martedì, febbraio 03, 2009

L'ELUANA VA A MORIRE

L'unica cosa che sappiamo è che non sappiamo niente. Non sappiamo se dallo stato vegetativo si possa riemergere ad uno stato, sia pure larvale, di coscienza e di interazione col mondo esterno; non sappiamo se nello stato vegetativo permanga una qualche misteriosa percezione di se e degli altri; non sappiamo se nello stato vegetativo si senta, in qualche modo, il dolore, non ovviamente nei termini in cui esso suscita una risposta; non sappiamo se la privazione dell'alimentazione e della idratazione procurerà sofferenza.
Su questo non sapere s'innesca un dibattito grottesco e lunare, con le dotte citazioni di articoli scientifici di taluno e le repliche cliniche di talaltro, con il primario della struttura in cui Eluana morirà che da un lato si definisce "devastato" e dall'altro afferma con sicumera che quella ragazza "è morta da diciassette anni" (e allora verrebbe da dirgli, cosa stiamo a discutere, chiudiamola in una bara e seppelliamola!).
Applichiamo, giustamente, il principio precauzionale sulle questioni ambientali (ad esempio sulle stazioni per la telefonia cellulare), ma non lo applichiamo sulle questioni della vita umana e dei suoi limiti, spesso solo supposti.
Che mondo strano e contraddittorio è questo, in cui diciamo che chi è in stato vegetativo permanente non sente dolore, ma poi ci si preoccupa di stabilire protocolli di sedazione per il momento successivo al distacco del sondino nasogastrico.
E come in un minestrone immangiabile o in una maionese impazzita, mettiamo assieme troppe cose, dal diritto alla vita al diritto alla morte (che in se non esiste), dalla libertà di cura alla sospensione del sostentamento vitale (che pure mi sembra altra cosa), dalle volontà vere a quelle solo presunte, dalla concretezza di una persona e di un corpo all'astrazione di battaglie di "principio", come se il diritto o i diritti possano vivere disincarnati negli atti parlamentari, nelle gazzette ufficiali, nei decreti e nelle sentenze, e valgano nella loro espressione concettuale e simbolica, giusto per arricchire un catalogo tanto pomposo quanto immaginario perché spesso mera proclamazione enfatica di "diritti civili".
Io so soltanto di non sapere; non sapendo non mi riesce di stare da altra parte che da quella della vita, che pure fluisce tenace nel sangue e nel cuore di Eluana, ancora per poco d'accordo, ma non sappiamo nemmeno ancora per quanto.
Tutto il resto serve solo per il chiacchiericcio politico-giornalistico dei vari Vespa, Mentana, Santoro, e dei loro ospiti.
Di cui, francamente, me ne frego.

lunedì, febbraio 02, 2009

IL DIVO TRA FUMETTO E C ABARET


Con il consueto ritardo, nella dissonanza temporale tra proiezione nelle sale e passaggio televisivo (in pay per view), ho visto ieri sera "Il Divo", osannato film di Sorrentino.

Dico subito che del film ho apprezzato la fotografia, virata su toni coloristici caldi, nella rappresentazione della corte andreottiana, e viceversa freddi e qualche volta lividi, nella sua dimensione domestica, la surreale scena del bacio, onirica nella contrapposizione tra il sudaticcio e contadinesco Riina e l'impenetrabile e asettico "zu" Giulio, la scena finale con il volto marmorizzato e quasi pietrificato di Andreotti imputato a Palermo, e poche altre cose.

Per il resto il film è, secondo me, un irrisolto tentativo di collocare la figura di Andreotti in una dimensione intermedia tra rappresentazione "fumettistica" (del tipo di quelle storie d'Italia alla Enzo Biagi) e sguaiato cabaret dei suoi sodali, a Evangelisti dipinto come un imbecille organico ma fedele a Sbardella più balena che squalo nelle ragguardevoli dimensioni dell'epa, a Cirino Pomicino, tessitore di alleanze e recuperatore di voti ma anche un po' giullare di corte.

Il tentativo stesso di rappresentare la solitudine del potere andreottiano, con la consapevolezza più o meno dolorosa dei prezzi pagati (in particolare l'abbandono di Aldo Moro al suo destino di condannato dalle BR), si traduce in effetti in una scontata allegoria del potere algido e gelido che si alimenta di piccoli riti (la preghiera nella chiesa presidiata dalla scorta, le passeggiate a passettini con le mani nelle mani dietro la schiena, le luci spente ossessivamente passando da una stanza all'altra della casa di Andreotti, le aspirine e gli antidolorifici per i celeberrimi eterni mal di testa, quasi il tarlo di una coscienza tormentata).

Ne riesce un ritratto in cui Andreotti, piuttosto che il Belzebu di tanta pubblicistica, la Volpe, il custode di mille segreti nel suo archivio ineguagliabile, sembra la caricatura di Oreste Lionello quando imita Andreotti.

Ed è un peccato perché Servillo mette tutta la sua arte al servizio di Sorrentino e molto brava è anche Anna Bonaiuto nelle vesti della moglie Livia.

Più riusciti, paradossalmente, sono proprio i personaggi minori, dal rozzo e contadinesco Riina, alla schiera di pentiti, delinquenti sozzi e orridi, sino all'incredibile sberleffo (che confesso mi ha divertito) a Giancarlo Caselli, rappresentato prima di entrare sulla scena dell'interrogatorio di Balduccio Di Maggio, mentre vaporizza una nuvola di lacca sui capelli candidi e gonfi (li vidi quei capelli in una visita a bari della commissione uditori quando caselli era al csm ed io ero il segretario del consiglio giudiziario, ed era una chioma davvero molto bella e notevole).

Ma basta questo poco per dire che "Il divo" è un film epocale, una prova d'autore, un film meritevole di palme d'oro, orsi, david, lupacchiotti, oscar'?

No, francamente, mi pare poco, troppo poco.