace.
Se i miei occhi sono quelli ingenui del bambino della foto di scena di "Road to perdition", non mettetemi gli occhiali, non mi cingete il capo con una benda nera.
Se il cuore riesce a battere per un'emozione, lasciate che vada in fibrillazione.
Questo vorrei dire a quelli che si sono rassegnati ad un mondo arido, piatto, secco, come il deserto.
Ho labbra molto meno secche delle loro.

LA STRATEGIA QAEDISTA


L'attentato di ieri sera a Dahab, nel Mar Rosso, è stato commentato, a "botto caldo" da qualcuno con la solita litania che esso è l'ennesima conseguenza della guerra in Iraq.
L'idea che la madre di tutti gli attentati sia la guerra in Iraq è stupida, prima ancora che fuorviante; e non solo perché prima della guerra in Iraq c'è stato l'11 settembre e ancora prima altri attentati devastanti.
La strategia qaedista ha un disegno ben più complesso e ambizioso, e per capirlo basta guardare una cartina geografica del medio oriente.
In senso antiorario si allineano vari Stati: l'Egitto, con la sua propaggine del Sinai che si protende nel Mar Rosso, e a sud il Sudan, e dall'altro lato del Mar Rosso la penisola arabica, con il regno saudita e lo Yemen e tutti gli emirati dall'altro lato, e poi l'Iraq, e a nord la Siria e la Giordania.
Una tenaglia geografica stretta attorno a quella piccola "arachide" che è lo Stato di Israele, unico non musulmano dell'intera regione mediorientale, necessario e tradizionale alleato dell'Occidente, unica democrazia dell'area, unica potenza atomica dell'area, unico del tutto privo di petrolio.
Il "fantasma" Bin Laden nel suo ultimo audiomessaggio, trasmesso dai "fiancheggiatori" di Al Jazeera, non parla per caso del "Califfato" di Bagdad, né per caso cerca di mettere il cappello sull'irredentismo palestinese, e mentre critica l'Occidente che non da ad Hamas quei quattrini che hanno costituito il sostegno della satrapia di Yasser Arafat (malanima) e dell'Autorità Nazionale Palestinese, parla ai dissidenti jiadisti palestinesi, ai suoi infiltrati qaedisti a Gaza City, alle masse povere e ignoranti dei paesi musulmani dell'area mediorientale, che nell'Islam trovano l'unico vero collante, l'unica identità possibile dopo il fallimento del sogno socialista nasseriano, l'unica arma in grado di condizionare i governi dittatoriali o autoritari di quella sfortunata regione della terra.
Non è un caso se Bin Laden cerca di evocare l'orgoglio islamico richiamando la caduta dell'Impero ottomano, e fa nulla se gli ottomani o turcomanni nulla c'entrassero etnicamente e linguisticamente con gli arabi e con la culla dell'Islam, perché il sogno o incubo ladeniano è la restaurazione di un Califfato, che si estenda dalla Turchia almeno sino all'Egitto e faccia un sol boccone di Israele.
Un Califfato ricco di petrolio (come mai il prezzo del petrolio sale, sale, sale: proprio sicuri che sia solo un gioco di domanda e offerta, e che la colpa sia delle tigri asiatiche che ne succhiano sempre più, facendo schizzare i prezzi alle stelle???), ricco di tecnologie, ricco di armi, sperabilmente anche nucleari.
Un Califfato che possa proporsi come potenza politica mondiale, negoziare, condizionare, ricattare l'Occidente, con teste di ponte nell'Europa fragile politicamente, per sue divisioni interne, ed economicamente, per la sfida globale delle tigri asiatiche da un lato e dei paesi latino-americano (Brasile in testa) dall'altro.
Ci si affanna da parte dell'Occidente a negare che sia in atto una guerra di civiltà: infatti, è in atto la quarta guerra mondiale, in cui un pugno di terroristi ben determinati e di satrapie mediorientali costrette, col ricatto e per mantenere il proprio potere, a finanziarli, tengono luogo di eserciti, armate e divisioni, in attesa di una sollevazione più o meno generale delle masse islamiche che rovesci quei governi e li sostituisca con sceicchi locali e teocrazie diffuse.
In questa guerra, ovviamente, e direi per fortuna, l'Islam non è compatto, e non tanto per l'influenza, tutta da dimostrare, del c.d. Islam moderato, quanto per la spaccatura religiosa e dottrinale che attraversa sunniti e sciiti.
In questa chiave l'audiomessaggio di Bin Laden può essere letto anche come una risposta al movimentismo dell'attuale leadership iraniana, che cerca di rompere l'isolamento e di accampare mire egemoniche sull'irredentismo palestinese: al "Califfo" non piace evidentemente la concorrenza, e men che meno quella degli sciiti, essendo lui un wahabita duro e puro, che odia gli sciiti forse più di quanto odi gli stessi americani e gli occidentali.
Forse, sotto questo riguardo, sarebbe il caso di ripensare non tanto all'Iraq, dove in fondo accade solo che la maggioranza sciita rivendichi i suoi diritti dopo esser stata calpestata e oppressa dalla minoranza sunnita, quanto all'Iran e a come un grande paese sciita possa svolgere un ruolo di freno proprio alla strategia qaedista.
Certo è difficile discutere con la teocrazia iraniana, ma questa potrebbe avere, paradossalmente, interessi convergenti perché alla lunga ove emergesse una situazione di egemonia sunnita nella regione sarebbe destinata a essere schiacciata.
Riuscirà l'Occidente, e quindi USA e UE, a guardare con un minimo di lucida consapevolezza al futuro del medioriente, e quindi al proprio futuro?