giovedì, giugno 29, 2006

L'anticiclone delle Azzorre

Da Roma in Puglia ieri il cielo era bianco di umidità. La cappa di afa sembrava un mantello steso a nascondere il cielo ai dannati della terra.
Il termometro non è sceso al di sotto dei 37 gradi, con punte di 42 sulle propaggini pugliesi dell'Appenino.
Tutto bolliva, tra cantieri di lavoro, rallentamenti, code per incidente, con i volontari che distribuivano bottigliette d'acqua, ovviamente a temperatura ambiente, e quindi calda.
Qualche utilitaria o vecchia berlina si avventurava in autostrada a finestrini aperti e non so se e come conducente e passeggeri siano riusciti ad arrivare vivi alla loro destinazione.
C'è qualcosa di sinistro, ormai, anche nel lessico meteorologico. Dalle radio e dai canali televisivi s'insiste che questo inferno bianco d'afa è dovuto all'alta pressione africana, che fa da contraltare alla bassa pressione artica.
Già detta così la condizione climatica mette ansia; in quell'alta pressione africana c'è un riflesso del mistero e dell'orrore del cuore nero dell'Africa nera da viaggiatori dell'ottocento, da lettori di antiche gazzette a quattro facciate che si chiedevano ansioni che fine avesse fatto Livingstone, da cuore di tenebra congolese di conradiana memoria.
E in quella bassa pressione artica come non avvertire il senso sgomento della solitudine degli omologhi esploratori dei ghiacci, la ricerca febbrile del comandante Umberto Nobile e della sua mitica tenda rossa fra le macerie del dirigibile Italia?
Non basta la fresca immagine dell'annunciatrice di Sky Meteo e i suoi eufemismi circa il cielo soleggiato e il lieve ulteriore aumento delle temperature.
In questo scenario climatico da day after tomorrow ci vorrebbe il viso simpatico, arguto, rassicurante, da nonno affettuoso, del colonnello Edmondo Bernacca, il vero inimitabile antesignano della metereologia d'intrattenimento (altro che il supponente con falso low profile Fabio Fazio!).
Solo Bernacca potrebbe rassicurare, con la competenza del colonnello dell'areonautica a riposo o prossimo alla pensione, con la bonomia del vecchio militare che si è occupato per una vita di isobare e millibar, con l'arguzia saggia dei sessantenni d'un tempo, che non si tingevano i capelli e non conoscevano le lampade UVA.
Ma Bernacca non avrebbe mai parlato di alta pressione africana o bassa pressione artica.
Nel suo lessico la prima era il "macho" anticiclone delle Azzorre, che già a chiamarlo così suggerisce l'idea positiva di qualcosa che protegge, e non minaccia; la seconda, invece, la depressione islandese, come un'algida ma affascinante vichinga dagli occhi di ghiaccio.
Si dirà: come che la si chiami è un'afa boia.
Vero, ma poichè il caldo e la sua sopportazione sono anche collegati con le nostre percezioni e sensazioni, con nostro clima psicologico, può non essere indifferente confrontarsi con qualcosa di meno minaccioso di questa alta pressione africana; che appunto preme dall'alto, schiaccia, annichilisce, con la forza implacabile, misteriosa, irresistibile di un rito tribale.
Nelle città nemiche della natura, negli uffici e case della giungla d'asfalto, nei canyon urbani, in queste grandi bolle sataniche che sono gli agglomerati urbani, è più difficile sopportare l'alta pressione che l'anticiclone.
O no?

giovedì, giugno 22, 2006

Chi è senza divano scagli la prima pietra?

Il miglior commento che ho letto sulla squallida vicenda di "Raiopoli", ossia sui traffici tra veline e portaborse per promuovere gli ingaggi televisivi di queste ragazze di belle (??) speranze, è stato quello di Lina Sotis sul Corriere della Sera di ieri.
Si ha un bel dire che "così fan tutte" (e tutti), e che se non c'è vera costrizione non c'è concussione; questi sono discorsi forensi e giudiziari che lasciano il tempo che trovano. E' possibile, forse probabile, che quei portaborse la "sfangheranno" e non è detto che le protagoniste dei loro discorsi "porcelli" non ne usciranno con rinnovata notorietà e qualche contratto televisivo più vantaggioso.
Ed il punto non è nemmeno se la Rai di centrodestra sia stata più sentina di vizi di quella di centrosinistra: il potere e il sotto-potere, il governo e il sottogoverno esigono sempre i propri dividendi, siano tangenti, contributi ai partiti, incarichi e prebende, posti di lavoro, divani ministeriali con bonazze scosciate.
E' che è francamente disarmante pensare che quegli uomini, un po' grassocci, un po' vecchiotti, che parlano tra loro con il tipico linguaggio casermesco, che sembrano la riedizione di personaggi della commedia pecoreccia cinematografica degli anni '70, siano in modo diretto o indiretto, i "reggitori" delle cose pubbliche.
Da un re mancato, cresciuto senza una corte vera e costretto a inventarsi una specie di "corte dei miracoli", cresciuto circondato di sorelle e con un padre severo, distaccato e lontano, ci si può anche attendere discorsi come quelli intercettati e "sparati" sui giornali in questi giorni. I Savoia seppero fare anche di peggio, in fondo, e anche l'antenato unificatore d'Italia fu uomo nel privato alquanto greve e rozzo, tutt'altra pasta rispetto al padre Carlo Alberto, tanto da far sospettare che non fosse il suo vero erede.
Ma questi portaborse campano dalla politica, campano dai partiti e dalle istituzioni, qualche volta sono anche "graziosamente" destinatari di seggi parlamentari, insomma campano alle nostre spalle, cioé campano di danaro pubblico, siamo noi che li paghiamo.
Sarebbe lecito, dunque, attendersi almeno un minimo di decenza, di pudore nell'utilizzare il loro potere, le macchine e i divani ministeriali.
E gioverebbe di più alla credibilità dei loro "mentori" una dissociazione almeno dalla grevità dei comportamenti, anziché le alte grida al complotto.
Sono tutt'altro che giustizialista, credo che le intercettazioni vadano usate con discernimento, ricordo che Binnu Provenzano è stato catturato senza intercettazioni, coi vecchi metodi investigativi di una volta, che richiedono più tempo e fatica e consentono molte meno "uscite" trionfanti in conferenze stampa radio-tv ma che costituiscono il vero cuore del lavoro di polizia giudiziaria e criminale.
Questo però non giustifica che si guardi solo al protagonismo di certi PM (che pure è innegabile), o alla sincronia sorprendente di certi esiti giudiziari, quando lo "spirito pubblico", come ha detto bene, devo riconoscere, Piero Fassino a Ballarò, segna un punto così basso.
Perché siamo caduti così in basso?
Un tempo c'erano i partiti, che funzionavano male certo, con le loro correnti, i signori delle tessere, le spartizioni d'influenza elettorale del territorio; ma almeno esisteva un cursus honorum, dalle sezioni ai consigli di quartiere, a quelli comunali, provinciali e regionali; c'erano, bene o male, i congressi dei partiti, un minimo meccanismo di controllo democratico, una formazione alla politica, ideologie e qualche ideale.
Con la crisi della prima repubblica, la scomparsa dei partiti di massa, i partiti-azienda, i partiti-comitati elettorali, i partiti-leader è venuta meno quella minima coesione democratica e la politica è diventata guerra per bande d'interessi, spartizione di risorse tra tribù, clan, capiclan.
Il vuoto della politica è colmato dai poteri (banche, imprese, chiesa, magistratura, burocrazia, televisioni...) e ciascuno di essi è al suo interno frammentato, e soprattutto ciascuno gioca in proprio.
Il senso delle istituzioni, il senso dello Stato si disperde in mille rivoli, generalmente intorbidato dagli interessi oligarchici, e risplende solo, di tanto in tanto e a fatica, nel sacrificio anonimo quotidiano di quelli che "fanno il proprio dovere" e come il capitano Bellotti de "Il giorno della civetta" mangiano solo la poca razione del pane dello Stato e si accontentano di quella.
Questi sì sono veri uomini e donne, e dati i tempi sono quasi degli eroi.
Gli altri, che si riempiono le tasche e le ganasce, che si sollazzano con le veline (e/o con i velini), che siedono indegnamente su scranni di organi elettivi e che dovrebbero rappresentare la Nazione (!!!!), sono nemmeno ominicchi e quaquaraquà.
Sono niente.
Anzi, come si dice in Sicilia: Nuddu miscato a nniente.

lunedì, giugno 19, 2006

Domani è un altro giorno (?)

Domani è un altro giorno

E' uno di quei giorni che ti prende la malinconia
che fino a sera non ti lascia più
la mia fede è troppo scossa ormai ma prego e penso fra di me
proviamo anche con dio non si sa mai
e non c'è niente di più triste in giornate come queste
che ricordare la felicità
sapendo già che è inutile ripetere:
chissà ?
Domani e' un altro giorno si vedrà
è uno di quei giorni in cui rivedo tutta la mia vita
bilancio che non ho quadrato mai
posso dire d'ogni cosa che ho fatto a modo mio
ma con che risultati non saprei
e non mi sono servite a niente esperienze e delusioni
e se ho promesso non lo faccio più
ho sempre detto in ultimo :
ho perso ancora ma
domani è un altro giorno, si vedrà
è uno di quei giorni che
tu non hai conosciuto mai
beato te si beato te
io di tutta un'esistenza spesa a dare,
dare, dare .... non ho salvato niente, neanche te
ma nonostante tutto io non rinuncio a credere
che tu potresti ritornare qui
e come tanto tempo fa ripeto :
chi lo sa ?
Domani è un altro giorno si vedrà
e oggi non m'importa
della stagione morta
per cui rimpianti adesso non ho più
e come tanto tempo fa ripeto :
chi lo sa ?
Domani e' un altro giorno si vedrà
domani e' un altro giorno si vedrà.

Capita di svegliarsi con una canzone in testa e di non riuscire a liberarsene; come se essa racchiudesse, almeno in quel momento, il senso complessivo che, in un punto del tempo, si avverte della vita.
A me è capitato oggi, con la canzone della Vanoni, che ho sentito dal vivo l'ultima volta in una serata fredda e umida dei primi di gennaio, in concerto con Gino Paoli al "Teatroteam" di Bari, una di quelle tensostrutture periferiche che sostituiscono i teatri, nel nostro caso il Petruzzelli ancora di là da ricostruire.
Mi riconosco in ogni parola, e nemmeno io so quadrare i bilanci, anzi non mi provo nemmeno a farli: nella partita doppia dare-avere sono una vera frana, ho una propensione nulla alla gestione contabile, si tratti di soldi o di sentimenti, e non è detto che debba essere un titolo di vanto, anzi.
Ma si può immaginare un romantico curvo sul libro dei conti, a incolonnare cifre esistenziali?
Di più, per un romantico è pericolosissimo cimentarsi nei bilanci: Cesarone Pavese ci provò in una stanza d'albergo cinquantasei anni fa, e Luigi Tenco lo stesso trentanove anni fa, ed è finita come sappiamo.
E poi. I bilanci hanno un senso se, accanto al consuntivo si redige un preventivo, si sceglie come investire e su cosa, come ripartire le risorse per le varie spese.
Si può immaginare un romantico che decide come investire i suoi sentimenti, quanto e chi amare, dove stabilire il limite di spesa di se stesso?
Temo proprio che sia impossibile. Almeno lo è per me.
Certo, investendo dissennatamente se stessi, senza far conto della remunerazione dell'investimento, si fa come quei commercianti che comprano, comprano, comprano senza preoccuparsi se e quanto venderanno, e che vanno poi, quasi infallibilmente, a fallimento.
Ma io penso che tutto sommato è meglio essere debitori verso se stessi che creditori verso gli altri: come dice Ornella meglio dare, dare, dare, che pensare o forse illudersi di ricevere, anche se qualche volta è bello anche ricevere. Anche se dipende da chi.

domenica, giugno 11, 2006

Compagni di scuola

Compagno di scuola

Davanti alla scuola tanta gente
otto e venti, prima campana
"e spegni quella sigaretta"
e migliaia di gambe e di occhiali
di corsa sulle scale.
Le otto e mezza tutti in piedi
il presidente, la croce e il professore
che ti legge sempre la stessa storia
sullo stesso libro, nello stesso modo,
con le stesse parole da quarant'anni di onesta professione.
Ma le domande non hanno mai avuto
una risposta chiara.
E la Divina Commedia, sempre più commedia
al punto che ancora oggi io non so
se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito.
Ma Paolo e Francesca, quelli io me li ricordo bene
perché, ditemi, chi non si è mai innamorato
di quella del primo banco,
la più carina, la più cretina,
cretino tu, che rideva sempre
proprio quando il tuo amore aveva le stesse parole,
gli stessi respiri del libro che leggevi di nascosto
sotto il banco.
Mezzogiorno, tutto scompare,
"avanti! tutti al bar".
Dove Nietsche e Marx si davano la mano
e parlavano insieme dell'ultima festa
e del vestito nuovo, fatto apposta
e sempre di quella ragazza che filava tutti (meno che te)
e le assemblee e i cineforum i dibattiti
mai concessi allora
e le fughe vigliacche davanti al cancello
e le botte nel cortile e nel corridoio,
primi vagiti di un '68
ancora lungo da venire e troppo breve, da dimenticare!
E il tuo impegno che cresceva sempre più forte in te...
"Compagno di scuola, compagno di niente
ti sei salvato dal fumo delle barricate?
Compagno di scuola, compagno per niente
ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu?

Notte prima degli esami

Io mi ricordo quattro ragazzi con la chitarra
e un pianoforte sulla spalla,
come i pini di Roma la vita non li spezza,
questa notte è ancora nostra,
come fanno le segretarie con gli occhiali a farsi sposare dagli avvocati.
Le bombe delle sei non fanno male,
è solo il giorno che muore, è solo il giorno che muore.
Gli esami sono vicini e tu sei troppo lontana dalla mia stanza,
tuo padre sembra Dante e tuo fratello Ariosto,
stasera al solito posto, la luna sembra strana
sarà che non ti vedo da una settimana.
Maturità t'avessi preso prima, le mie mani sul tuo seno
è fitto il tuo mistero,
e il tuo peccato è originale come i tuoi calzoni americani,
non fermare ti prego le mie mani
sulle tue cosce tese, chiuse come le chiese
quando ti vuoi confessare.
Notte prima degli esami, notte di polizia,
certo qualcuno te lo sei portato via,
notte di mamme e di papà col biberon in mano,
notte di nonne alla finestra, ma questa notte è ancora nostra,
notte di giovani attori di pizze fredde e di calzoni,
notte di sogni di coppe e di campioni,
notte di lacrime e preghiere,
la matematica non sarà mai il mio mestiere,
e gli aerei volano alto tra N.York e Mosca,
ma questa notte è ancora nostra,
Claudia non tremare, non ti posso far male, se l'amore è amore.
Si accendono le luci qui sul palco
ma quanti amici intorno che mi viene voglia di cantare,
forse cambiarti, certo un po' diversi
ma con la voglia ancora di cambiare,
se l'amore è amore - se l'amore è amore - se l'amore è amore -
se l'amore è amore - se l'amore è amore ...

Giulio Cesare

Eravamo 34 quelli della terza E
tutti belli ed eleganti tranne me.
Era l’anno dei mondiali quelli del '66
la regina d'Inghilterra era Pelè.
Sta crescendo, come il vento questa vita mia
sta crescendo, questa smania che mi porta via
sta crescendo come me.
Eravamo 34 quelli della terza E
sconosciuto il mio futuro dentro me,
e mio padre una montagna troppo alta da scalare
nel paese una coscienza popolare.
Sta crescendo, come il vento questa vita mia
sta crescendo, questa rabbia che mi porta via
sta crescendo come me.
La giovane Italia cantava ehi ahi ha ha,
Davanti alla scuola pensavo viva la libertà,
tu dove sei, coraggio di quei giorni miei
coscienza, voglia e malattia di un canzone ancora mia,
ancora mia.
Nasce qui da te, qui davanti a te, Giulio Cesare.
Eravamo 34 e adesso non ci siamo più
e seduto in questo banco ci sei tu,
era l'anno dei mondiali quelli dell'86,
Paolo Rossi era un ragazzo come noi.
Sta crescendo, come il vento questa vita tua
sta crescendo, questa rabbia che ti porta via
sta crescendo come me.
L’estate è nell’aria brindiamo alla maturità,
l’ Europa è lontana, partiamo, viva la libertà
tu come stai ragazzo dell'86
coraggio di quei giorni miei
coscienza, voglia e malattia di un canzone ancora mia,
ancora mia.
Nasce qui da te, qui davanti a te, Giulio Cesare.

E' un trittico di canzoni di Antonello Venditti, notissime alla mia generazione ma di certo non sconosciute ai "giovani d'oggi" (espressione che titolava l'ultimo film della serie di Don Camillo, imparagonabile a quelli "veri" con Gino Cervi e Fernandel).
La seconda canzone della serie ha dato titolo anche a un recente film, che come sempre vedrò in pay per view ("Notte prima degli esami").
Sono canzoni che, per me, hanno il sapore dei primi anni settanta, il lustro nel quale (dal 1971 al 1976) si è racchiusa l'esperienza del liceo classico, il "Quinto Orazio Flacco" di Bari, che per Bari è quanto dire il "Giulio Cesare" di Roma, protagonista della terza canzone.
Il senso complessivo alle altre due canzoni lo da la prima "Compagno di scuola", che richiama una categoria dello spirito nitida e diversa da quella della "amicizia", quanto questa è diversissima da quella della "colleganza".
Coi colleghi c'è la condivisione di una condizione di lavoro, di problematiche comuni, di interessi omogenei.
Con gli amici c'è l'affinità di modi di essere e di sentire, il dialogo, il sostegno e la confidenza, la spalla su cui piangere, magari, i momenti felici e infelici.
Con i compagni di scuola c'è qualcosa di diverso, e molto di più: l'iniziazione alla vita, alla dimensione sociale dell'esistenza, la fuoriuscita dal guscio familiare, la condivisione dei turbamenti amorosi, delle passioni politiche, del senso straniato e straniante dell'adolescenza, quando si mollano gli ormeggi del porticciolo dell'infanzia e si affronta sulla stessa imbarcazione (la classe che raccoglie i compagni di scuola) il mare della vita.
Per questo il legame coi compagni di scuola è legame di sangue, patto iniziatico, linguaggio cifrato che si ritrova quando ci si rivede, anche dopo quarant'anni.
La vita divide e separa, certo. Ma quando ci si ritrova, magari un po' ingrassati, con le rughe, coi capelli spruzzati di grigio, coi primi acciacchi dell'età, negli sguardi reciproci rimane l'immagine ferma e immobile dei quattordici-diciotto anni, i soprannomi di un tempo, il sentimento di appartenenza di tutti a ciascuno, e di tutti a un tutto unitario, la propria classe.
C'è una linea sottile che divide la spontaneità, freschezza e magia del ritrovarsi dalla pateticità dell'amarcord, dalla malinconia sottile che pervade l'inevitabile constatazione delle "ingiurie" del tempo e della vita.
E' difficile non varcare il confine: ed io, infatti, proprio per non varcarlo non ho mantenuto consuetudine di vita coi miei compagni di scuola. Li vedo poco, purtroppo spesso in questa fase della vita ai funerali dei genitori (mi è accaduto appena tre giorni fa), perché è passato il tempo dei matrimoni, e prima ancora quello delle lauree. E so che, prima o poi (ma speriamo più tardi che mai) ci rivedremo ai "nostri" funerali, e quando non li rivedrò sarà perché staranno celebrando il mio.
Ma, quando li rivedo, e quando mi rivedono, non c'è bisogno di raccontarsi nulla, e non conta davvero raccontarsi nulla; non importa cosa si è diventati, in meglio o in peggio, se si ha la pressione alta o bassa, se si è ancora sposati o già separati e divorziati, se i figli vanno bene o male a scuola (per chi ha figli), se si abita ancora nel vecchio quartiere o si è cambiato rione o addirittura città o nazione.
Si è semplicemente, e per sempre, compagni di scuola, e dietro le rughe, le pance, i capelli grigi, si scorgono i capelli lunghi, i fisici, i visi appena coperti di lanugine barbosa, l'acne più o meno soffusa o aggressiva, degli anni verdi.
Si è i ragazzi che si è stati e che si rimane dietro la scorza rugosa degli anni, come una castagna fresca nel suo guscio acuminato.

domenica, giugno 04, 2006

La guerra dei mondi


Ho visto ieri su uno dei canali pay per view di Sky "La guerra dei mondi", remake spielberghiano di un film del 1953 (regista Byron Haskin) e sopratutto del celeberrimo sceneggiato (o drammatizzazione?) radiofonica con cui Orson Wells nella trasmissione "Mercury Theatre on the Air" terrorizzò, suo malgrado, il New Jersey la sera del 30 ottobre 1938, raccontando un'immaginaria invasione aliena, con astronavi che emergevano dal sottosuolo e distruggevano uomini e cose.
Si tratta dell'adattamento, come è noto, del romanzo di Herbert George Wells, pubblicato nel 1897 e ambientato nella nebbiosa Londra di fine secolo, la stessa teatro delle gesta di Jack lo squartatore.
C'è un filo rosso che, probabilmente, unisce i tre diversi contesti storici.
La Londra degli ultimi anni dell'800, all'apice della sua potenza imperiale, già avvertiva probabilmente, almeno nei suoi spiriti più sensibili e lungimiranti, lo spettro di quella che, benché superata in ferocia ed efferatezza dalla seconda guerra mondiale, è e rimarrà per sempre "la grande guerra".
L'America di fine anni '30, benché in ripresa rispetto al crollo del 1929, non poteva non avvertire i tuoni minacciosi, di là dell'Atlantico, di un conflitto che sarebbe scoppiato dopo meno di un anno dal 30 ottobre 1938, con l'invasione nazista della Polonia.
Il Mondo del 2005 guarda sgomento all'immagine indelebile delle Twin Towers centrate dagli aerei passeggeri scagliati da Atta e complici, alla guerra in Iraq, all'Iran che procede verso l'arma nucleare, al terrorismo islamico insediatosi nel giardino di casa.
La fantascienza può dar corpo ai sogni e agli incubi, a seconda dei periodi storici.
Nel 1977 l'aspirazione alla pace, l'idea di un progresso benevolo e benefico, gli echi non del tutto spenti del '68, dei valori e delle utopie della generazione dei figli dei fiori, costituirono il retroterra culturale nel quale Steven Spielberg potè collocare, in modo efficace e suscitando un'ondata di emozione e commozione (come sempre riesce a questo ineguagliabile regista-produttore, in ogni sua iniziativa), l'edificante favola di "Incontri ravvicinati del terzo tipo", con i suoi alieni diafani e angelicati, l'apoteosi di colori e suoni delle astronavi aliene, l'indimenticabile lunga sequenza dell'arrivo dell'astronave madre sul pizzo del diavolo, con successiva edizione rimpolpata dalle immagini dell'interno dell'astronave.
Certo gli effetti speciali curati da quello stesso Douglas Trumbull di "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick (1968) si erano affinati, senza poter raggiungere le vette della moderna tecnologia digitale (ma è un po' come con Biancaneve e i più recenti cartoon della Disney: quale ha maggior poesia e suggestione?); ma in "Incontri ravvicinati" soffiava un vento leggero e fresco di speranza e ottimismo che il grandioso affresco di "2001" non aveva e non voleva avere nella sua visione angosciante di un futuro dominato dallo scontro tra gli astronauti e Hal 9000 e dalla solitaria discesa dell'unico astronauta sopravvissuto sul pianeta Giove e in effetti all'interno della propria coscienza ed esperienza.
La stessa visione ispirava, nel 1982, "E.T. l'extraterrestre", con quel "cucciolo" di alieno (e almeno così lo trattavano i ragazzini protagonisti del film) tenerissimo quanto un cagnolino, intelligentissimo, capace col suo ditone allungato e luminescente di ogni guarigione, esserino tanto miracoloso da miracolarsi da solo quando sembrava irreparabilmente morto tra le lacrime di grandi e piccini nel buio delle sale cinematrografiche.
Ma quella favola a lieto fine era poi declinata in quella triste e struggente del bambino-robot di "A.I. artificial intelligence" del 2001: l'11 settembre era ancora, sia pur di poco, di là da venire ma nella rilettura fantascientifica di Pinocchio e nell'avventuroso viaggio del bambino-robot alla ricerca della sua umanità e della mamma che lo aveva abbandonato, c'erano ancora alieni benevoli che, riscoperto il bimbo ibernato nelle profondità marine di una New York spopolata coperta dalle acque e poi dai ghiacci, gli consentivano il "miracolo" di riportare in vita la mamma e passare con lei un lungo-breve giorno, dall'alba al tramonto, prima di rimetterla a letto e lasciarla al suo sonno eterno.
Niente di tutto questo, ovviamente, ne "La guerra dei mondi". Qui le astronavi aliene si annidano sotto terra e vengono riattivate da alieni cattivi, anzi spietati, e orridi che si catapultano nelle stesse portati da terrificanti fulmini che attraversano il cielo e perforano l'asfalto.
Gli alieni distruggono tutto, cose e persone, queste ultime polverizzate da raggi di calore che lasciano intatti e svolazzanti (come i fogli di carta nel cielo dell'11 settembre dagli squarci delle torri gemelle?) soltanto i vestiti, e succhiano il sangue degli umani, risputandolo sotto forma di fertilizzante destinato a dar vita a piante mostruose e rosse, e a trasformare il pianeta azzurro in pianeta rosso, in albe e tramonti lividi tra i fuochi e le esplosioni dei vani scontri tra truppe terrestri e astronavi "tripodi", con le tre gambe che riproducono quelle filiformi e mostruose degli alieni.
Qui la fantascienza da corpo agli incubi di oggi; ed è impossibile non scorgere nella emersione delle astronavi aliene dal sottosuolo e nel conseguente sgomento e terrore la metafora della scoperta di un terrorismo insabbiato e incistato nel sottofondo delle società occidentali, che si risveglia e colpisce e distrugge.
Un intenso Tom Cruise interpreta il protagonista Ray Ferrier, operaio portuale dalla vita privata sbrindellata, che nella fuga avventurosa e nella tenace resistenza al pericolo della distruzione aliena saprà riscattare lo sbiadito passato di padre immaturo e irresponsabile e riguadagnare l'amore e il rispetto dei suoi due ragazzi l'adolescente Robbie e la piccola Rachel, che riporterà sani e salvi alla mamma (rimasta tranquilla e illesa nella casa dei suoi genitori a Boston, assieme al suo nuovo, inutile e inetto compagno della middle class).
Nel film c'è anche un "cammeo" di Tim Robbins, nel ruolo di uno stralunato e impazzito solitario "resistente" che nell'accenno all'impossibile impresa di scavare un cunicolo e arrivare nelle fogne e metropolitane delle grandi città rappresenta l'allusione al finale alternativo immaginato da Herbert George Wells.
Il film invece ripropone il finale classico: gli alieni si beccano una quantità industriale di virus, battesi, protozoi e miceti che ne minano il sistema immunitario e li uccidono.
Conclusione che, in tempi di aviaria e rischi di pandemia, delinea almeno uno scenario futuribile più o meno consolante, in attesa delle astronavi aliene.

sabato, giugno 03, 2006

Da Buttiglione (il colonnello) a Bertinotti


Negli anni '70 fu tutta una fioritura di filmetti della c.d. commedia all'italiana sull'esercito e i militari. Cominciarono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia col "sergente Rompiglioni", una mini-saga credo in due o tre "puntate" nella quale già faceva capolino, tra i comprimari, Aldo Carotenuto, un attore di qualità che come tanti, in quegli anni, per guadagnarsi la pagnotta dovette accettare parti e particine in quei filmetti.
Carotenuto fu poi il trait d'union con le commedie sexy, che di tanto in tanto le TV locali (che però spesso ora trasmettono sul satellite, potere del digitale globalizzante!) ripropongono: "La dottoressa del distretto militare", "La soldatessa", "La soldatessa alle grandi manovre" e compagnie (e battaglioni) via cantando.
Negli stessi anni il personaggio radiofonico del colonnello Buttiglione diede vita a sua volta a un film e vari sequel, il primo interpretato da un attore caratterista francese Jaques Duphilo, gli altri da Aldo Maccione (che era poi uno dei "Brutos" complesso comico-vocale degli anni '60, quello in cui il più brutto di tutti prendeva immancabili scoppole dagli altri: mi riferisco a "misteri gloriosi della TV" noti solo agli anzianotti come me).
Regina incontrastata delle caserme a luci "rosse" (ma forse solo "rosa", visto che si vedevano nudi abbastanza "casti", rispetto a quelli attuali) era Edwige Fenech, ora splendida quasi sessantenne ancora molto bella e piena di glamour, che fece sognare almeno due generazioni di adolescenti, dividendoli nei due "partiti" dei fenechiani e dei bouchetiani (Barbara Bouchet era l'alternativa bionda della valchiria dalla chioma nera).
Indimenticabili protagonisti di quei film erano poi, oltre a Carotenuto, Aldo Montagnani (altro attore di teatro di qualità costretto ad arrotondare la mesata con quei film) e Alvaro Vitali (interprete della saga di "Pierino").
Quale era il mondo di quella vita militare?
Camerate in cui le reclute subivano atroci scherzi dai "nonni", si accollavano le corvee (immancabile la pulitura delle latrine), marcavano visita con i più ingegnosi sistemi; sottufficiali frustrati, generalmente tonti e prepotenti; ufficiali, colonnelli, generali tromboni.
Diciamolo: per molti anni l'esercito (onnicomprensivamente parlando delle tre armi) è stato visto come lo specchio della peggiore Italia, la sentina di ogni incompetenza e cialtroneria, una cosa sostanzialmente inutile e autoreferenziale.
Giocava in quel sentimento la memoria della guerra perduta, di ufficiali che non si dimostrarono all'altezza, lo scarsissimo sentimento nazionale, un amor di Patria diventato imbarazzante quasi come un'orientamento pedofilo, la naturale propensione italica a defilarsi, uno spirito "guerresco" del tutto evaporato.
Poi sono iniziate le missioni di pace: era il 1982 e un contingente italiano, al comando del generale Franco Angioni, fu spedito in un Libano martoriato dalla guerra civile tra musulmani e cristiano-maroniti (con i relativi sponsors siriano e israeliano) come forza d'interposizione sotto l'egida dell'ONU.
Ancora un decennio, e un'altro contingente italiano andò il Somalia nel quadro di una forza multinazionale che tentò, vanamente, di rimettere ordine nel paese del corno d'Africa sbrindellato pezzo a pezzo tra bande al servizio dei c.d. signori della guerra.
Vennero poi le missioni nei Balcani, la guerra "umanitaria" per proteggere le popolazioni del Kossovo (a proposito, lì l'Italia partecipò attivamente a missioni belliche, con le sue basi e i suoi aerei che andarono a bombardare i serbi...), il piccolo contingente di Timor est, la partecipazione a "enduring freedom", ossia al consolidamento della pace in Afganistan, e quella, da ultimo, tesa allo stesso obiettivo nell'Iraq meridionale.
Fu allora che scomparve l'immagine macchiettistica delle nostre forze armate, e iniziammo a celebrare i primi funerali dei primi militari caduti in azione dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Fu così che la parata del 2 giugno, che aveva conosciuto alterne vicende dalla sua istituzione nel 1948, riprese vigore e diventò un appuntamento di un qualche significato e di una certa solennità.
I contromanifestanti piddiccini, rifondaroli e verdi (solecheghigna, più che ridere) naturalmente non sanno niente di tutto questo, né della distinzione tra guerra d'aggressione, guerra difensiva, missioni di polizia internazionale, missioni umanitarie.
I loro leader, da Diliberto a Pecoraro Scanio, citano come sacro manifesto del pacifismo unilaterale e unidirezionale l'art. 11 della Costituzione.
Ma che dice l'art. 11 della Costituzione?
Che l'Italia, uscita come tutta l'Europa e il Mondo intero dalle macerie di una guerra terribile come la seconda mondiale, "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli", ossia rifiuta la guerra di aggressione, volta alla conquista, e ripudia la guerra "come strumento di risoluzione delle controversie internazionali", ovvero l'escalation bellica tra nazioni che accampano reciproche pretese.
Rientrano in questo solenne paradigma le missioni di polizia internazionale, le missioni umanitarie, le missioni d'interposizione tra belligeranti?
A me non pare del tutto evidente.
Prendiamo i tre esempi: Kossovo, Afganistan, Iraq.
In Kossovo, si trattava di evitare una carneficina e una nuova pulizia etnica dopo quelle che Milosevic e i suoi soci avevano sostenuto in Bosnia e in altri pezzi della ex Jugoslavia.
In Afganistan, di stanare dai loro santuari i talebani e i qaedisti, coautori dell'11 settembre e di tante successive stragi.
In Iraq, di deporre un dittatore che aveva a sua volta fatto operazioni di pulizia etnica (i massacri dei curdi), sanguinose repressioni, appoggiando il terrorismo palestinese e islamico.
Sono state queste guerre di aggressione? Erano rivolte alla conquista di quelle nazioni e ad attentare alle libertà dei loro popoli? O non piuttosto a liberare quei popoli dal giogo di dittature sanguinarie e oscurantiste?
E' troppo sperare che queste cose le sappiano e ci riflettano i ragazzotti dei centri sociali; dovrebbero saperlo i "combattenti e reduci" ultracinquantenni della sinistra radical-kitch che amoreggiano con Castro e i neodittatori sudamericani; lo sanno ma hanno il loro tornaconto politico ad alimentare pacifismo e confusione i leader politici piddiccini, rifondaroli, verdi.
Di certo lo sa anche il Presidente della Camera, che ieri, imbarazzato e stranito, ha seguito la sfilata dal palco delle autorità per dovere istituzionale, cercando di rimanere "di lotta" (almeno un pochino) col distintivo arcobalenista sul bavero della giacca.
Non credevo di poter mai condividere un giudizio di Bondi (che trasfonde nella sua fede nel berlusconismo quella stessa cecità che molti trasfondono nella fede comunista e pacifista).
Ma Bondi ha detto ieri una cosa giusta: "Il modo con cui Bertinotti adempie alle sue responsabilità di presidente della Camera è imbarazzante e fa precipitare l'Italia nel ridicolo".
Chissà che non se ne sia accorta anche "Lady" la cagnetta meticcia mascotte dei carabinieri, in parata anche lei tra i monumentali cavalli dell'Arma.
Le cronache non lo dicono, ma mi piace immaginare che arrivata all'altezza del Presidente di lotta e di governo gli abbia abbaiato festante. E magari ha alzato la zampina posteriore, accostandosi al palco.

giovedì, giugno 01, 2006

Questioni di stile


La mia generazione aveva quattordici anni quando fu ucciso Luigi Calabresi, "il commissario", e ricorda le immagini in bianco e nero dei telegiornali, la pozza scura del sangue nell'angusto spazio tra due automobili, di quelle comuni rigorosamente nazionali, anzi "Fiat", che circolavano allora.
E se all'epoca della strage di piazza Fontana eravamo più piccoli, comunque avevamo avuto modo di conoscere, quali "contemporanei", la bomba piazzata nella sala circolare della Banca nazionale dell'agricoltura di Milano, la morte per "precipitazione" da una finestra del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, i sospetti su quel suicidio che molta parte della sinistra parlamentare ed extraparlamentare considerava un omicidio, o una messinscena di suicidio, gli slogan dei cortei ed uno in particolare "La strage è di stato, Pinelli assassinato", che nel 1972 si aggiornò in "Feltrinelli assassinato", quando l'editore rosso Giangiacomo, di sicure pulsioni rivoluzionarie, restò dilaniato sotto un traliccio dell'alta tensione da una bomba che, si disse, stava "piazzando" in prima persona (ma pochi ci credettero, almeno all'epoca).
Era, e rimane nonostante i tanti processi, dei quali quello di piazza Fontana chiusosi dopo infiniti dibattimenti in varie diverse sedi processuali senza colpevoli ufficiali e certificati, il periodo più oscuro e nebuloso della storia recente dell'Italia repubblicana.
Ma di quella nebulosa di immagini, titoli di giornali, cortei, slogan, bombe, sangue, pallottole, gruppuscoli di destra eversiva, gruppuscoli di sinistra rivoluzionaria, infiltrati, processi, rimane nitido un ricordo: l'immagine di "assassino" che, a torto o ragione, e molto probabilmente a torto, una generazione giovanile si fissò negli occhi, nella mente e nel cuore, del commissario Luigi Calabresi.
Non so dire se il suo omicidio, starei per dire nella logica dei suoi assassini la sua "esecuzione", ebbe davvero Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani come mandanti e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali.
Una verità processuale, stabilita dopo un tormentato processo costellato di annullamenti della Cassazione e rinnovazioni dei giudizi di appello, vuole che appunto i quattro, in quei ruoli, abbiano compiuto quel delitto.
Una verità politica, questa non controvertibile, è che Luigi Calabresi fu additato come il boia di Pinelli, il prezzolato poliziotto al servizio di trame oscure, il "nemico del popolo" per antonomasia.
Ed è incontestabile che tra i più tenaci accusatori di Calabresi, che gli cucirono addosso l'immagine che si fissò nella mente e nel cuore della mia generazione e di quella immediatamente precedente(cioé del mondo giovanile sensibile alla politica), vi fu "Lotta continua", giornale-movimento di cui Adriano Sofri era il leader indiscusso e Pietrostefani e Bompressi dirigenti autorevoli.
E' comprensibile e umano che gli ex di LC disseminatisi nel mondo dell'informazione e della cultura (compresi i Lerner, i Mughini, e via andare) o qualche ex PCI amico alla Ferrara credano e giurino sull'innocenza di Sofri.
E' innegabile che l'Adriano Sofri giornalista e commentatore autorevole, che ha scritto reportage da Saraievo e intelligenti "lettere dal carcere" di Pisa su Panorama, sia persona stimabile e perbene.
Certo le "lettere dal carcere" e i quaderni di Antonio Gramsci non ebbero la stessa immediata diffusione e fortuna, ma c'era una dittatura, un regime, e in più Gramsci morì giovane, finito di consumare dal carcere non avendo salute di ferro.
Personalmente, e sul piano giuridico, ho dissentito dalla pretesa di Castelli di considerare come "duale", ed in senso politico, il potere di grazia, che, come poi riconosciuto dalla Corte Costituzionale, appartiene invece al solo Presidente della Repubblica.
E' vero però che questo istituto di antiche origini, espressione storica di un potere proprio dei sovrani assoluti, poi passato alle monarchie costituzionali, si attaglia molto meglio a delitti comuni che a delitti "politici", o se vogliamo essere precisi a delitti comuni di matrice e ispirazione "politica".
Per questi ultimi, se e in quanto sia possibile sotto il profilo storico e appunto politico, sono più congeniali atti di clemenza "collettivi", ossia amnistie e indulti.
Ma amnistie e indulti in questa materia sono a loro volta comprensibili solo quando si inaugura una stagione che chiuda, con passaggi più o meno sanguinosi seguiti da una rilegittimazione popolare del potere, una stagione precedente, in cui un potere, che non ha mai avuto o ha perso legittimazione popolare o democratica, abbia commesso delitti.
Tanto per intenderci: ancora si discute sulla famosa "amnistia Togliatti" dei delitti dei gerarchi fascisti, e della mancata "epurazione" delle classi dirigenti fasciste, riciclatesi in larga misura nella classe dirigente repubblicana; e son passati si badi, sessant'anni; e quella amnistia aveva comunque quale retroterra una guerra, e anche una guerra civile, e milioni di morti, e il passaggio dalla dittatura fascista alle libertà costituzionali e democratiche del nuovo regime repubblicano.
Ho la sensazione quindi che sia prematuro, ancora molto, se non del tutto inappropriato, invocare una "amnistia" per chi si è macchiato di delitti nella stagione del terrorismo e della delinquenza politica, con buona pace di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, Cossiga e circoli politico-culturali.
Anche perché non c'era un "regime" o una "guerra civile" che in qualche modo potesse legittimare terrorismo e guerra civile, come invece, ad esempio, per il terrorismo etnico basco o quello religioso irlandese.
E' davvero un nodo arduo: difficile immaginare l'adeguatezza della grazia, ancor più la percorribilità della strada dell'amnistia.
O meglio, va bene la grazia solo se giustificata da ragioni "umanitarie", riferite cioé alle sole condizioni di salute che rendano inutile nei suoi fini afflittivi e rieducativi l'espiazione della pena (e mi auguro perciò che le ragioni di salute di Bompressi siano vere, radicate e fondate, come non dubito peraltro).
Ciò vale a più forte ragione per Sofri, che come si sa è stato molto male, è sopravvissuto per miracolo e la cui salute potrebbe oggi essere seriamente minata.
Certo, non sarebbe stato sbagliato se la concessione della grazia a Bompressi fosse stata preceduta da un'iniziativa tesa a informare la vedova e i figli di Calabresi, se si fosse atteso ancora qualche mese, se non si fosse trattato quasi del primo atto del Presidente Napolitano, se questi avesse affidato la notizia a un più compassato comunicato stampa anziché a dichiarazioni in video.
Questioni di stile, forse: ma da un Presidente del cui stile non si è mai dubitato era legittimo attendersi un po' più di stile e sensibilità.