sabato, marzo 17, 2007

16 marzo, un terzo di secolo fa


Il 16 marzo 1978 era una soleggiata mattina di quasi-primavera. A quel tempo lavoravo, da circa due mesi (il contratto a termine scadeva a fine maggio) all'ufficio stampa della Fiera del Levante di Bari. Era un periodo tranquillo, di intervallo tra le varie rassegne fieristiche, e ne approfittavo per preparare l'esame di diritto privato su un manuale raffinato e forse troppo complesso per studenti del primo anno di giurisprudenza.

Sembrava proprio una sonnacchiosa mattina come le altre, i viali della fiera deserti, gli uffici moderni con pochi commessi e impiegati, il rito del caffé alla macchinetta distributrice già consumato.

E invece la Storia ci stava venendo addosso con la forza di un autoarticolato senza freni.

Qualche impiegato, da qualche parte negli uffici ascoltava la radio, per ingannare il tedio di una mattinata di poco lavoro.

La notizia dilagò nei tre piani del centro direzionale della fiera, si materializzò una radiolina a transistor, dall'edizione speciale del GR1 e del GR2 (all'epoca diretto da Gustavo Selva, detto per i suoi orientamenti conservatori Gustavo "Belva", e così Radio-Belva il suo giornale radiofonico), voci concitate di cronisti in diretta da via Mario Fani raccontavano di auto crivellate di proiettili, agenti (cinque) trucidati in un lago di sangue, Aldo Moro rapito, scomparso, ingoiato chissà dove dal ventre della capitale.

Conoscevo le BR, come tutti quelli della mia generazione: era abbastanza fresco il ricordo delle prime azioni dimostrative e poi del rapimento del sostituto procuratore di Genova Mario Sossi e della sua liberazione dopo la "finta" liberazione di altri brigatisti finiti in carcere e in attesa di processo.

Negli ambienti della sinistra il giudizio era variegato: il PCI bollava i brigatisti come provocatori fascisti, l'ultrasinistra extraparlamentare li definiva, forse un po' affettuosamente come certi fratelli piccoli animati di buone intenzioni ma pasticcioni, "compagni che sbagliano". Quante discussioni con i compagni di Lotta Continua ricordo, io che da buon figgicciotto mi attenevo alla linea ufficiale e dicevo che no, non erano compagni, di nessun tipo, semmai oscuri figuri prezzolati legati alla destra eversiva e ai servizi segreti deviati, e loro che insistevano che il fine era giusto (la rivoluzione) i mezzi sbagliati perché la rivoluzione era insurrezione armata di massa non azioni dimostrative di piccoli gruppi.

Quella mattina, però, la dimostrazione di "geometrica" potenza militare del rapimento e della strage degli uomini della scorta metteva in scacco veramente lo Stato, le forze dell'ordine, la magistratura, tutte le istituzioni democratiche.

Lo smarrimento e l'incertezza erano palpabili, la risposta "democratica" (sciopero generale e cortei e manifestazioni contro il terrorismo in tutte le città grandi e piccole) voleva essere piuttosto un riflesso di rassicurazione che non la dimostrazione di una lucida e forte visione dell'ineluttabilità della sconfitta del terrorismo.

Ero uscito dalla federazione giovanile comunista da un paio d'anni, ma gravitavo nell'area politica della sinistra istituzionale, cioé comunista, e non ebbi alcuna difficoltà ad aderire alla parola d'ordine diffusasi sin dalle primissime ore: con lo Stato, contro le BR, nessuna trattativa, partito della "fermezza", costi quel che costi.

E non ricordo, salvo discorsi e iniziative del PSI di Bettino Craxi e di forze minori, che il partito della trattativa avesse una qualche effettiva risonanza sui giornali o nell'opinione pubblica, mentre l'ultrasinistra coniava uno slogan veramente odioso e insottoscrivibile: "Né con lo Stato, né con le BR" che, devo dirlo, mi ricorda tanto certi slogan paficisti unilaterali contemporanei, in cui riecheggia l'utopia che deponendo le armi i terroristi islamici ti facciano una carezza e diventino operatori di pace.

Furono cinquantacinque giorni lunghi, interminabili, scanditi di foto di Moro col drappo rosso e la stella a cinque punte dietro le spalle, comunicati veri e falsi (uno il n. 7 sulla falsa uccisione di Moro e il suo seppellimento nelle acque del lago della Duchessa), notiziari ordinari e straordinari dei Tiggi, incertezza, angoscie, discorsi dolenti di Papa Paolo VI (agli "uomini delle brigate rosse", con quell'appello a liberare Moro "semplicemente, senza condizioni" che forse e non per colpa del Papa, coartato dalla ragion di Stato, contribuì a chiudere ogni spiraglio e a far vincere l'ala militarista delle BR).

Poi, nella tarda mattinata del 9 maggio, un'edizione straordinaria del TG1 e del TG2, immagini mosse e sfocate di una R4 rossa col portellone posteriore forzato, il povero cadavere di Moro rannicchiato, con la barba lunga e un cappotto, e mio padre, moroteo sin nel midollo, che non avevo ancora mai visto piangere così, come un bambino disperato, e che avrebbe lasciato quel giorno ogni impegno politico, per sempre.

Quattro anni dopo, praticante procuratore legale di Nino Contento, grande penalista barese e allievo di Moro e di Renato Dell'Andro, varcavo la soglia dell'aula bunker in cui si celebrava il primo processo Moro, presieduto da un severo, sereno e autorevole presidente di Corte d'Assise, Severino Santiapichi.

Nelle gabbie ebbi modo di vedere i brigatisti e vidi non uomini e donne superiori e invincibili, ma individui del tutto normali, un po' grigi, banali, tutto sommato mediocri, di maldigerite letture marxiste-leniniste; ne fui deluso, lo confesso, pensando che quegli individui piccoli piccoli, le cui esistenze si sarebbero potute e forse dovute consumare in fabbrichette e uffici, tra conti della spesa e gite fuori porta in 127, avevano tenuto in scacco nientemeno che "lo Stato" e tutti i suoi apparati.

Erano questi i sedicenti eredi delle brigate partigiane? Erano questi l'avanguardia armata della lotta rivoluzionaria? Questi quelli che avevano rapito, ucciso, gambizzato, terrorizzato per anni e anni, e i cui nipoti, a distanza di altri anni, avrebbero ancora ucciso Massimo D'Antona (che ricordo mite e gentile commissario del mio concorso in magistratura) e Marco Biagi?

Molti di essi ora sono liberi, o semi-liberi, intervistati in occasione degli anniversari, coi capelli imbiancati, le rughe, l'aspetto rassicurante di uomini e donne sessantenni. E molti "illuminati" invocano per tutti una amnistia politica per i loro crimini, legittimando ora ciò che fu negato allora, ossia che fossero un partito armato, una forza rivoluzionaria con cui fare i conti e scendere a patti, proprio quel riconoscimento "politico" che forse, solo forse (ma è già tanto) avrebbe potuto salvare la vita a Moro (e a chissà quanti altri).

A vent'anni aderìì al partito della fermezza, e me ne vergogno da allora: perché il partito della fermezza fu anche quello in cui si annidarono contraddizioni e opacità, perché troppi furono i buchi investigativi, perché nei comitati di crisi siedevano uomini della P2 che avrebbero conosciuto poi arresti e inchieste, perché troppi interrogativi restano sospesi sui legami tra BR o una parte di esse e pezzi dei servizi segreti, forse non solo italiani, perché Moro fu un agnello sacrificale sull'altare della definitiva legittimazione democratico-atlantica del PCI e di un compromesso storico con la DC che fallì miseramente appena un anno dopo quel sequestro e aprì la strada al pentapartito, all'arroccamento berlingueriano nell'illusione della questione morale come unica risposta ad un cambiamento che si produsse per sfinimento, senza riforme, solo perché era caduto il sistema comunista e non servivano più i vecchi partiti, dalla DC al PSI al PRI al PSDI al PLI.

Mi piace ricordare Moro come lo vidi una mattina di sole, nel 1977, all'uscita dalla Prefettura di Bari: un uomo magro, sofferente, con una mano lunga bianchissima e un po' molle nella stretta che scompariva nel polsino troppo largo di una camicia.

A chi oggi celebra la grandezza di Andreotti come statista, vorrei ricordare che Moro, al confronto, era un gigante, con una visione lucida, che avrebbe potuto avviare la stagione delle riforme e cambiare il corso della nostra storia, e forse anche della storia internazionale.

Ma la Storia, si sa, non premia mai i migliori, spesso li travolge.

giovedì, marzo 01, 2007

BUON COMPLEANNO


Il blog, zitto zitto, ha compiuto un anno due giorni fa e gli dedico questa torta con l'eroe della mia infanzia.
Sono stato un accanito lettore di Topolino, quando era stampato su concessione della Walt Disney dalla "Arnoldo Mondadori" editore.
Memorabili le storie dei primi anni '70, bellissime quelle degli anni '60 rilette su qualche raccolta de "I classici di Topolino", straordinarie quelle degli anni '40 e '50 in un'opera "enciclopedica" che acquistai una quindicina di anni fa, in grande formato su carta patinata e che non sfoglio da troppo tempo.
Da bambino ricordo che sugli unici due canali in bianco e nero trasmettevano "Disneyland", un rotocalco, si direbbe ora, di documentari e cartoni animati, con la musichetta di "Viva Topolin", unico topo in grado di contendere la popolarità nazionale di Topo Gigio, autentico mattatore della TV dei ragazzi.
Di Topolino ricordo in particolare il numero 500, pubblicat0 domenica 13 agosto 1967.
Era una domenica d'agosto, calda ma non impossibile come le attuali ferie agostane, e mio padre accompagnò me e mia sorella da mia nonna, che abitava in un vecchio palazzo del centro di Bari, all'ultimo piano di ottantotto faticosi scalini.
Lungo la strada c'era un'edicola di giornali, e tra quotidiani e riviste campeggiava la copertina color oro del numero settimanale di Topolino, il cinquecentesimo, appunto.
Per l'occasione la rivista era chiusa in una busta di cellophan e regalava nientemeno che una farfalla vera, le cui ali impalpabili mi si sbriciolarono in mano al primo tocco.
Avevo colto un certo trambusto, in casa, quella mattina, ma beata ingenuità dell'infanzia di una volta, o forse solo mia, non ci avevo fatto molto caso.
Certo mi era parso un po' strano che di prima mattina mio padre si fosse premurato di accompagnarmi assieme a mia sorella dalla nonna; e ancor più strano che zia Romana, la sorella di mia madre che, rimasta nubile, viveva con la mia nonna ottuagenaria e "potente" ma dolcissima (oltre che, come le rimprovevo allora "petulante"), avesse fatto il percorso inverso, sempre di buon mattino, verso casa mia.
Rimasi quindi sbigottito quando, verso le due e mezza del pomeriggio, ci venne a chiamare una vicina di mia nonna, che non aveva il telefono, ed esterrefatto quanto all'altro capo del telefono della gentile vicina (in realtà erano due sorelle d'altri tempi, come le sorelle Materazzi, che erano proprietarie di parte del palazzo) sentii la voce di zia Romana che mi diceva che mi era nato un fratellino, chiedendomi se ero contento.
Lì per lì non seppi cosa rispondere. Ero, da sempre il piccolo di casa e mi sembrava strano che qualcuno si accomodasse al posto mio nel ruolo di piccolo di casa.
A sera, tornato a casa, scoprii questo strano "intruso" infagottato nelle fasce (non c'erano ancora i pannolini della Lines) con la testa pelata lunga lunga la pelle arrossata e arrognata di tutti i neonati le minuscole labbra aperte su gengive rosa sdentatissime e voraci di latte materno.
Mia madre era a letto, ma ci sarebbe rimasta per poco perché così si usava una volta, le mamme partorivano in casa e due giorni dopo, a dir tanto, erano di nuovo affaccendate nelle cose domestiche e nella cura della famiglia; ricordo che era stanca, un po' pallida, magra come sempre (anche incinta la "pancia" si era veramente vista solo negli ultimi due mesi).
Quel bimbo dalla testa pelata compie quest'anno quarant'anni; per me era più bello allora, ma ancora ora, quando lo guardo, non riesco veramente a dimenticare il bimbo che è stato, i suoi pugnetti stretti, la bocca sdentata.
Buon compleanno blog. A te e, in anteprima, a lui.