domenica, marzo 29, 2009

LO SCAFANDRO E LA FARFALLA


Questo giovane uomo, che inforca la moto tra i suoi bambini, uno eccitato e l'altro timoroso, è Jean Dominique Bauby, il giornalista francese che, colpito da una rara sindrome del tronco encefalico, dal nome che ricorda un aereo (locked out sindrome), a seguito di un ictus, nel dicembre 1995 rimase del tutto paralizzato, potendo solo muovere un occhio e batterne le palpebre.
Superata la prima e nera disperazione, prigioniero del suo corpo, che gli dava la sensazione di essere bloccato in uno scafandro da palombaro degli abissi, si accorse che i suoi pensieri e i suoi ricordi, come una farfalla, gli consentivano di volare comunque lontano, nello spazio e nel tempo, e di quella sua avventura decise di farne un libro.
Il libro è stato dettato, lettera per lettera, con un metodo estenuante ma efficace: una inviata della casa editrice gli snocciolava le lettere dell'alfabeto, secondo un "codice" di frequenza nella lingua francese, e lui, chiudendo la palpebra sulla lettera giusta componeva le parole, poi le frasi, poi i capitoli, e poi tutto il libro.
Jean-Do morì un paio di settimane dopo la pubblicazione del libro, intitolato appunto "Lo scafandro e la farfalla", pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie.
Dal libro è stato tratto un bellissimo film, che ha vinto premi a Cannes, ma non a Los Angeles, eppure li avrebbe meritati, forse perché è uscito in contemporanea con un altro film su una situazione estrema dello stesso tipo (Mare dentro).
Ho visto il film su Sky e sto leggendo il libro, che è scritto bene, con lucidità, ironia, senza nessuna autocommiserazione, e che è degno del film quanto il film è degno del libro.
Forse, se la sorte non fosse stata tanto crudele, Bauby sarebbe rimasto solo un buon giornalista e un padre un po' irrequieto (era separato dalla moglie e credo fosse un po' sciupafemmine).
E invece proprio quella sorte ha cavato dalle profondità del suo spirito, libero nella prigionia del corpo inerte, un grande scrittore e la grandezza della sua umanità.
Avrebbe potuto trascorrere gli ultimi due anni della sua vita rassegnato, incupito, incattivito, ha scelto di viverli con una pienezza di pensieri e sentimenti delicati e amorevoli.
E a me viene di chiamarlo come lo chiamava suo padre ultranovantenne, le sue donne, i suoi amici: Jean-Do.
Grande Jean-Do, se come credo il Paradiso esiste, hai certo un posto di riguardo lassù.
E te lo sei meritato.