domenica, aprile 30, 2006

Rose and Jack


Le cose non accadono mai per caso.
Stamattina, quando ho "postato" l'ultimo commento sulle elezioni dei presidenti delle camere, l'ho intitolato al "Titanic" e l'ho accompagnato con una bella immagine del transatlantico più famoso e sfortunato della storia.
In realtà avevo in testa un servizio, letto su "Io donna" allegato al Corsera di ieri, dedicato a Kate Winslet.
Kate Winslet è l'attrice che ha dato corpo e vita al personaggio di Rose, la protagonista del "Titanic" di James Cameron.
Confesso che quando "Titanic" uscì nelle sale, anni orsono, mi rifiutai di andarlo a vedere.
In effetti, vado poco a cinema, e sopratutto quasi mai a vedere i film di cui tutti parlano mentre se ne parla, e proprio forse perché se ne parla.
Pigrizia, snobismo? L'una e l'altro.
Nel caso di "Titanic" poi le notizie di frotte di ragazzine adolescenti che lo rivedevano quattro-cinque volte di seguito, inzuppando montagne di fazzolettini di carta e sospirando a ogni inquadratura di Leonardo Di Caprio (bello avere, almeno, il suo stesso nome!), mi davano i brividi.
Confondermi con quelle pischelle tenerone, magari con le loro camerette zeppe di posters di "Titanic"? Giammai!
Ho visto poi "Titanic" a distanza di qualche tempo, in un cinema estivo di Rosa Marina, villaggio turistico sulla marina di Ostuni, in una serata stellata di agosto.
Mi è piaciuto, tantissimo. Di più. Mi ha commosso, profondamente.
E così, mica poi tanto diverso dalle adolescenti lacrimose, l'ho rivisto in TV quasi a ogni passaggio; e se capita lo rivedo ancora.
Cosa c'è in questo film che riesce a incantarmi?
A prima lettura, in fondo, è niente più e niente meno di un kolossal fumettone americano, con grande dispendio di mezzi ed effetti speciali.
Vero, ma dipende con quali occhi lo si guarda.
Un film ha tanti piani di lettura, e più lo vedi più, come in una scansione, li scopri uno a uno.
Il primo strato è quello del kolossal, certo, e se ti fermi a questo lo archivi come un esempio, di quelli buoni, della colossale macchina produttiva americana, commenti "gli americani li sanno fare 'sti film, e ci hanno pure i mezzi" e finisce li.
Poi, però, se lo rivedi e ci pensi su ti accorgi che c'è qualcosa di più.
Una grande, bella, commovente storia d'amore, anzitutto, fresca, intensa, palpitante, che si brucia in una notte stellata, l'ultima del "Titanic".
Una storia impossibile, come tutte le grandi storie d'amore, tra un vagabondo col genio del disegno, Jack, e una rampolla di una decaduta famiglia inglese, Rose, costretta a promettersi a un giovane squalo del mondo degli affari americano, ricco, ignorante, possessivo, volgare.
Rose è una giovane splendida donna, assetata di vita, di bellezza, di esperienze, di verità, che non disdegna di ballare in terza classe, che vuole imparare a sputare come un uomo, che vuole andare a cavallo a gambe larghe come un uomo.
La vera protagonista di "Titanic" è Rose, il suo coraggio di ribellarsi ai ruoli, ai copioni di vita scritti da altri.
Kate Winslet è una Rose magnifica. E' bella ma non perfetta, il viso un po' lungo dagli occhi chiari ma non chiarissimi, le forme piene e rotonde.
Rose ha la magia della femminilità, quando la femminilità diventa magia, ciò che non accade poi così spesso (nessun paragone con la pur perfetta Angelina Jolie o con le altre dello star's system, compresa Nicole Kidman, bellissima ma algida)-
Rose riempie lo schermo e incarna quell'impasto miracoloso che solo alcune donne possiedono.
Per dare un'idea di quello che intendo, devo citarmi. Ho scritto un romanzo "Elogio di Pompeo" e la unica donna del romanzo si chiama Adriana; ebbene per capire cosa è una donna che ha la magia della femminilità leggete queste brevi righe:
"Lui sapeva tutto ciò e ne era comunque irretito e prigioniero, perché quegli occhi azzurri screziati di giallo, che conoscevano ogni arte spontanea dell’astuzia femminile, la malizia, la lussuria, la pudicizia, la tenerezza, lo smarrimento, la comprensione, la pietà, gli si erano ficcati nell’anima e non avrebbero mai mollato la presa".
Malizia, lussuria, pudicizia, tenerezza, smarrirmento, comprensione, pietà.
Se negli occhi di una donna c'è tutto questo, c'è la magia della femminilità.
Rose, in "Titanic", ne ha in abbondanza di tutto.
E' per questa magia che il suo arrogante fidanzato si strugge comprendendo come Rose non lo ami e non lo amerà mai, qualsiasi cosa lui faccia, per quanto possa regalarle il mondo.
E Jack che è un povero squattrinato è invece riamato perché a sua volta è giovane, vivo, fremente, generoso, romantico, e sa offrire a Rose qualcosa di più prezioso del diamante blu, l'utopia della libertà e della felicità.
Rose è Rose e non una qualsiasi ragazzuola che civetta a bordo del "Titanic" perché accetta la sfida di essere felice contro tutto e tutti, contro le regole, le convenzioni, d'inseguire il sogno, di farlo vivere tra i corridoi del transatlantico, nella stiva dove sono le poche lussuosissime automobili, a bordo proprio dell'auto del suo fidanzato, coi finestrini che si appannano per le effusioni amorose dei due giovani, sul ponte della nave dove cadono i pezzi dell'iceberg appena urtato, mentre le luci si spengono e la grande nave si spezza in due, prima che la prua trascini la poppa verso gli abissi, nelle acque gelide dove Jack le muore vicino assiderato avendole lasciato un relitto per salvarla.
E questo è un secondo piano di lettura del film, per me bellissimo perché pieno di grandezza, semplicità e verità.
C'è poi il terzo piano, comune anche alle altre versioni cinematografiche del "Titanic", quello della grande tragedia collettiva, dei destini che si intrecciano a bordo della nave immensa, data per "inaffondabile", che è la trasparente metafora di un mondo, quello del secolo lungo (l'ottocento, l'età degli imperi, del positivismo, del progresso) che va in mille pezzi perché arriva la guerra, la Grande guerra, quella del 1914-1918 che inaugura il "secolo breve".
Il Titanic è la rappresentazione del mondo e della società, con le sue classi, ai piani alti e ai piani bassi, i suoi splendori effimeri, le sue miserie durevoli, i suoi atti di coraggio sovrumano, le sue infime viltà.
Il film di Cameron lo racconta abbastanza bene, tratteggiando le figure minori, dal progettista, inebetito dalla rapidità con cui la nave affonda (e affonda perché la White Star, società armatrice, ha voluto risparmiare sui materiali e le rivettature), al capitano che, al suo ultimo viaggio, ha ceduto all'orgoglio di stabilire il record di velocità della traversata atlantica, e chiuso nel suo orgoglio affronta dalla tolda l'inabissamento, al laido rappresentante della società armatrice che sarà tra i primi a mettersi in salvo (altro che prima le donne e i bambini).
Vedete quante cose possono leggersi in un film che all'apparenza è un polpettone?
Tornando a Kate Winslet, dirò anche che ho appreso dal servizio di "Io donna" che è sposata con un altro dei miei miti, il regista Sam Mendes, quello di "American beauty" ed "Era mio padre" ("Road to perdition"), film che amo entrambi, e sopratutto il secondo che, come "Titanic", rivedo a ogni passaggio televisivo.
Sarà stupido, ma la cosa mi ha fatto piacere, come se trovassi l'intreccio di quelle due persone, l'attrice e il regista, qualcosa di naturale, logico, una complementarietà necessaria, del tipo di quelle che ho evocato in altri "post".
Mica per caso ho scelto più volte l'immagine del bambino di "Era mio padre", e ne ho fatto la mia "card" di MSN Messanger.
Quando dico che gli ultimi romantici guardano il mondo con gli occhi di un bambino, penso a quel bambino, e in quello sguardo mi riconosco del tutto.
Sono occhi aperti sul mondo, capaci di meraviglia e di sogni. Siamo noi adulti che li sporchiamo quegli occhi, e davvero questo è il più grande delitto. Come è un delitto perdere quello sguardo.

sabato, aprile 29, 2006

Titanic: navigando a vista tra gli iceberg


La giornata di ieri è stata meno convulsa di quella d'insediamento delle Camere. E ha raggiunto i primi risultati istituzionali necessari: l'elezione dei Presidenti dei due rami del Parlamento.
Bertinotti è stato eletto al quarto scrutinio quando era necessaria la maggioranza assoluta, con 337 voti, ma D'Alema ha raccolto ancora più voti degli scrutini precedenti spingendosi sino a quota 100 (le schede bianche sono state 144, le nulle 6, i voti dispersi 11).
Marini è stato eletto (dopo l'annullamento del secondo scrutinio) al terzo scrutinio, in cui era sufficiente la maggioranza semplice dei presenti, che però erano ben 322 (e cioé i 315 più i 7 senatori a vita), e ha conseguito 165 voti, contro i 156 di Andreotti e 1 sola scheda bianca.
Nei discorsi d'insediamento entrambi hanno ricordato il 25 aprile e il 1° maggio, cogliendo come la loro elezione si ponesse a metà strada tra le due ricorrenze; più orientato ai temi consueti della tutela dei meno abbienti e delle nuove povertà il discorso di Bertinotti, con accenti vibrati sulla Resistenza nel richiamo a celebri parole di Piero Calamandrei; più "istituzionale" e scontato il discorso di Marini, entrambi hanno ringraziato i predecessori e si sono dichiarati impegnati al ruolo di garanzia che le rispettive cariche istituzionali esigono, evidenziando l'esigenza del rilancio della centralità del Parlamento, nei suoi due rami.
In una rapida dichiarazione televisiva, colta al volo, un Prodi evidentemente soddisfatto e con un largo sorriso, ha commentato in chiave calcistica "2 a 0".
Berlusconi, dal canto suo, ha assicurato opposizione dura e tenace, e non solo in Parlamento, scatenando così un'ennesima polemica da parte dell'Unione (data la minaccia, non tanto velata, di portare l'opposizione nelle piazze), e l'ennesima precisazione di Bonaiuti, che rilanciava ricordando come l'attuale maggioranza non abbia perso occasione per contestare il Governo Berlusconi proprio nelle piazze.
A parte qualche "Tax Day", "Devolution Day", etc. etc., è un po' difficile immaginare l'elettorato polista coinvolto in larghe manifestazioni di piazza, e comunque dubito che il tentativo di resuscitare i fantasmi della c.d. "maggioranza silenziosa" (che ora poi silenziosa non è tanto) possa giovare alla causa della CdL.
Le due elezioni dicono cose solo in parte convergenti.
L'Unione ha passato, con le difficoltà intuibili al Senato, la prima prova della legislatura.
Marini, alla fine, ha conseguito tre voti in più di quelli necessari e previsti ai primi due scrutini, e questo è per lui di certo un buon risultato; è vero che in quei 165 voti confluiscono la gran parte dei voti dei senatori a vita (solo due, sembra di capire, sono andati ad Andreotti: quello dello stesso divo Giulio e di Pininfarina), e che tra questi almeno 2 non saranno di certo disponibili a presidiare il Senato (la Levi Montalcini per l'età e Cossiga perché non sta bene, come lui stesso ha dichiarato intervenendo in apertura di seduta al Senato).
Andreotti non è riuscito ad andare oltre i 156 voti, non ha avuto cioé forza attrattiva nei confronti dell'elettorato del campo avverso, quindi non è riuscito nell'intento politico di porsi come candidato "istituzionale", "bipartisan" e di "garanzia". Era una missione forse impossibile, ma il suo fallimento ha comunque un significato.
Per quanto esile la maggioranza unionista, rinforzata dalla pattuglia dei senatori a vita, ha tenuto alla prima prova, nella notte evidentemente sono stati somministrati "antidolorifici" ai "maldipancia" che avevano portato tre senatori a esprimere un voto chiaramente nullo ("Francesco Marini"), i segnali che esso lanciava sono stati colti, le trattative hanno avuto presumibile buon esito per i tre reprobi (chissà se Mastella diventerà Ministro della difesa? C'è da scommetterci).
Alla Camera danno da pensare i 100 voti per D'Alema: le manifestazioni di attenzione e gli occhieggiamenti per "baffino" da parte di settori della CdL non sono così discrete da non essere notate.
Quei voti sembrano un segnale, questa volta di almeno una parte dell'opposizione.
Se tale indizio si congiunge alle dichiarazioni di Berlusconi, alla nemmeno troppo velata minaccia insita nella promessa di fare opposizione non solo in parlamento, alla rivelazione che vi sarebbero stati "accordi" o comunque intese più o meno implicite sull'affidamento dell'incarico di governo da parte del successore di Ciampi, il senso di una operazione possibile potrebbe essere quella di una disponibilità a convergere su D'Alema come presidente della Repubblica.
Sul colle più alto D'Alema potrebbe costituire elemento di riequilibrio rispetto a Prodi e alle ali più estreme della maggioranza unionista, garanzia che non vi saranno "vendette" o leggi "contra Berlusconem" più o meno punitive, e chissà, qualora la marcia del Prodino dovesse esser corta, anche di governi di più larghe intese.
Tutto si gioca a partire dal 2 maggio, quando Berlusconi si recherà da Ciampi per rassegnare le dimissioni: se Ciampi, come sembra, dopo un rapidissimo giro di consultazioni e nell'arco di 24 ore affiderà l'incarico a Prodi, ciò potrebbe far saltare l'ipotesi di D'Alema al Quirinale, se Prodi riuscirà come sembra a questo punto possibile a presentare la lista dei ministri e ottenere la fiducia.
Se invece Ciampi dovesse tener duro e lasciare tutto nelle mani del suo successore, potrebbe davvero rafforzarsi la candidatura di D'Alema, anche se c'è da immaginare che ampi settori della maggioranza unionista non vedano affatto di buon occhio questa prospettiva (i diellini della Margherita, certi settori di minoranza dei DS, RC, PdCI, Verdi, Di Pietro, RNP...).
Gli scenari sono davvero abbastanza fluidi, a questo punto.
Nell'immediato il tempo gioca a favore dell'Unione, anche perché un'eventuale (più che probabile) sconfitta della riforma costituzionale al referendum confermativo di fine giugno smarcherebbe la Lega.
D'altro canto l'ipotesi del partito unico dei moderati, benché meno remota di quella del partito democratico, deve scontare molti dubbi soprattutto da parte dell'UdC che, con l'isolamento totale di Follini, rischia una miniscissione: e d'altra parte il partito unico dei moderati affosserebbe l'idea del "polo di centro", ossia della ricostituzione di una DC unitaria, che è nelle aspirazioni degli uddiccini.
Nel frattempo, però, l'Italia naviga a vista tra gli iceberg, come il Titanic

PER UN VOTO MAR(T)IN PERSE LA CAPPA


Il "lupo marsicano", al secolo sen. Franco Marini, non ce l'ha fatta a conquistare lo scranno più alto di Palazzo Madama nella prima, convulsa e tormentata riunione del Senato.
La "vecchia volpe", sen. (a vita) Giulio Andreotti, almeno per la prima riunione non è finito "in pellicceria" (secondo un celebre vaticinio di Bettino Craxi, rilevatosi fallace dato che il leader del PSI ha finito i suoi giorni in terra straniera e il divo Giulio ha superato ormai gli ottantasette anni e due processi "del secolo").
La seduta del Senato è stata tesa, concitata, piena di colpi di scena.
Secondo le dichiarazioni e previsioni della vigilia, Marini avrebbe dovuto conseguire senza grandi travagli i 162 voti (maggioranza assoluta dei componenti del Senato, ossia la metà + 1) necessari, a termini di regolamento di quel ramo del parlamento per l'elezione nei primi due scrutini.
Tra l'altro a favore di Marini avevano manifestato la propria preferenza la gran parte dei senatori a vita, compresa Rita Levi Montalcini che pure vanta una amicizia personale con Andreotti e la moglie Livia (e che secondo qualche voce, non smentita da Andreotti, deve il laticlavio vitalizio anche ai buoni uffici del divo Giulio).
La novantasettenne professoressa senatrice, pur presentandosi al vito, aveva declinato la presidenza provvisoria dell'assemblea, che le spettava, sempre a termini di regolamento, in quanto senatore "più anziano per età".
La presidenza provvisoria è stata quindi assunta dal secondo più anziano, il sen. Oscar Luigi Scalfaro, già Presidente della Repubblica ante-Ciampi.
Il primo scrutinio si è svolto nella mattinata, con seguente risultato:
Marini voti 157, Andreotti voti 140, Calderoli voti 15, Giulio Marini voti 1, bianche 5, nulle 4.
La Lega, tenendo fede alle dichiarazioni della vigilia, in prima votazione aveva fatto convergere i voti sul candidato "di bandiera" Calderoli, che ha poi spiegato ai microfoni della Rai che in tal modo si voleva "testare" la forza propria di Franco Marini.
Nel pomeriggio alla seconda votazione il colpo di scena: Marini arriva e supera di un voto la soglia di 162, scattano i tradizionali applausi dai banchi del centrosinistra, il "lupo marsicano" si fa largo verso Andreotti per concedergli l'onore delle armi, ma la proclamazione non arriva. Conciliaboli dei sei senatori segretari (che costituiscono l'ufficio elettorale del Senato costituito come collegio elettorale), che secondo regolamento sono i senatori "più giovani presenti alla seduta", che chiedono consiglio a Scalfaro, il quale rifiuta ritenendo che i suoi poteri di presidente provvisorio dell'assemblea gli consentano solo la proclamazione degli eletti.
E' accaduto che tra i 162 voti ve ne sono ben tre espressi per "Francesco Marini": ma Francesco Marini non esiste anagraficamente, il "lupo marsicano" si chiama proprio "Franco", nato il 9 aprile 1933, quindi non può ritenersi inequivoca la volontà di votare proprio lui, come se anagraficamente fosse "Francesco" e si facesse chiamare per consuetudine "Franco" (alla Camera si è svolto un gustoso "siparietto" a proposito dei pochi voti espressi per "Luxuria", anziché per Vladimiro Guadagno, ritenuti validi perché lo pseudonimo "Vladimir Luxuria" ha ormai assunto importanza preminente sulle vere generalità, e tutti conoscono l'onorevole "transgender" come Luxuria, pochissimi come Guadagno).
E' vero molti senatori sono "matricole", ma appare difficile pensare che quei tre voti siano frutto di ingenuità. A molti (ovviamente della CdL, ma anche qualcuno dell'Unione, come il pdcino Marco Rizzo, ospite su Rete 4 della Pivetti) sembrano un "segnale" (si parla anche di "pizzini") con l'intento di dare la prova "provata" di un voto che evidentemente era in bilico, o peggio oggetto di trattative per contropartite di governo o sottogoverno (e qui molti pensano, maliziosamente e senza prove, a Mastella, e alla partita per il Ministero della difesa).
I giovani senatori dell'ufficio elettorale (quattro unionisti e due polisti) non riescono a raggiungere un accordo, a stilare un verbale e quindi Scalfaro, per superare lo stallo, decide di ritenere nulla l'intera votazione, riconvocando il Senato per le ore 20.30.
La decisione non mancherà di suscitare polemiche, perché se la votazione fosse stata ritenuta valida si sarebbe dovuto rinviare al giorno successivo, cioé ad oggi, e procedere al terzo scrutinio, nel quale basta secondo il regolamento "la maggioranza assoluta dei presenti". E' vero anche però che la ripetizione del secondo scrutinio mantiene intatta l'esigenza della più alta maggioranza assoluta dei componenti del Senato, e quindi rende più difficile l'elezione del favorito Marini.
Insomma, è difficile sostenere che la decisione di Scalfaro sia "squilibrata", anche se sull'ex presidente della Repubblica piovono critiche poliste perché nella qualità di presidente provvisorio dell'assemblea, si sostiene, si sarebbe dovuto astenere dal votare (e si sa che come ha dichiarato lui vota per Marini). Comunque sono questioni opinabili perché vi sono esempi in un senso e nell'altro nella prassi parlamentare, e l'interpretazione delle regole di "galateo" istituzionale è ovviamente a sua volta opinabile.
Qui accade però un secondo "colpo di scena". Dopo che Scalfaro aveva comunicato la ripresa dei lavori per le 20.30, si "rettifica" e fissa l'orario delle 22.00, pare di capire perché, come lui dice (vedremo lo stenografico dei lavori) aveva ricevuto richieste ubique in tal senso.
I polisti insorgono: l'orario, si dice, avrebbe dovuto essere concordato in aula, richieste "formali" non ce ne sarebbero state, il rinvio alle 22.00 viene visto come l'espediente per consentire il rientro a Roma o comunque al Senato di quei senatori di centrosinistra che troppo frettolosamente sarebbero andati via dopo l'applauso "funesto" della seconda votazione annullata.
Lo dice, in apertura dei lavori alle 22.00, Schifani, lo ripete Matteoli, lo ribadisce a chiare lettere Castelli, mentre Angius rigetta quei sospetti ed evidenzia come la scelta di ripetere la seconda votazione è la più garantista.
Scalfaro a sua volta precisa, e sembra un pochino mortificato e un po' stizzito.
Riprende la votazione, al termine della quale si fa anche una seconda "chiama" per i senatori risultati assenti al primo appello (e anche qui pioggia di polemiche perché nel primo e nel secondo scrutinio annullato non ci sarebbe stata la seconda chiama).
Questa volta lo scrutinio procede nel silenzio più assoluto, nessuno azzarda applausi o previsioni, ma dopo l'ultima scheda dai polisti partono grida di "mancato, mancato", "a casa, a casa".
I senatori segretari contano, ricontano, discutono, chiedono di riunirsi separatamente e Scalfaro sospende la seduta (non senza ulteriori polemiche perché si sostiene da alcuni che il seggio elettorale deve compiere tutte le operazioni in seduta pubblica, in aula).
Alle 2.00 della mattina il risultato: Marini 161, Andreotti 155,5 schede bianche, 1 scheda nulla.
Anche questo voto non mancherà di suscitare polemiche: una scheda nulla è tale perché reca solo il cognome "Marini", e quindi è assolutamente incerta la sua attribuzione (c'é anche un senatore Giulio "Marini", già votato come tale nel primo scrutinio (ma Scalfaro non lo sapeva e ha commentato, suscitando ilarità nell'assemblea: "E' una sintesi"). Una delle schede considerate valide sarebbe stata invece votata come "Francesco Marini", e se così fosse ci sarebbe una contraddizione rispetto a quanto deciso in occasione dello scrutinio annullato.
Dunque, nulla da fare, si deve andare alla terza votazione, a partire dalle 10.30 di sabato.
Nella terza votazione è sufficiente la maggioranza (metà + 1) dei senatori "presenti", e se nemmeno in questa uno dei candidati ottiene l'elezione, i due candidati più votati vanno al ballottaggio nella stessa giornata, e risulta eletto chi consegue la maggioranza anche relativa, e in caso di parità il più anziano di età (e cioé Andreotti).
Fin qui la cronaca nuda dei fatti.
Le valutazioni politiche sono abbastanza facili: l'Unione sino a questo momento, e nonostante il voto (prevalente) dei senatori a vita, non riesce a spuntare la maggioranza al Senato; ci sono stati tre "franceschi" tiratori, come li ha definiti con una battuta al vetriolo Andreotti, che sembrano il segno di "maldipancia" nella risicatissima maggioranza, e che con quella strana preferenza "Francesco Marini" hanno forse voluto lanciare un segnale a Prodi e ai Capi partito dell'Unione, in vista di partite da giocare sulla composizione del governo e l'attribuzione dei ministeri. E' anche vero però che Andreotti non ha sfondato il muro delle 155 preferenze, ossia di quei 140 voti del primo scrutinio cui si sono uniti i voti della Lega, e quindi non riesce a pescar voti nel campo avverso, nonostante il suo prestigio e autorevolezza.
Stamane Marini dovrebbe essere comunque eletto, perchè un risultato diverso travolgerebbe la stessa ipotesi del mandato governativo a Prodi, aprendo una fase d'incertezza tra un improbabile governo di larghe intese e un esecutivo tecnico con maggioranza trasversale.
Comunque la si voglia giudicare, l'intera vicenda testimonia un pericoloso avvitamento della situazione politica e istituzionale: la spaccatura continua nel dopo voto, il Governo Prodi rischia di vivere sotto l'incubo continuo di una crisi, i voti al Senato rischiano di dar vita a continui "mercanteggiamenti", con poteri d'interdizione e condizionamenti attribuiti ai senatori "border line", non chiaramente schierati con l'Unione o la CdL.
E se si riflette sugli scrutini alla Camera con i voti di protesta a favore di D'Alema (cresciuti nel corso degli scrutini sino a 70, e pur considerando che parte di essi possa venire proprio dalla CdL per seminare divisioni e imbarazzi), non c'è comunque da gioire, in nessun senso.
L'Italia si è rotta veramente, questa volta.

martedì, aprile 25, 2006

LE RAGIONI DEL CUORE


Ho modificato la descrizione del blog, a quasi due mesi dal primo post, perché di discussione ce ne è assai poca (a parte i post dei miei fratelli, di Chris e di Luna, mentre Wil Coyote è scomparso, e me ne dispiace), mentre rimane essenziale, per me, la fedeltà alle ragioni "ideologiche" che mi hanno spinto a tenere questo diario on line.
Le ragioni sono quelle che esponevo in un "Manifesto degli ultimi romantici" postato l'11 marzo e reperibile sotto quella data, che ho sintetizzato nella descrizione.
E' difficile, molto difficile, la fedeltà alle ragioni del cuore, perché se è vero che il cuore ha una sua ragione e le sue ragioni, è innegabile che il mondo se ne fa molto spesso beffe. Anzi quasi sempre, se non sempre.
Quante volte ci si scontra contro la "ragion pratica", e meglio pragmatica, di chi, invece, e dal suo punto di vista magari a buon diritto, mette il cuore al guinzaglio della Ragione?
Quante volte, da ultimi romantici, capita di essere chiamati, con malcelata o evidente compassione, mista magari a una remota ammirazione, "sognatori","visionari",
"idealisti", "utopici", o peggio "fuori di testa"?
Quante volte la realtà delle cose e dei rapporti umani tradisce le illusioni, le speranze, le aspettative?
La regola, piuttosto che l'eccezione, è proprio questa.
Gli ultimi romantici si sentono dire spesso che sono persone belle, splendide, irripetibili, ineguagliabili ma...ci si arrischia poi ad affidargli la propria vita? Si compie il grande balzo, oltre la prosaica realtà quotidiana, i riti, le regole, le convenzioni, che richiede la loro mano tesa?
Eppure, se si è veri ultimi romantici, e siccome lo si è e non lo si diventa, non si cambia lo statuto della propria esistenza, anche quando l'esperienza dimostra che non si va da nessuna parte oltre l'orizzonte del proprio cuore.
Ma se l'orizzonte di quel cuore dovesse chiudersi, se la speranza dovesse spegnersi, se soprattutto dovesse subentrare la rassegnata accettazione delle regole del gioco del mondo antiromantico, non vi sarebbe più vera possibilità di vita: la vita diventerebbe un deserto piatto, arido e secco, molto più di quello evocato da Wil Coyote, una sequenza di giorni tutti uguali, la ripetizione meccanica di gesti, parole, abitudini disincarnate dalla passione, dalla emozione, da ogni impulso vitale vero.
Gli ultimi romantici piangono molte lacrime e ridono molto poco, al massimo sorridono, e spesso di se più che degli altri.
E' vero, tutto vero. Ma in quelle lacrime, in quelle malinconie, in quegli scoppi di rabbia verso il mondo antiromantico e prosaico, in quei sogni, in quelle illusioni, si racchiude un tesoro di vita, il senso che non si è diventati degli zombie, morti viventi quanti ne vediamo, a frotte, per le strade, negli uffici, nei cinema, nei ristoranti.
Se non ho altro che la ricchezza dei miei sogni, lasciatemi dormire in pace.
Se i miei occhi sono quelli ingenui del bambino della foto di scena di "Road to perdition", non mettetemi gli occhiali, non mi cingete il capo con una benda nera.
Se il cuore riesce a battere per un'emozione, lasciate che vada in fibrillazione.
Questo vorrei dire a quelli che si sono rassegnati ad un mondo arido, piatto, secco, come il deserto.
Ho labbra molto meno secche delle loro.

LA STRATEGIA QAEDISTA


L'attentato di ieri sera a Dahab, nel Mar Rosso, è stato commentato, a "botto caldo" da qualcuno con la solita litania che esso è l'ennesima conseguenza della guerra in Iraq.
L'idea che la madre di tutti gli attentati sia la guerra in Iraq è stupida, prima ancora che fuorviante; e non solo perché prima della guerra in Iraq c'è stato l'11 settembre e ancora prima altri attentati devastanti.
La strategia qaedista ha un disegno ben più complesso e ambizioso, e per capirlo basta guardare una cartina geografica del medio oriente.
In senso antiorario si allineano vari Stati: l'Egitto, con la sua propaggine del Sinai che si protende nel Mar Rosso, e a sud il Sudan, e dall'altro lato del Mar Rosso la penisola arabica, con il regno saudita e lo Yemen e tutti gli emirati dall'altro lato, e poi l'Iraq, e a nord la Siria e la Giordania.
Una tenaglia geografica stretta attorno a quella piccola "arachide" che è lo Stato di Israele, unico non musulmano dell'intera regione mediorientale, necessario e tradizionale alleato dell'Occidente, unica democrazia dell'area, unica potenza atomica dell'area, unico del tutto privo di petrolio.
Il "fantasma" Bin Laden nel suo ultimo audiomessaggio, trasmesso dai "fiancheggiatori" di Al Jazeera, non parla per caso del "Califfato" di Bagdad, né per caso cerca di mettere il cappello sull'irredentismo palestinese, e mentre critica l'Occidente che non da ad Hamas quei quattrini che hanno costituito il sostegno della satrapia di Yasser Arafat (malanima) e dell'Autorità Nazionale Palestinese, parla ai dissidenti jiadisti palestinesi, ai suoi infiltrati qaedisti a Gaza City, alle masse povere e ignoranti dei paesi musulmani dell'area mediorientale, che nell'Islam trovano l'unico vero collante, l'unica identità possibile dopo il fallimento del sogno socialista nasseriano, l'unica arma in grado di condizionare i governi dittatoriali o autoritari di quella sfortunata regione della terra.
Non è un caso se Bin Laden cerca di evocare l'orgoglio islamico richiamando la caduta dell'Impero ottomano, e fa nulla se gli ottomani o turcomanni nulla c'entrassero etnicamente e linguisticamente con gli arabi e con la culla dell'Islam, perché il sogno o incubo ladeniano è la restaurazione di un Califfato, che si estenda dalla Turchia almeno sino all'Egitto e faccia un sol boccone di Israele.
Un Califfato ricco di petrolio (come mai il prezzo del petrolio sale, sale, sale: proprio sicuri che sia solo un gioco di domanda e offerta, e che la colpa sia delle tigri asiatiche che ne succhiano sempre più, facendo schizzare i prezzi alle stelle???), ricco di tecnologie, ricco di armi, sperabilmente anche nucleari.
Un Califfato che possa proporsi come potenza politica mondiale, negoziare, condizionare, ricattare l'Occidente, con teste di ponte nell'Europa fragile politicamente, per sue divisioni interne, ed economicamente, per la sfida globale delle tigri asiatiche da un lato e dei paesi latino-americano (Brasile in testa) dall'altro.
Ci si affanna da parte dell'Occidente a negare che sia in atto una guerra di civiltà: infatti, è in atto la quarta guerra mondiale, in cui un pugno di terroristi ben determinati e di satrapie mediorientali costrette, col ricatto e per mantenere il proprio potere, a finanziarli, tengono luogo di eserciti, armate e divisioni, in attesa di una sollevazione più o meno generale delle masse islamiche che rovesci quei governi e li sostituisca con sceicchi locali e teocrazie diffuse.
In questa guerra, ovviamente, e direi per fortuna, l'Islam non è compatto, e non tanto per l'influenza, tutta da dimostrare, del c.d. Islam moderato, quanto per la spaccatura religiosa e dottrinale che attraversa sunniti e sciiti.
In questa chiave l'audiomessaggio di Bin Laden può essere letto anche come una risposta al movimentismo dell'attuale leadership iraniana, che cerca di rompere l'isolamento e di accampare mire egemoniche sull'irredentismo palestinese: al "Califfo" non piace evidentemente la concorrenza, e men che meno quella degli sciiti, essendo lui un wahabita duro e puro, che odia gli sciiti forse più di quanto odi gli stessi americani e gli occidentali.
Forse, sotto questo riguardo, sarebbe il caso di ripensare non tanto all'Iraq, dove in fondo accade solo che la maggioranza sciita rivendichi i suoi diritti dopo esser stata calpestata e oppressa dalla minoranza sunnita, quanto all'Iran e a come un grande paese sciita possa svolgere un ruolo di freno proprio alla strategia qaedista.
Certo è difficile discutere con la teocrazia iraniana, ma questa potrebbe avere, paradossalmente, interessi convergenti perché alla lunga ove emergesse una situazione di egemonia sunnita nella regione sarebbe destinata a essere schiacciata.
Riuscirà l'Occidente, e quindi USA e UE, a guardare con un minimo di lucida consapevolezza al futuro del medioriente, e quindi al proprio futuro?

lunedì, aprile 24, 2006

ERA DESTINO

Venerdì pomeriggio mi è capitata una cosa curiosa, che mi da lo spunto per una riflessione sul destino.
Era un assolato pomeriggio romano, appena velato da nuvole alte.
Avevo finito la riunione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, l'organo collegiale di autogoverno dei magistrati amministrativi di cui sono uno dei componenti.
Lasciate le magniloquenti sale di Palazzo Spada (cinquecentesca sede del Consiglio di Stato, ricca di stucchi, dipinti, affreschi), con un collega, segretario del Consiglio, stavo tornando verso gli uffici situati a via delle Vergini, una piccola e corta strada che collega via dell'Umiltà alla via che porta a piazza di Trevi (con l'omonima fontata).
Camminavamo per le strade strette e affollate del centro di Roma, così belle e suggestive coi loro palazzi di tufo e travertino, incassati gli uni vicino agli altri, zeppi di trattoriole, osterie, baretti, negozietti.
D'improvviso un proiettile di pietra mi è piombato tra i piedi, frantumandosi in mille pezzi: era un pezzo di cornicione che stava lì, attaccato con lo sputo chissà da quanto tempo, e che, evidentemente aveva deciso di cadere proprio in quel momento, in quel giorno, in quell'ora, quasi m'avesse dato un segreto appuntamento.
Il collega mi ha detto che aveva visto quel proiettile sfiorarmi la testa ed era annichilito.
Se avesse avuto miglior mira, quel proiettile, forse non sarei qui nemmeno a poterlo raccontare.
Ma tant'è: è andata così.
Non sono un temerario né un coraggioso, ma il fatto non mi ha, devo dire, spaventato più di tanto.
Ho rincuorato il collega, forse scosso più di me, con una battuta: "Si vede che non era arrivata la mia ora".
Io credo al destino, almeno per quanto attiene alla possibilità che qualcosa ti caschi sulla testa, ti ammali di una malattia rara e sconosciuta, venga coinvolto in un incidente stradale, ti venga trovare sull'aereo sbagliato, quello che alimenta la statistica secondo cui, nonostante tutto, è il mezzo di trasporto più sicuro, faccia il viaggio inaugurale del Titanic e finisca come è finito.
E' come in guerra: da qualsiasi parte si combatta, una pallottola vagante, magari di "fuoco amico" ti può sempre cogliere in un punto vitale.
Fu il destino, ad esempio, che decise tra Kokura e Nagasaki, la città destinata all'olocausto nucleare, dopo Hiroshima: il cielo su Kokura era pieno di nuvole, mentre su Nagasaki si aprì uno squarcio, quel tanto che bastava al puntatore per inquadrarla nel mirino e sganciare "fat man", la seconda bomba, al plutonio (quella di Hiroshima, chiamata "little boy", era all'uranio); tra parentesi, che mattacchioni questi americani, che si erano divertiti a affibbiare un nomignolo a quelle prime bombe atomiche, poi visti gli effetti si vergognarono e non ci scherzarono mai più.
E'il destino che, a proposito di malattie genetiche rarissime, decide da quale parte della statistica stiamo: ho visto su un canale satellitare un programma su due malattie che causano anomalo accrescimento di parti del corpo, ad esempio una bambina con un enorme dito medio a una mano e l'altra gonfia e irriconoscibile, un giovane uomo con un piede gigante (era la stessa malattia che colpì un inglese dell'Inghilterra vittoriana, conosciuto come "Elephant Man": un medico lo tolse dalla strada e dai circhi, dove il poveretto veniva esposto come fenomeno da baraccone, e sulla vicenda David Linch vi girò un film molto bello sul finire degli anni '70, da vedere se si riesce).
Sempre il destino decide la lotteria di certe malattie rare, come la sclerosi laterale amiotrofica, di cui è morto il radicale Luca Coscioni, che ha fondato l'omonima associazione per la ricerca scientifica, più nota come sindrome di Lou Ghering, uno sportivo americano (forse un giocatore di baseball). Un mio caro amico e collega, andato in pensione per inabilità, ne è affetto ed è un miracolo di lucidità, generosità, attaccamento alla vita, oltre che ironia: quando stava ancora abbastanza bene mi disse un giorno "Pensa che di questa malattia si ammala uno ogni trecentomila: e cos'é la lotteria gratta e perdi?".
In fondo c'entra col destino anche l'incrocio tra le vite delle persone, e in qualche misura dunque anche l'amore, incontrare o meno una persona, incontrarla in un momento anziché in un altro, non incontrarla affatto, incontrarla nel momento sbagliato; certo poi le azioni umane fanno il resto.
Negli anziani, l'idea del destino, essendosi esso in buona parte già compiuto nella loro vita, è amica e non ostile, non ci si ribella, la si asseconda, saggiamente, sapendo come diceva una vecchia canzone che "al destino che vien rassegnarsi convien".
Nei giovani, il destino è una sfida, e infatti non si capisce altrimenti perché si sfidino in competizioni assurde, e non di rado ci lascino la pelle; è perché si sentono più forti del destino o almeno pensano di poterlo affrontare ad armi pari, e di beffarlo.
Ma poi tutto questo sproloquio per dire cosa?
Semplicemente che dovrete sopportarmi ancora, vista la scarsa mira di quel pezzo di cornicione. Una occasione mancata.

sabato, aprile 22, 2006

PUNTA PEROTTI 2 E 3: SHOW MUST GO ON


Oggi e domani vanno giù le ultime "torri" di Punta Perotti. La "saracinesca", già in buona parte divelta dall'esplosione del 2 aprile, viene definitivamente abbassata e la vista di uno spicchio di cielo e orizzonte, aperto sul nulla di una periferia degradata, restituita ai baresi.

Difficile, anzi impossibile, che questa volta vi sia la folla della "prima", pochi i giornalisti accreditati nell'area stampa, Pecoraro Scanio sarà probabilmente altrove, a ritemprarsi dalle fatiche della campagna elettorale, i baresi che possono saranno andati fuori porta profittando del ponte del 25 aprile, il mare antistante non sarà un brulicare di barche, motoscafi, barchette e gommoni.

Eppure, sia pure rateizzato tra oggi e domani, lo spettacolo è all'ultimo atto. Anzi al penultimo, perché per la torre "Quistelli", che è distanziata dagli edifici dei Matarrese, in parallelo al mare (e quindi nulla centra con la saracinesca), ci vorrà almeno un altro mese: troppo vicina agli edifici del quartiere di Japigia sarà demolita con mezzi meccanici, tra cui una gru alta oltre quaranta metri che giungerà per ferrovia nei prossimi giorni.

Poi, sull'area, rimarrà un monumentale complesso di macerie che saranno sminuzzate, macinate, triturate, polverizzate, spianate, e che costituiranno il nuovo "piano di campagna" dei suoli.

La prima demolizione non ha portato molto bene alle sorti del centrosinistra barese: alle politiche del 9 e 10 aprile la CdL si è presa una clamorosa rivincita e la "primavera pugliese" del sindaco Emiliano, del presidente della Provincia Divella e del presidente della Regione Vendola ha conosciuto una innegabile "gelata".

Fatta eccezione per il tono trionfalistico del "Corriere del Mezzogiorno", emanazione locale del Corrierone di via Solferino, che era stato uno dei grandi "sponsor" mediatici dell'operazione, i baresi comuni, intervistati da "La Gazzetta del Mezzogiorno" e da televisioni locali, hanno manifestato dissenso e disagio per una demolizione vista come uno spreco di ricchezza e di opportunità.

Si fosse fatto un referendum consultivo sulla sorte di Punta Perotti, l'esito non sarebbe stato, sembra, così scontato.

Che Punta Perotti (i suoi scheletri incompleti) fosse brutto, nessuno lo discute; il punto era se, con opportuni interventi (il taglio di una parte del complesso, la riqualificazione urbanistica dell'area) se ne potesse fare qualcosa di utile alla città e magari anche alla regione, si potesse ammansire e ingentilire il c.d. ecomostro, renderlo un "monumento" positivo della legalità ripristinata.

E' curioso come gli intellettuali (ovviamente tutti di sinistra) della città e della regione, sempre così attenti alla cittadinanza attiva e ai diritti di partecipazione, non abbiamo sollecitato un referendum di questo tipo, quando per molto meno si invoca la consultazione della popolazione.

Evidentemente ci sono referendum consultivi e referendum consultivi: quelli dal risultato incerto e sgradito non s'hanno da fare, come il matrimonio dei protagonisti manzoniani.

Cosa resterà di Punta Perotti, a parte le cause di risarcimento da oltre 500 milioni di euro proposte dai Matarrese contro Comune di Bari e Regione Puglia?

Pare di certo un'opera collettanea di giovani registi, coordinati dal barese Piva (quello di "La capagira" e "Mio cognati", gran cerimoniere dell'intellettualità barese, che ha fatto scoprire al mondo il degrado di questa città levantina, su cui peraltro vari scrittori locali hanno costruito le loro (non piccole) fortune editoriali (anche queste targate RCS).

Giusto, la città doveva uscire dal suo provincialismo, contendere anche nel degrado il primato di Napoli, proporsi come il laboratorio socio-economico sul quale giocare la scommessa di una rinascita.

Una rinascita di cui, però, nessuno sembra cogliere l'inizio: più caotica, sporca, degradata nelle periferie e anche nel centro, abbandonata al suo crepuscolo pubblico da quelli che, storicamente, ne hanno fatto la fortuna (commercianti e imprenditori), con la squadra di calcio (appartenente ai Matarrese perché nessuno si fa avanti a rilevarla) che bordeggia nei bassifondi della serie B, periferia politica dopo esser stata con Moro, Lattanzio, Formica, una stella fissa del panorama politico nazionale (e nonostante gli sforzi di Max D'Alema, che qui ha subito una sonora sconfitta).

Poco da dire: ogni città esprime la classe dirigente che sa e può. Il declino di Bari è scritto nella pochezza della sua classe dirigente, dei suoi commercianti e professionisti ripiegati sulla cura dei propri interessi, della sua università sovrappopolata ma di poca "eccellenza", dei suoi intellettuali sospesi tra memorie della "ecole barisienne" e associazionismo snob, della imperversante provinciale autoreferenzialità.

Sipario.

giovedì, aprile 20, 2006

NEL NOME DEL PADRE (E DELLA MADRE)

A quanto pare, col precedente post, ho scatenato un piccolo "outing" familiare. Non me ne dispiace, ovviamente, anche perché mi consente di riflettere sul rapporto tra coscienza e ricordi, tra esperienza e maturità, tra radici e sviluppi esistenziali.
La poetica pascoliana del fanciullino è in effetti uno statuto esistenziale ineliminabile.
Anche chi non ha avuto la fortuna di avere un'infanzia e adolescenza più o meno normali e serene, se non addirittura felici, serba nel ricordo le cose migliori, magari le poche o uniche, di quel periodo; ed è giusto che sia così perché le radici sono tutte lì e da esse dipende, io credo, lo sviluppo della personalità.
Certo è evidente che un'infanzia "anormale", segnata da violenze, frustrazioni, abbandono non possono non segnare cicatrici che rimangono dolenti alla palpazione della vita, a volte piaghe che non si rimarginano: e non ci dicono infatti gli psichiatri che, ad esempio, tutti o quasi i pedofili sono stati bambini violati? e non ci dicono i sociologi e criminologi che l'attitudine alla violenza deriva da ambienti familiari violenti?
Eppure credo che qualcosa di bello, magari una piccolissima luce, come quella di una lucciola nel buio della notte, rimanga dell'infanzia anche quando è stata infelice.
Perché, essendo lì le radici, e non potendo nessun albero o pianta star su senza radici, si cerca di valorizzare magari quel segmento piccolo di radice che non era guasta, fradicia, malferma.
Guardando, devo dire con uno sforzo di attenzione non prevenuta e non invidiosa, tipica del signore di mezza età (per parafrasare una bella trasmissione televisiva dell'umorista Marcello Marchesi di tanti anni fa), ai giovani di oggi comprendo come sia difficile la loro condizione e come sia complicato esser bambini ai giorni nostri, in una rincorsa affannata dei genitori a dare sempre di più e a sforzarsi di evitare ai figli sentimenti di frustrazione e di dolore.
Un bambino di oggi DEVE andare in piscina, suonare uno strumento, fare danza, fare le sue festicciole in pizzeria, vestire in un certo modo alla moda e firmato, fare almeno un mese di vacanze all'anno, e NON DEVE mai sentirsi diverso dagli altri, rimanere con un desiderio insoddisfatto, conoscere il dolore di una punizione, assaggiare l'asprezza di un insegnante...
Io non ho figli, e davvero non voglio giudicare nessuno; sa Dio se è complicato esser genitore, mestiere difficilissimo che nessuno insegna e che non può impararsi con enciclopedie a dispense; sa Dio se questa società del superfluo che è diventato indispensabile aiuta i genitori, se la gregarietà di comportamenti educativi di massa consenta di resistere al ricatto psicologico insito nella protesta "ma quello lo ha, quella lo fa, i genitori di tizia fanno così, i genitori di caia non fanno così, e sì io devo essere l'unico/a che non...".
So anche però che anche nei tempi lontani della mia infanzia e adolescenza, sia pure in un ambito meno massificato, c'erano i ricchi e i più poveri, e i figli dei primi avevano cose impensabili per i figli dei secondi, e i primi facevano le gite scolastiche e gli altri no (una delle più simpatiche, azzeccate e feroci satire su queste differenze "di classe" in una classe erano gli sketch di Cochi e Renato, dove Cochi era un alunno ricco, viziato, ciuccio e maligno e Renato un povero maestro elementare che piegava la testa e gli dava, comunque e sempre, 7+: la trasmissione si chiamava !Quelli della domenica" ed era condotta da un magrissimo, incredibile dictu, Paolo Villaggio).
Perché allora si poteva crescere senza subire dilanianti e devastanti shoc psicologici se, non essendo figli di ricchi, si doveva rinunciare a qualcosa o a molto?
Semplicemente perché quella società conosceva una legittimazione che non si identificava (solo) nella ricchezza e nell'agio, ma (almeno) anche nella dignità del lavoro, tanto più dignitoso e riconosciuto in quanto, dobbiamo dirlo, svolto mangiando, come diceva il capitano Bellotti nel Giorno della civetta al mafioso don Mariano Arena, il "pane dello Stato".
C'era tra le classi (o i ceti) sociali un rispetto e una legittimazione che si fondava sul senso di appartenenza ad una comunità, di cui lo Stato incarnava la sintesi e l'espressione massima; c'era una educazione civica elementare che si apprendeva, certo, sui banchi di scuola ma soprattutto nelle famiglie e nelle varie "formazioni sociali", parrocchie, associazioni, partiti, condomini e via discorrendo.
Solito vieto discorso sui valori che si sono persi? No, molto più semplicemente, riflessione su società alla deriva, su comunità che non sono più tali, su cittadinanze che, nonostante l'ampliamento a dismisura del catalogo formale dei diritti, scritti su carta patinata, non riescono a farsi effettività di appartenenza alla comunità e di esercizio dei diritti di cittadinanza, perché non riescono a fuoriuscire dalla cura degli interessi individuali, a volte microscopici e qualche volta quasi miserabili.
Come si può pensare di costruire cittadinanze e patria europee se si perde il senso delle cittadinanze e patrie nazionali, regionali, provinciali, cittadine, di quartiere, di condominio?
Io e i miei fratelli siamo stati molto, molto fortunati, sia perché abbiamo vissuto uno scorcio di tempo diverso, in cui tutte queste cose esistevano, sia e soprattutto perché abbiamo avuto genitori che, pur incarnando i ruoli nel modo più tradizionale, sono stati un esempio, si sono presi cura, hanno dato più che l'essenziale e ci hanno insegnato a fare a meno di tante cose ma non della dignità, dell'onestà, della cultura, del senso del dovere, dell'etica del sacrificio.
Erano certo genitori di altri tempi, in altri tempi, ma sono stati i migliori (mia madre grazie a Dio lo è ancora) che potessimo avere, due grandi persone e personalità.
Trovo giusto dirlo in questo diario, è una delle poche verità e certezze che nessuno potrà mai togliermi.

mercoledì, aprile 19, 2006

CAIETA


E' passata anche Pasqua, e pasqua nella sua etimologia aramaica rimanda appunto ad un passaggio, quello dell'Angelo che sterminò il primogenito del faraone (pare fosse Ramses II) e tutti i primogeniti del tempo della cattività egiziana del popolo ebreo, poi nella tradizione cristiana la Pasqua ha assunto la portata di ben altro "passaggio", quello dal corpo martoriato di un crocifisso al sepolcro vuoto, dalla morte alla risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Prosaicamente la Pasqua anche quest'anno con la sua appendice ha segnato il passaggio di milioni di autoveicoli in transito da sud a nord per il rientro dal ponte, mentre già si profilano quelli del 25 aprile e poi del 1° maggio.
Col prezzo del petrolio ormai impennato oltre i 70 dollari al barile e in pericoloso avvicinamento a valori che rimandano alla guerra del petrolio dei primi anni '70 (tornerà l'Austerity, le domeniche a piedi, le targhe alterne, le trasmissioni TV finite alle undici di sera? chissà ma penso di no, siamo ormai troppo viziati), con la benzina a 1,30 euro e il gasolio a 1,20 euro, si sarebbe pensato che i flussi di traffico fossero più o meno diradati.
Macché.
Ieri, ad esempio, da Caserta a Roma l'autosole era un'unica immensa coda, un serpentone di auto, pullman, camion, tir estenuante, lento, asfissiante.
Ho impiegato sei ore da Bari per un viaggio che compio in poco più della metà del tempo.
Gli autogrill erano riproduzioni di malebolge, code per il rifornimento, bar e snack inavvicinabili, toilettes dove non mi sono nemmeno arrischiato di avvicinarmi.
E così, mentre guidavo a strappi, con punte di velocità di 80 km/h e una media di 30 km/h, mi è tornato in mente quando, prima della costruzione dell'autostrada Napoli-Canosa, e del tratto Bari-Taranto, ci si doveva inerpicare con pazienza lungo la vecchia strada statale che saliva tortuosa per le balze dell'appennino dauno e irpino, seguendo con pazienza teorie di camion, a velocità non superiori ai 70-80 Km/h, e già arrivare ad Ariano Irpino era qualcosa perché li si cominciava a intravvedere non lontanissima Avellino e poi la discesa che avrebbe riportato sulla costa e alla vista del mare.
I viaggi automobilistici della mia infanzia e adolescenza si fermavano ben prima di Roma ed erano legati alle vacanze augustane in quel di Gaeta, a suo tempo incantevole cittadina adagiata a mezzaluna sull'omonimo golfo, dove abitavano miei zii e una cugina, di cui eravamo ospiti per una quindicina di giorni.
Più spesso si andava su col treno, e non in cuccetta o vagone letto ma in normali vagoni, rinfrancati dal caffellatte (più caffé che latte) preparato da mia madre e serbato in capaci thermos cilindrici con le pareti interne a specchio a trattenere il calore. Il viaggio durava tutta la notte ed aveva una ineguagliabile magia sui sedili imbottiti di cuoio, gli scompartimenti con sbiadite vedute di paesaggi alle pareti, l'odore ferroso dei portaceneri e dei finestrini, gli sfiati di vapore alle fermate nelle varie stazioni, la sosta tipica e topica a Benevento con l'acquisto dell'immancabile torrone venduto in stazione assieme a panini e bibite. Quando iniziava l'ultima sequenza di gallerie, e spariva il cartello della stazione Minturno-Scauri, si sentiva nel fresco dell'alba una stanchezza felice e di lì a poco si sarebbe arrivati a Formia, dove si cambiava per Gaeta raggiungendola su un trenino a carrozza-locomotore che si chiamava "littorina" (certo reminiscenza del ventennio, e d'altra parte non si era in provincia di Latina?).
Nel viaggio in auto, invece, compiuto dalla mattina all'imbrunire, era d'obbligo la sosta a Grottaminarda: la statale ci passava attraverso e da un lato e dall'altro della strada piccole botteghe salumaie vendevano inimitabili panini imbottiti di prosciutto crudo; come al ritorno, sempre in auto, era imperdibile la sosta a Mondragone per acquistare le mozzarelle di bufala.
Il tempo del viaggio era lento, ma non vuoto, il viaggio stesso era un'esperienza, un momento iniziatico di preparazione alla bellezza e agli ozi caetani, all'andata, un momento sospeso che attenuava l'amarezza penitenziale del rientro, al ritorno.
Le auto erano piccole, scomode, sobbalzanti, i treni rumorosi, caracollanti sulle rotaie, il paesaggio rurale e urbano più nettamente delimitato nei suoi spazi, le case spesso ancora con i cavi elettrici a vista e con gli interruttori di porcellana, gli svaghi poveri (una fetta di cocomero in riva al male o sulla barca di mio zio, vicino a riva; un cinemino pomeridiano; un bicchiere di amarena gelata al bar...).
Forse divento davvero vecchio se indulgo a questi ricordi, forse è la distanza temporale e il riflesso della percezione ingenua dell'infanzia e della dimensione fresca dell'adolescenza che mi seduce e mi inganna.
Eppure, in nessun autogrill potrei mai ritrovare il sapore di quei panini al prosciutto, in nessuna caffetteria sia pure celebratissima il sapore del caffè nel thermos dalle pareti interne a specchio; e in nessun viaggio, il senso, le emozioni, l'entusiasmo di quei viaggi.
Che stupido romanticone, nevvero?

sabato, aprile 15, 2006

MONDO CANE


Da Msn News leggo una notizia dell'Ansa sulla solita aggressione di un pit-bull, il ferimento di malcapitati passanti, l'abbattimento dell'animale.
Mi viene da pensare che non ho mai avuto un cane. Non in prima persona. Parecchi cani, invece, hanno attraversato la mia vita.
Amo i cani, odio i gatti: è banale dirlo, ma non riesco a non rientrare in questa manichea distinzione tra cinofili e gattofili, secca alternativa partigiana tra le tante "filie" e "idiosincrasie" di cui è costellata la vita.
D'altra parte, non ho scelta: sono nato nel 1958, che per l'astrologia dell'ex celeste impero, è uno degli anni del segno zodiacale del "Cane".
Da uno dei tanti siti astrologici si apprende che il segno del Cane ha tutti i caratteri che si attribuiscono all'animale: onestà, intelligenza, sensibilità, socialità, altruismo, incredibile fedeltà all'oggetto del suo affetto, collericità che sfuma presto (can che abbaia...).
Certo, a pescare nella mitologia greca, ripresa dal Sommo Poeta, non mi pare che Cerbero, il cane a tre teste a guardia dell'Ade, possedesse molte di queste qualità. Cane latrante, furioso, dagli occhi di bragia (quasi come "Caron dimonio"), è proprio un "cane da pastore" infernale; e se le sue greggi sono i dannati come potrebbe, povera bestiola, esser diverso e amichevole, via?
Per fortuna dal mito greco, e dalle pagine del libro XVII dell'Odissea, sorge il cane vero, fedele per antonomasia, Argo il cane d'Odisseo, che giacendo "negletto" e "di turpi zecche pien", alla vista dell'amato padrone, "squassò la coda festeggiando", cercò di alzarsi sulle stanche zampe per farglisi incontro e alla fine, felice di averlo ritrovato, e quasi che avesse aspettato di finire l'istante del gioioso ritrovamento, "gli occhi nel sonno della morte chiuse".
Rendo dunque omaggio, con questo post (che poi è la versione telematica di un "pizzino", a ben pensarci), ai cani della mia vita.
Dalla mia infanzia e dalla televisione quando era uno scatolone a valvole con schermo piccolo, tutta di legno lucido, e sgranate immagini in bianco e nero, riemergono due grandi cani: Rin Tin Tin e Lassie.
Rin Tin Tin, col suo giovane amico Rusty, piccolo bambino adottato da un forte dei nordisti, hanno popolato i pomeriggi televisivi dei primi anni '60 (la serie americana fu girata tra il 1954 e il 1959), quando puntuale, credo alle quattro e mezza-cinque, iniziavano i programmi proprio con "la Tv dei ragazzi". Splendido pastore tedesco, coraggioso, intelligentissimo, Rin Tin Tin sembrava balzare dallo schermo, pieno di energia, pronto a risolvere ogni piccolo o grande problema dello scalcinato forte, popolato da improbabili soldati e sottufficiali interpretati da indimenticabili attori "caratteristi".
Lassie ebbe storia più lunga e maggior fortuna, dalla sua prima apparizione nel film del 1943 "Torna a casa, Lassie" alla lunga e fortunata serie televisiva. Lassie era un collie, bello, affilato, fulvo, coraggioso, intelligente, ma, diciamolo pure, un cane borghese, un po' snob, tutt'altra storia rispetto a Rin Tin Tin.
Incarnando però l'ideale del cane borghese della famiglia media americana (quel posto che ormai è stato preso da altre razze, come il labrador) degli anni '40-60, Lassie ha attraversato più di mezzo secolo di storia cinematografica e televisiva, fino all'ennesimo remake del 2005.
Come dimenticare però i cani dei cartoon?
Pluto, bracchetto dalla coda e orecchie filiformi, buffo, pasticcione, coraggioso a corrente alternata, inseparabile dal suo Topolino, come l'altro cane umanizzato Pippo, goffo, inconcludente, bislacco, ma a volte più saggio del saccente Topo perfettino, incarnazione del mito dell'Uomo moderno americano, tutto pieno di valori, buoni sentimenti, patriottico, tutto d'un pezzo.
Braccobaldo Bau, cane un po' saccente, risposta assolutamente inadeguata ai cani della Disney da parte della rivale "Hanna & Barbera", celebre più che altro per il suo motivetto "Ci siete tutti? Siamo tutti qui, e tutti insieme vogliam vedere Braccobaldo Show", sigletta inaugurale delle avventure dei cartoons dela H&B.
Ma dopo questi cani di celluloide, sia reso onore e merito ai cani in carne e ossa (da spolpare).
Il primo che ricordo è Pussy. Era una splendida cagnetta cocker, che mio fratello Mario aveva comprato (credo pagandola uno sproposito) da un allevamento per regalarla ad una delle sue prime fidanzate. Fatto sta che pochi giorni dopo il fidanzamento finì, e come si usava allora (la cosa era oggetto di apposito istituto del diritto privato, con radici nel diritto romano classico) gli sfidanzati si ritornavano i rispettivi regali. Fu così che una sera (avrò avuto dieci-dodici anni) vidi in casa questa cagnetta, color champagne, dal pelo lungo setoso, le orecchie morbide e interminabili, gli occhi liquidi adoranti e sognanti.
Era uno spettacolo Pussy quando le si faceva il bagno, grondante acqua da ogni pelo, da spazzolare per ore, forse, e una volta ricordo che le facemmo una fotografia con una cuffietta in testa del mio fratello più piccolo (chissà dove è finita quella foto?), cui lei si prestò con la sopportazione e rassegnazione dei cani di casa, che sanno che per guadagnarsi la ciotola di riso e carne devono subire qualsiasi tortura.
Purtroppo, dopo pochi anni divenne difficile tenerla in casa e così fu regalata credo a qualcuno di Reggio Calabria. E mi piace pensare che la piccola Pussy abbia emesso i suoi ultimi guaiti guardando il cielo chiaro dello stretto, e magari sognando la Sicilia, così vicina e così lontana; o ripensando alla sua prima esperienza di vita, e ai suoi primi padroni.
C'é stato poi un secondo cane (come sempre sbolognato alla mia pazientissima madre, non per caso adorata dai cani di casa). Si chiamava Mirko era uno yorkshire piccolissimo, pelosissimo, buffissimo, che da cucciolo sembrava una scimmietta, anche questo un regalo ricevuto questa volta da mia sorella. Ricordo che mio padre buonanima gli era particolarmente affezionato e sotto al tavolo gli lanciava pezzetti di cibo, che Mirko, come tutti i cani si affrettava a ingozzare, fosse stato anche satollo sino a scoppiare.
Lui pure seguì la sorte di Pussy, fu regalato nonsoachi, e credo che ormai abbia raggiunto il paradiso dei cani da un pezzetto.
C'è stato poi un terzo cane, ma io ormai ero via dalla casa familiare d'origine da molti anni, e di lui (anzi di lei, era una bastardina) non ho avuto particolare consuetudine o grandi ricordi.
Un posto centrale, invece, in questa mia "vita coi cani" (degli altri) lo ha svolto un incrocio, devo dire davvero molto bello, credo tra un pastore tedesco e un pastore belga, col risultato di una cagna color terra chiara, e per questo forse chiamata Gea.
Gea era il cane di Vito e Mariella, cioé mio cognato e sua moglie (che giuridicamente non è cognata, adfines inter se non sunt adfines), cane umanizzato forse oltre ogni limite umano, coccolato come e più di un figlio, molto caciarone (i benzinai lo ricordano ancora perché non potevano avvicinarsi a far benzina alla macchina di mio cognato senza scatenarne il furioso abbaio), forte, atletico, pieno di energia, golosissimo e praticamente onnivoro (ghiotto anche credo di formaggio, con risultati devastanti quanto a puzze che poi la povera bestia rilasciava...!).
Ebbe un'unica gravidanza, dopo un incrocio con un boxer, e ne nacque una nidiata di cuccioli devo dire abbastanza bruttarelli, che però Gea come una novella Medea canina e per insondabili ragioni biologiche (forse non aveva latte abbastanza per tutti) soppresse uno a uno.
Più o meno all'età di dodici anni, e poiché putroppo anche i cani invecchiano e si ammalano, fu colpita da una paralisi spinale, ed era a ripensarci davvero triste vederla trascinarsi con le zampe posteriori inerti. Una iniezione letale e pietosa pose termine alle sue sofferenze. La seppellimmo in collina, su uno dei terrazzamenti del mio trullo a Selva di Fasano, in una fredda serata di ottobre. Lo strato di terreno vegetale è poco sul pietroso e basso altopiano murgiano, di cui Selva costituisce uno dei contrafforti meridionali; e così con mio fratello Mario, improvvisatici muratori e rischiando un infarto per la fatica, completammo l'opera pietosa del seppellimento, a distanza di qualche giorno, con un cumulo di pietre e una colatina di cemento impastato non so nemmeno io come lì per lì.
Ecco, questi sono stati i cani principali della mia vita.
Perché non ne ho mai preso uno, mio?
Avrei voluto, certo; ma poi varie vicende familiari, e la coscienza (almeno questa) che un cane non è soprammobile di casa e che richiede tempo, attenzione e cure, mi ha distolto, per ora, dalla scelta di prenderlo.
In futuro, forse, chissà.
Auguri a tutti i pochi ma fidati (anzi fidi, come da outing canino) visitatori del blog.

giovedì, aprile 13, 2006

Niente da capire

Avevo quindici anni, nel 1973, quando uscì il primo vero album di grande successo di Francesco De Gregori. Si chiamava, dal titolo della canzone più famosa e bella del vecchio vinile, "Alice non lo sa".
De Gregori iniziava un percorso musicale molto personale, intimista, ermetico, dissonante da quello dei cantautori d'impegno politico, il cui capofila, oltre al Guccini de "La locomotiva" -che però era molto di più, in quanto vero e autentico poeta, cantore colto, intellettuale non organico raffinato, quel Paolo Pietrangeli di "Contessa" poi divenuto molti anni dopo regista televisivo del "Maurizio Costanzo Show" e di tante trasmissioni di Mediaset (e lo dico senza nessuna connotazione negativa, sia bene inteso, ognuno ha il diritto di fare la propria strada nella vita).
De Gregori era ascetico, ieratico, bello, magro, coi capelli lunghi e il volto incorniciato da una barba incolta, somigliava al protagonista di "Jesus Christ Superstar", vero film cult di quegli anni, grande musical pop.
De Gregori era l'idolo delle ragazzine della mia generazione perché bello, poeta, profondo, misterioso, con l'aria un po' sfigata che non guasta mai, che fa innamorare, che fa scattare in ogni donna quell'insopprimibile istinto materno-protettivo che alberga nel suo cuore.
De Gregori era (ed è) di sinistra, ma quella sua vena intimista, poetica ed ermetica si scontrava con l'idea che ogni intellettuale in senso lato di sinistra dovesse cantare solo e soltanto della rivoluzione, della falsità degli ideali borghesi, dello spirito di rivolta.
Ricordo che, credo proprio nel 1973, De Gregori si esibì a Bari in un cinema un po' "pidocchietto", una grande sala coi sedili di legno, poi demolito per far posto a un parcheggio multipiano, che si chiamava "Supercinema", era situato in un quartiere molto popolare, programmava film erotici e aveva un variegato pubblico di giovani in cerca di primi turbamenti e anziani in cerca di sogni di celluloide, e durante le proiezioni si può immaginare cosa accadesse.
Forse l'organizzatore scelse quella sala perché costava poco affittarla, e perché così il prezzo del biglietto sarebbe risultato decisamente basso e alla portata delle vuote tasche del pubblico giovanile.
Sta di fatto che, dopo poche canzoni, partì l'ennesima rumorosa contestazione incentrata sul rifiuto di un cantautore che cantava cose ermetiche, intimiste, versi di cui "non si capisce niente".
De Gregori cercò di andare avanti, rispose a tono ai contestatori, ma insomma il concerto finì lì e finì male.
Non so se anche quell'episodio lo spinse, l'anno dopo, il 1974, a inserire nell'album intitolato "Francesco De Gregori" una canzone che ha come titolo provocatorio "Niente da capire".
Resta il fatto che, secondo me, è una delle canzoni più belle, se non la più bella in assoluto, ed è una grande canzone d'amore, di un amore difficile, forse di un amore finito (non si capisce bene, ma se no come poteva tener fede al suo ermetismo?).
Una canzone di pochi e facili accordi, che anche uno come me che non suonava la chitarra proprio benissimo poteva suonare; e quante volte l'ho suonata, in genere da solo, di rado con amici, cantandola con quella poca voce che mi lasciava, già quasi trent'anni fa, l'inveterato vizio del fumo.
Oggi mi è venuta in mente e se anche non posso "postarla" col sonoro, mi piace trascriverne il testo, di cui raccomando all'attenzione la seconda, terza e quarta strofa prima del "refrain".
Sarà ermetica quanto si voglia, per me è chiarissima. E bellissima.

Le stelle sono tante,
milioni di milioni,
la luce dei lampioni si confonde con la strada lucida.
Seduto o non seduto,
faccio sempre la mia parte,
con l'anima in riserva e il cuore che non parte.
Però Giovanna io me la ricordo
ma è un ricordo che vale dieci lire.
E non c'è niente da capire.
Mia moglie ha molti uomini,

ognuno è una scommessa
perduta ogni mattina nello specchio del caffè.
Io amo le sue rughe
ma lei non lo capisce,
ha un cuore da fornaio
e forse mi tradisce,
però Giovanna è stata la migliore,
faceva dei giochetti da impazzire.
E non c'è niente da capire.
Se tu fossi di ghiaccio
ed io fossi di neve,
che freddo amore mio,
pensaci bene a far l'amore.
È giusto quel che dici
ma i tuoi calci fanno male,
io non ti invidio niente,
non ho niente di speciale.
Ma se i tuoi occhi fossero ciliege
io non ci troverei niente da dire.
E non c'è niente da capire.
È troppo tempo amore
che noi giochiamo a scacchi,
mi dicono che stai vincendo
e ridono da matti,
ma io non lo sapevo
che era una partita,
posso dartela vinta
e tenermi la mia vita.
Però se un giorno tornerai da queste parti,
riportami i miei occhi e il tuo fucile.
E non c'è niente da capire.

mercoledì, aprile 12, 2006

Morir d'Amore

Negli ultimi tempi ho scritto post incentrati su questioni di attualità politica. E ho invece tralasciato quella vena, più personale e intima, che costituisce il motivo ispiratore di questo blog.
Ho inaugurato, quasi due mesi fa, questo diario privato condiviso (per la verità da pochissimi amici affezionati, parte dei quali come Chris e Wil Coyote incontrati per le strade virtuali della rete) con un post provocatorio, imperniato su una domanda secca e semplice: si può morire per amore?
Proposta così la domanda, rileggendola e riflettendoci, è generica e priva di senso. Amore è parola che indica troppe cose, e troppo diverse tra loro. E a seconda dei suoi diversi significati, nei diversi contesti, si può (cioé è giusto) o non si può (cioé è sbagliato) morire per amore.
Per Amore di Dio, che è il vero e sommo amore per un credente, non solo si può ma si deve morire, se è il caso, se è inevitabile, se l'alternativa è rinnegare Dio. Morire per Amore di Dio è in effetti assecondare il proprio bene e la salvezza della propria anima, se la salvezza dell'anima richiede il sacrificio del corpo, nella consapevolezza di fede che questo corpo mortale, sia pure corrotto e ridotto in cenere, si riunirà, alla fine dei tempi, trasfigurato, con l'anima, sul modello della speranza suprema e fondamentale del cristiano, che è la Risurrezione di Cristo.
E' indubbio che la Risurrezione di Cristo è la pietra di fondazione della fede, se Cristo è morto e risorto, il senso della vita e della morte è chiaro e disvelato una volta per tutte, e la vita degli uomini non è un passaggio vano, di tipo biologico-culturale, sulla scena di questa terra, ma un pellegrinaggio nella storia ma in una dimensione trascendente che è l'eternità. E in effetti l'eternità non è oltre la morte ma è qui perché questo tempo umano è già eternità, frazione di essa, acqua dello stesso fiume, goccia dello stesso mare.
Più problematico è capire se sia giusto morire per un'idea politica, una passione civile, anche se, d'istinto, sono portato a rispondere ancora di si, a condizione che sia una idea giusta e buona, oggettivamente tale, ispirata a valori positivi dell'Uomo (con la maiuscola), che di solito hanno una radice al fondo della quale ci sono concetti "religiosi", in senso ampio e in senso più specifico.
La Libertà, l'Eguaglianza, la Fratellanza, ossia i valori dell'illuminismo e della rivoluzione francese e dello stesso marxismo storico sono a guardar bene tributarie del pensiero cristiano e del Vangelo, sia pure in una chiave non necessariamente cattolica; o meglio, il liberalismo e il liberismo in una chiave valoriale protestante, se è vero che l'etica del capitalismo è essenzialmente l'etica individualista protestante, nella versione più calvinista che luterana; il marxismo in una chiave di valori cattolica, ispirata a una visione della comunità, dell'ecumene, in cui parte essenziale ha l'autorità che salvaguarda il "tesoro della fede", nell'ottica marxista il Partito che infatti per certi aspetti è "la Chiesa" dell'ideologia marxista nella sua declinazione storica concreta.
Forse è per questo che è abbastanza difficile "conciliare" (è il caso di dirlo!) liberalismo e liberismo e cattolicesimo, e che in quest'ultimo hanno avuto maggior fortuna visioni più "comunitaristiche", quando non socialiste o comuniste (la c.d. teologia della liberazione, gli spregiati catto-comunisti), e in generale progressiste più o meno temperate (la c.d. dottrina sociale della Chiesa).
Ancora più controverso stabilire se sia giusto morire per amore umano, o verso una persona; se si ama davvero una persona e morire è il mezzo per salvarle ad esempio la vita, non posso avere esitazioni a rispondere di sì; è giusto, anzi può essere doveroso.
L'Amore umano per eccellenza che giustifica un sacrificio di questo tipo è l'amore materno, sia che si voglia vederlo in modo riduttivo come un riflesso biologico-istintivo (anche gli animali proteggono la prole), sia che lo si percepisca, come è più credibile, come emanazione di quella capacità di dare, donare, condividere che risiede in ciascuno e ne è connaturale, anche se spesso per varie ragioni di formazione psicologica e familiare soffocata da orientamenti esistenziali egoistici ed egocentrici.
Ma anche l'amore romantico, ossia quello tra uomo e donna (e come ho già scritto anche tra uomo e uomo e donna e donna, dovendosi qui prescindere da pregiudizi come si suol dire di orientamento sessuale) può giustificare un sacrificio di questo tipo, forse tanto più rimarchevole perché non condizionato dal "richiamo del sangue", che pure ha una parte nell'amore materno (o in quello, ahimé non sempre corrispettivo, filiale).
I precedenti post su Cesare Pavese, col suo piccolo florilegio antologico, proprio questo dicono: che l'amore romantico, se è vero, profondo, radicato, può portare anche a morire, perché disincarnato dal suo oggetto (bisognerebbe dire dal suo soggetto), ossia scisso e separato dalla persona amata, è un fuoco che può ardere e consumare chi ama, sino a ridursi ad una brace che si spegne sotto la cenere.
Ciò che può portare a morire per un amore umano è la consapevolezza che, per quanto ci si voglia illudere a definire "amore" molti rapporti che possono aversi nel corso dell'esistenza, per quanto questa parola sia inflazionata e resa priva di significato autentico (adolescenti e giovani non si ripetono in continuazione questa parola? e un celebre spot televisivo di qualche anno fa non era giuocato tutto sul tormentone: ma mi ami? e quanto mi ami?), nella vita di ognuno, a esser fortunati e incontrarlo, c'è un solo vero amore umano grande, solo un'altra mezza mela che combacia perfettamente, solo un'altra persona, in tutto il tempo e in tutto lo spazio, che sana quella frattura esistenziale che è l'individualità di ciascuno scissa dalla madre (e non per caso solo Dio è Unità vera e piena, e perciò è Padre e Madre, mentre uomo e donna sono unità generativa solo assieme).
E' una fortuna già incontrare questo amore. Viverlo è come e più che vincere al superenalotto, una combinazione statistica rarissima. Ma peggio che non vincere al superenalotto è perdere ciò che si è vinto. Se questo accade, bene, penso sia anche possibile morire per amore.
E mi piace chiudere questo lungo post e intitolarlo col verso di una canzone di Charles Aznavour di qualche anno fa, da perfetto "ultimo romantico".

martedì, aprile 11, 2006

La "gelata" della "primavera" pugliese


"E' un risultato di portata storica perche' si profila una sconfitta nettissima di Berlusconi e della Cdl", dichiarava Massimo D'Alema ieri pomeriggio dal comitato elettorale dell'Ulivo di Bari, poco prima di partire per Roma con il suo fedelissimo, sen. Nicola Latorre.
E' forse l'infortunio politico più grave del leader diessino dopo la sconfitta alle regionali del 2000 che aprì la strada alla crisi del governo da lui presieduto e alla formazione dell'ultimo governo di quella legislatura guidato da Giuliano Amato.
E' probabile che la stanchezza di una campagna elettorale in cui D'Alema si è speso moltissimo, in Puglia e Campania, gli abbia giocato un brutto scherzo. Gli exit polls Nexus devono aver allentato la tensione e l'attenzione spingendo il politico forse più accorto e abile di tutto il centrosinistra a dichiarazioni imprudenti e del tutto avventate.
Vero è che anche l'on. Tabacci, nelle stesse ore, ospite di Bianca Berlinguer su Rai Tre, si lasciava andare a dichiarazioni altrettanto incaute sulla crisi totale della leadeship berlusconiana all'interno della CdL, esse pure smentite da un risultato che, dal punto di vista del Cav., è il suo vero "miracolo italiano".
Ma D'Alema è D'Alema, il presidente dei DS, un ex presidente del Consiglio, in predicato di cariche istituzionali importanti nel parlamento o nel nuovo governo, uno dei quattro leader che contano davvero nell'Unione (assieme a Fassino, Rutelli e Bertinotti).
Il suo "infortunio" è più serio, indica un momento evidente di appannamento di cautela e lucidità politica, e, dati i risultati elettorali pugliesi, ne rende almeno problematica l'aspirazione a proporsi come referente politico nazionale unico della Puglia all'interno dell'Unione.
L'unico partito del centrosinistra che ha tenuto e anche un po' guadagnato, da queste parti, è Rifondazione Comunista, che però fa corsa a se e dispone di un elettorato fedele oltre che di indubbia capacità attrattiva su alcuni segmenti di società, e che comunque esprime il presidente della Regione, Nicki Vendola.
Gli altri sono andati maluccio, e sopratutto è andata molto bene Forza Italia, con risultati tra il 27-28% e punte del 40% (a Monopoli, provincia di Bari), con un indiscutibile successo personale del coordinatore regionale Raffaele Fitto, che si prende una sostanziosa rivincita dopo la sconfitta delle regionali 2005 in cui non riuscì a esser riconfermato presidente della Regione, e si propone, eletto ora alla Camera, come vero e unico referente nazionale di Forza Italia nella Puglia, in una regione cioé che è tornata roccaforte della CdL dopo l'effimera "primavera" del 2004 e del 2005 e l'affievolimento della "onda Emiliano", forse infrantasi anche contro gli scheletri di Punta Perotti.
I quotidiani regionali non hanno mancato di porre in luce il ridimensionamento del centrosinistra, sopratutto a Bari e nella sua provincia, che suona come segnale di profondo allarme per il Sindaco di Bari, Michele Emiliano, e per il presidente della Provincia, Vincenzo Divella; quest'ultimo poi ha dovuto ingoiare altri due bocconi amari: il modesto risultato dell'Udeur e del candidato capolista Pignataro, per cui si era speso, e l'elezione del cugino-rivale aennino Francesco Divella a senatore.
Insomma, quella Puglia che enfaticamente soltanto un anno fa veniva indicata come il laboratorio politico del centrosinistra, sembra aver mandato un segnale di riallineamento alle tradizionali posizioni moderate che ne hanno fatto, dal 1994 in poi, una roccaforte polista, forzitaliota e aennina (grande è stato anche il successo dell'Udc).
Il commento più serio e meditato sembra quello del fondo del Corriere del Mezzogiorno, che individua le cause della sconfitta del centrosinistra nella pochezza della classe dirigente locale, partitica e istituzionale.
E' anche probabile che, per un popolo "levantino" e concreto come quello barese e pugliese più in generale, i grandi disegni di macroprogrammazioni, gli scenari un po' visionari disegnati da Vendola, le promesse di magnifiche sorti e progressive di Emiliano incantino e premino assai meno che le piccole cose dell'amministrazione quotidiana, dalla sporcizia delle città, al problema irrisolto dei rifiuti (con le discariche che vanno rapidamente esaurendosi), alla stagnazione delle soluzioni delle questioni energetiche (non partono i termovalorizzatori, l'eolico è stato congelato, il rigassificatore di Brindisi non si sa se si farà mai), alla crisi produttiva e occupazionale indotta dalla concorrenza delle tigri asiatiche nei comparti dell'abbigliamento, del calzaturiero e del mobile.
Non c'è che dire: il centrosinistra ha molto da meditare sulla Puglia e su come nell'arco di appena un anno la "primavera" pugliese sia stata illividita da una fortissima "gelata".

LA TENTAZIONE PUGLIESE

Sono andato a letto alle 3.00, quando era ormai chiaro che l'Unione aveva vinto alla Camera, sia pure per uno scarto risicato di voti popolari ma più che sufficiente in seggi col premio di maggioranza, e sembrava certo che la CdL avesse vinto al Senato, sia pure di un solo seggio.
I voti degli italiani all'estero diranno una parola definitiva sull'assegnazione dei seggi al Senato, e potrebbero determinare una vittoria sia pure giocata su cinque-sei seggi dell'una o dell'altra parte.
Accendendo stamane la tv ho appreso che lo scarto di voti popolari sulla Camera sarebbe di circa 25mila, e sembrerebbe che la CdL sia determinata a chiedere la verifica dei voti annullati, una sorta di conta supplementare modello Florida.
Se così andasse si tratterebbe di un deja vu, a livello nazionale, di quanto accaduto in Puglia per le elezioni regionali 2005.
L'anno scorso il voto disgiunto previsto dalla legge elettorale regionale pugliese fece sì che il candidato di centrosinistra Nicki Vendola sopravanzasse quello di centrodestra e presidente uscente Raffaele Fitto di appena 14mila voti, cioé in percentuale sicuramente più dei 25mila delle attuali politiche.
Ne nacque un contenzioso elettorale risolto nel dicembre 2005 con una sentenza del Consiglio di Stato che, confermando una sentenza del TAR Puglia, decretò l'inammissibilità del ricorso presentato da vari candidati della CdL, cui si era poi associato lo stesso Fitto.
Certo, in quel caso si trattava di voto amministrativo e non politico, tutto si giocava sui tavoli dei giudici amministrativi, occorreva dimostrare che vi erano sufficienti elementi per autorizzare un riconteggio dei voti (in termine tecnico, una verificazione), e il ricorso contro il risultato regionale non ci riuscì, almeno ad avviso delle sentenze del TAR e del Consiglio di Stato.
Qui la verifica sarebbe compiuta dalla Giunta per le elezioni della stessa Camera dei deputati, e non potrebbe non risentire della politicità del "giudice" chiamato a valutare le condizioni anzitutto di ammissibilità dei ricorsi e poi, eventualmente, la validità delle schede annullate e contestate.
D'altro canto, se è vero che le schede in contestazione si aggirerebbero attorno al mezzo milione, è abbastanza agevole pensare che in quel vasto paniere ci sarebbero voti attribuibili all'una o all'altra parte, che probabilmente non sposterebbero di molto il dato finale.
In ogni caso, essendo il Parlamento (Camera e Senato) chiamato in tempi stretti alla votazione per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, e prima ancora dei Presidenti dei due rami dello stesso parlamento, e in tempi abbastanza ravvicinati all'approvazione del documento di programmazione economica e finanziaria in vista della legge finanziaria e delle manovre anche correttive di finanza pubblica, un ingorgo come quello determinato dal riconteggio dei voti non potrebbe non determinare ricadute negative sull'intero assetto istituzionale, e l'incertezza sul risultato elettorale avrebbe grande impatto sui mercati finanziari, potendo preludere a scenari di declassamento del paese nei "rating" delle principali agenzie internazionali.
La Bonino ricordava ieri, in una conferenza stampa di tardissima serata, che Richard Nixon, che pure perse per uno scarto molto ridotto di voti le presidenziali americane del 1960 contro John Fitzgerald Kennedy, si riconobbe lealmente battuto senza invocare riconteggi e così legittimò la vittoria dell'avversario.
Le cose andarono diversamente nelle elezioni presidenziali americane del 2000, quando per parecchi giorni si assisté a un balletto di decisioni tra Corte Suprema della Florida e Corte Suprema Federale, riconteggi avviati e fermati, alla fine dei quali Bush jr. risultò vincente con non poche ombre e dubbi sull'effettività di quella vittoria.
Il senso di responsabilità istituzionale dovrebbe suggerire, a questo punto, di evitare ulteriori lacerazioni e contestazioni, tenuto conto che il senso politico complessivo del risultato elettorale è comunque chiaro: l'Unione vince di pochissimo in termini di voti popolari, la CdL non esce affatto distrutta dal confronto, il paese è diviso all'incirca a metà, i problemi sono gravi e incombono, il bipolarismo multipartitico all'italiana si è avvitato su se stesso, occorre uno sforzo di ricomposizione delle spaccature che probabilmente non può non passare attraverso una scomposizione e ricomposizione del quadro politico.
Se questo paese avesse una classe politica dirigente responsabile, si dovrebbe fare una grosse koalition con i quattro partiti maggiori, fissare un'agenda di azioni di governo improcrastinabili, preparare magari un'assemblea costituente (credo che il referendum costituzionale confermativo manderà negli archivi, a questo punto, la riforma votata a maggioranza dalla CdL).
Non accadrà probabilmente niente di tutto questo. L'Unione governerà, come potrà, farà campagna acquisti al Senato (come fece lo stesso Berlusconi nel 1994 e come avvenne per il governo D'Alema nel 1998), il governo durerà c'è da giurarlo molto meno dei cinque anni promessi da Prodi, si correggerà la legge elettorale e si tornerà a votare nell'arco di un anno e mezzo due anni.
Nel frattempo il paese continuerà a declinare, non si faranno riforme condivise ed essenziali, occorrerà raschiare il fondo del barile per trovare le risorse finanziarie.
A meno che... a meno che, altro scenario possibile, il risultato non accelleri la formazione di due partiti (democratico e casa dei moderati) e di un terzo polo centrista, che finisca per stabilizzare il quadro politico.
Un ritorno al passato? Forse sì, ma è proprio sicuro che gli italiani col voto di ieri non vogliano proprio questo risultato?
In ogni caso, mi auguro che la tentazione pugliese resti soltanto tale.

domenica, aprile 09, 2006

Al voto al voto: un rito che non tramonta

E' finita davvero la campagna elettorale forse più lunga della storia d'Italia. I seggi aperti, le "gabine" come direbbe Umberto Bossi, i manifesti elettorali colorati di non meno di venti liste, e anche sino a ventisette, a seconda delle circoscrizioni, la polizia urbana e i militari a guardia dei seggi, la tessera elettorale -che qualche anno fa ha eliminato i certificati che venivano consegnati di volta in volta-, le solite romantiche matite copiative sempre poco temperate, e sempre indiziate di lasciare impronte a ricalco che in tanti casi invalidano i voti, le tabelle di scrutinio e i verbali delle sezioni elettorali che, se solo si seguissero le istruzioni diramate dal Ministero dell'Interno, anche un bambino saprebbe compilare, ma che finiscono zeppe di errori, spazi in bianco, cancellazioni...
Insomma, c'è proprio tutto l'armamentario del momento topico di una democrazia, nell'attesa delle fatidiche 15.00 di domani, lunedì 10 aprile, degli speciali elezioni di tutti i canali televisivi, anche loro governati da un rituale consolidato (prima compaiono le quarte, quinte linee dirigenziali dei partiti, i più sfigati che non se li fila mai nessuno, poi man mano che gli exit pool avanzano e si delineano i risultati finali effettivi, emergono le seconde e terze linee fino all'apoteosi dei c.d. leader).
Ricordo ancora l'emozione del primo voto: avevo diciotto anni, era il 1976, e da giovane comunista ancora iscritto, per poco, alla FGCI, riuscii a farmi nominare scrutatore in una sezione elettorale vicino la mia abitazione di allora. Incocciai un presidente di seggio che non aveva alcuna voglia di lavorare e che era del tutto disincantato (altro che sacro rito della democrazia!) assistito da un segretario ancora più neghittoso e ignorante. Gli altri scrutatori non erano da meno.
Il sabato, giorno deputato alle verifiche pre-voto, rimasi scandalizzato quando il presidente del seggio voleva andar via senza nemmeno apporre i sigilli alle finestre e alla porta del seggio, e lo feci da solo tra gli sberleffi degli altri componenti del seggio.
La domenica e il lunedì, oltre alle mie ordinarie mansioni di scrutatore, mi sobbarcai il compito di stilare i verbali delle operazioni elettorali, che altrimenti sarebbero rimasti in bianco; e durante lo scrutinio, oltre a segnare i voti sulle relative tabelle, dovetti intervenire più volte su questioni relative alla validità di voti.
Naturalmente toccò a me (ed era compito del presidente) recarmi a consegnare i plichi con le schede votate, i voti nulli, le bianche, e ricordo l'orgoglio di esser scortato da un vigile urbano.
Nel 1979 mi andò un po' meglio, perché almeno fui nominato vicepresidente, ma incocciai il solito presidente scansafatiche, che sparì per quasi tutta la domenica lasciandomi da solo a dirigere il seggio; ricomparve puntuale per lo scrutinio, e siccome era un democristiano totale e anche un po' imbecille fece questione su voti validissimi dati al PCI e ne nacque una furibonda diatriba con me che dettai una paginata di verbale sul motivo per cui quei voti dovevano considerarsi validi (ebbene sì, ero al terzo anno di giurisprudenza e quindi qualcosina di più sapevo rispetto alla prima esperienza).
Giurai da allora che non avrei mai più fatto non che lo scrutatore nemmeno il presidente di seggio, anche se mi rendo conto che non era atteggiamento espressivo di altissimo senso civico.
Che nostalgia però di quelle due esperienze, dell'odore di stampa delle schede, dei plichi di carta pesante e opaca, delle tabelle di scrutinio e dei verbali, delle istruzioni per gli uffici elettorali stampati su voluminosi libretti del Ministero dell'Interno, dell'orgoglio di essere parte di una macchina pubblica, di ricoprire un ufficio importante e delicato.
E' lo stesso orgoglio che riscopro quando, nonostante questo Stato così sghangherato e pieno di furbastri, rifletto che sono un funzionario dello Stato, anzi addirittura un magistrato, che ora ricopre una carica elettiva nell'organo di autogoverno della magistratura amministrativa.
E' lo stesso orgoglio di quando, quasi venti anni fa, da giovane pretore di una cittadina di ben novantamila abitanti, all'epoca in cui c'erano le vecchie e indimenticabili preture mandamentali e il pretore faceva tutto (PM e giudice, civile, penale, lavoro, vigilanza sulle carceri mandamentali, comandante della polizia giudiziaria), tenevo le udienze, interrogavo imputati, facevo sopralluoghi giudiziari, compivo il pietoso compito di autorizzare il seppellimento di persone morte in circostanze violente o disponevo autopsie.
E' l'orgoglio che aveva mio padre buonanima, vincitore a soli venti anni di un concorso nazionale da maestro elementare, e poi di un concorso nazionale per direttore didattico, e poi di un concorso nazionale per ispettore scolastico, quando parlava con riverenza dello "Stato" e quando essere funzionario statale era motivo di orgoglio, prestigio sociale, rispetto.
Lo Stato, cioé l'ente supremo di una comunità nazionale, con un po' di retorica diremmo "la casa di tutti", di tutti tutti, al di là delle distinzioni politiche e partitiche.
Venerdì scorso, tornando da Roma, ho incrociato in una stazione di servizio una figura importante dell'Italia repubblicana, il senatore a vita Giorgio Napolitano; è rimasto quasi sorpreso quando gli ho ceduto il passo, mi ha ringraziato e stretto la mano, e io ho pensato che è un peccato che la politica, a destra, al centro, a sinistra, non abbia più uomini di quella qualità, di quello spessore, che incarnano anche visivamente, nella loro compostezza, nella misura ed equilibrio, nella lucidità politica, nel senso delle istituzioni, una concezione alta della politica e della vita dello Stato.
Una classe dirigente è certo il frutto e lo specchio dei tempi, ma dovrebbe essere il meglio e non il peggio che una società sa esprimere, dovrebbe esprimere una funzione educativa, costituire un esempio.
Chissà se torneremo mai ad avere uomini delle istituzioni e dello Stato capaci di farci sentire l'orgoglio di questa bistrattata entità che è diventata lo Stato.

venerdì, aprile 07, 2006

La magia della condivisione


Ogni mattina esco presto per comprare i giornali ("La Gazzetta del Mezzogiorno", quotidiano locale, e "Il Corriere della Sera").
Le giornate, quando il sole è ancora basso, sono ancora piuttosto fredde e ora che è andata giù una parte degli edifici di Punta Perotti il cielo è più profondo, anche se si fa fatica a riabituarsi alla linea d'orizzonte e se quegli edifici erano, bene o male, parte del "paesaggio urbano".
Le città al mattino presto sono proprio un altro luogo: lo pensavo due giorni fa passando per piazza Trevi a Roma dove non sostava, come sempre, la solita chiassosa folla di turisti armati di videocamere e macchine fotografiche, scolaresche in gita, ministeriali sciamanti verso i ristorantini e gli snack bar per la pausa pranzo.
Fontana di Trevi è il luogo, secondo me, più suggestivo del centro di Roma perché ci vuole una follia visionaria formidabile per immaginarsi un palazzo che si trasforma in una monumentale fontana con una di quelle mutazioni che ora si fanno facilmente con la computer graphic (come i dinosauri di Jurassic Park o le astronavi aliene di Independence Day), ma allora bisognava metterci solo ingegno e arte sopraffina architettonica, ingegneristica e saperi artigiani che non esistono più.
Anche Bari, nel suo piccolo, riesce a essere quasi bella al mattino presto, col lungomare che guarda verso le tormentate sponde balcane e albanesi, l'orizzonte liquido su cui sorge il sole, l'aria pulita dai venti di maestrale, gli edifici liberty, i pochi ma essenziali giardini pubblici.
Quando ne ho voglia, rabbrividendo un po', solo soletto, percorro quel lungomare, sorpassato da jogging's girls e jogging's boys (magari qualcuno/a stagionatello, che mi fa un po' invidia essendo un irredimibile sedentario), attento a scansare i bisognini (che a volte sono bisognoni) dei cani (ebbene sì, questo popolo così educato al bello da inorridire allo scempio di Punta Perotti, non se ne impipa affatto di trasformare le strade della sua città in un sostanziale merdaio), coi giornali sotto il braccio.
In quel caso arrivo a un bar-pasticceria, che amo per ragioni solo mie, e consumo un espressino (solo qui si chiama così, a Roma e Napoli lo dicono "marocchino"), cioé un piccolo latte macchiato o un cappuccino ristretto, fate voi, e se sono particolarmente goloso anche una brioche.
Ma perché scrivo queste cose?
In questi quasi due mesi di esperienza come blogger, e avendo dato vita a un blog con pochissimi visitatori (salvo il fido Chris e Gerardo, è scomparso ad esempio Wile Coyote), mi son reso conto che il mio blog, come tanti altri, è veramente soltanto un diario, un modo di sfogare pensieri, emozioni, passioni, indignazioni.
Credo che la fortuna dei blog nasca dal bisogno di cercare di comunicarsi agli altri, di rompere il circuito dei nostri soliti, e per molti radi, rapporti umani, ma, fondamentalmente, dall'esigenza di condividere.
Condividere è qualcosa di così raro da sembrare, quando accade, quasi magico.
Condividere vuol dire aprire il proprio animo, lasciare che le altre persone ci diano uno sguardo. E se la cosa è transitiva, bilaterale, è l'essenza stessa della nostra umanità. Perché condividere significa anche che qualcun altro, una donna, un amico, ci lasciano entrare nella loro anima, che non chiudono a chiave i loro pensieri e le loro emozioni più profonde, meglio ancora che le vivono con noi quelle emozioni, che li formano con noi quei pensieri, che c'è uno scambio vero tra ragioni, sensibilità.
E' raro riuscire a condividere, così raro che quando accade diventa poi difficile farne a meno; e se per una ragione o l'altra viene a mancare la persona con cui questo esercizio riesce, l'alternativa a chiudersi nel solipsismo può essere il blog, che ti fa scoprire ad esempio che Gerardo è un vero romantico e ti assomiglia in tante cose, che Wile Coyote è un glorioso e nobile abitatore del deserto, che Chris è un crociato coraggioso che non si rassegna a come va questa Italia e questo mondo, che Luna non vive di luce riflessa ma emana una propria luce calda.
E' vero, ci sono persone insostituibili nella vita di ognuno. Ma è ancor più vero che siamo tutti insostituibili per qualcuno.

LA RICREAZIONE E' FINITA

Il silenzio elettorale, se sarà rispettato, dovrebbe servire a una sana pausa di riflessione. L'elettore, frastornato, dovrebbe poter raccogliere le idee, chiedersi cosa sia meglio votare, per se, per la sua famiglia, per il suo futuro.
E' stato detto, da Berlusconi, che si tratta di una scelta di civiltà, ma anche i "Nani Moretti", come chiamati da Max Tortora in una fantastica imitazione di Alberto Sordi, ci hanno messo tutto il proprio livore per disegnare un clima da Italia 1948 (la scena finale de "Il Caimano" con il popolo grasso forzitaliota golpista che reagisce con la violenza alla condanna giudiziaria del proprio signore e mentore).
The Economist ha ribadito, come cinque anni fa, che votare Berlusconi significa accentuare un declino italiano inguardabile.
Umberto Eco ha addirittura scritto un libro spiegando perché, se rivince Berlusconi, andrebbe in esilio volontario.
Berlusconi non vincerà. Forse non perderà in modo rovinoso, ma perderà.
Berlusconi perderà perché troppo ha promesso e poco mantenuto, perché si è dissolto il sogno che il suo miracolo aziendale potesse contagiare l'Italia, perché non ha avuto una classe dirigente seria, degna, preparata, perché non ha saputo ridurre e razionalizzare la spesa pubblica, perché non ha fatto alcuna vera liberalizzazione.
Prodi vincerà solo perché perderà Berlusconi e perché non c'è alternativa, almeno al momento, perché promette di rimettere al centro del metodo di governo una concertazione che vuol dire negoziazione tra interessi e centri di potere corporativi, perché i grandi gruppi industriali sanno che potranno chiedere e ottenere di più.
In ogni caso, la ricreazione della seconda repubblica volge al termine.
La vittoria di Prodi, o la sconfitta di Berlusconi, che è la stessa cosa ovviamente, non sarà larga, non risolverà i nodi strutturali del declino italiano, non risanerà con un colpo di bacchetta magica i problemi italiani.
Segnerà solo uno spartiacque, da cui dovrà iniziare, si spera, la fuoriuscita dall'anomalo decennio del bipolarismo bloccato, della reciproca legittimazione di un'alternanza il cui risultato complessivo è stato inadeguato alle esigenze di riforma effettiva e reale.
Il governo Prodi sarà probabilmente un nuovo governo Badoglio, servirà solo come interludio temporale verso una stagione di cambiamento, che dovrà caratterizzarsi, c'é da augurarselo, nel senso di una semplificazione dell'affollato panorama politico, il riassorbimento di cespugli e cespuglietti dell'una e dell'altra parte, l'emersione di tre soggetti politici nuovi, un partito moderato, uno democratico o progressista e un centro a mediarli e a costituire il perno delle alleanze future, risospingendo all'opposizione le ali estreme.
Il rinnovamento politico in Italia passa anche attraverso il declino, a questo punto più che auspicabile, delle figure che hanno interpretato questa transizione sin troppo lunga: Berlusconi, certo, ma anche Prodi.