mercoledì, maggio 13, 2009

IL DEBITO DELLA VERITA'




Ieri sera, in tarda serata, su RAI 2 è stato ritrasmessa una puntata, a cura di Gianni Minoli, dedicata all'omicidio di Luigi Calabresi, con una ricostruzione accurata del fatto e del contesto e testimonianze di Gemma e Mario Calabresi, Panza, Mughini, D'Ambrosio e altri che in modo diverso furono "persone informate dei fatti".


Avevo letto un anno fa il libro di Mario Calabresi "Spingendo la notte più in là", che muovendo dalla dolorosa esperienza personale (l'autore aveva appena quattro anni al momento dell'assassinio del padre) e dai ricordi di come una tragedia personale abbia pesato sulla sua vita eppure non lo abbia piegato a logiche di rancore e risentimento, allargava lo sguardo ad alcuni familiari di vittime del terrorismo, persone minute di cui si perde prestissimo ogni memoria.


Pochi mesi fa ho letto "La notte che Pinelli", il saggio puntiglioso con cui Adriano Sofri ricostruisce le settantadue ore del ferroviere anarchico (era un "frenatore") nelle stanze della questura di Milano, ripropone i dubbi sugli esiti dell'indagine sulla sua morte, riepiloga -per vero in modo abbastanza sommario- la campagna di stampa di Lotta Continua contro il commissario Calabresi e le vicende del processo per diffamazione intentato contro il direttore del giornale.


Il 13 dicembre 1969 avevo poco meno di dodici anni, eppure ricordo bene le immagini del telegiornale e il grande buco nero sul pavimento del salone della Banca nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana, le foto e le immagini di Pietro Valpreda arrestato, il viso del commissario Calabresi, lo scalpore per la morte di Pinelli.


Il 17 maggio 1972, il giorno dell'omicidio di Calabresi, ero più grande e consapevole, e sopratutto avevo esperienze di prima mano sui cortei e gli slogan contro Calabresi e in generale sulla "strage di Stato" rimata con "Feltrinelli assassinato".


Capisco il punto di vista di Adriano Sofri, ma credo che nel suo libro, peraltro scritto bene e documentato, manchi veramente una parola piccola e sincera, un'ammissione senza se e senza ma di aver scelto un uomo e di averne fatto un simbolo, e quindi un bersaglio per pallottole che, sia o meno venuto un ordine esplicito o implicito dal leader di LC, comunque recavano una firma morale e politica inequivocabile.


Quell'assassinio, piaccia o non piaccia, ha aperto la strada della c.d. lotta armata, cioé dell'omicidio politico perché ha indicato come da parole generiche e astratte rivoluzionarie si potesse passare ad azioni concrete contro persone "emblematiche": se non sei in grado di uccidere lo Stato con la rivoluzione, almeno puoi far fuori gli uomini che stanno dalla sua parte, ne sono funzionari, lo servono.


E' questa la consapevolezza che è mancata in Sofri e in tanti della sua generazione, è questo il motivo per cui, ancora oggi, non sembra possibile chiudere con un gesto politico di amnistia la stagione delle stragi e del terrorismo.


Se però in qualche modo i silenzi e le omissioni di Sofri su questo punto sono comprensibili (eppure non giustificabili), quello che mi indigna è che, invece, nessuna riflessione critica vera, a parte quattro "ritrattazioni", è mai stata formulata dai tanti "intellettuali" che sottoscrissero l'appello e in realtà l'atto di accusa, l'imputazione, pubblicata da L'Espresso il 13 giugno 1971, cioé poco più di un anno prima dell'omicidio di Calabresi.


Certo molti del 757 firmatari non saranno più in questo mondo, altri saranno vecchissimi e avranno dimenticato, ma tanti ci sono ancora, a cominciare da Eugenio Scalfari, e in trentotto anni non hanno trovato tempo né voglia per dire: mi dispiace, forse allora sottoscrissi un documento che costituiva una sentenza politico-morale di condanna che, dato il clima e i tempi, era una condanna alla pena capitale, era un'assoluzione preventiva per quanti avessero fatto "giustizia di popolo".


E' questo ruolo oscuro e vischioso di molti intellettuali, che da colonne di giornali, cattedre universitarie, scranni parlamentari, inseguivano il pensiero comune, anziché cercare di formare coscienze democratiche, blandivano i movimenti e ne stimolavano progetti velleitari di rovesciamento violento dell'ordine politico e sociale, anziché indicare la strada del confronto democratico, che ha fatto anche da brodo di coltura del terrorismo e ha bruciato la peggio gioventù e anche qualche pezzo consistente della meglio gioventù.


Magari sono i cattivi maestri che poi si sono trovati una nicchia profumata e comoda nella società dell'informazione o che sono diventati direttamente e francamente aedi del berlusconismo: chierici allora e chierici oggi, all'insegna dell'eterno "Franza e Spagna purché se magna".


Come ci si può meravigliare se non si riesce a fare i conti e chiuderli con le vicende del 43-45, se in un contesto tragico ma di minor impatto storico, politico ed esistenziale, non si riesce a chiudere i conti con il periodo delle stragi e del terrorismo?


E così la memoria diventa un buco nero, tra generazioni che hanno vissuto e non riescono a dire "abbiamo sbagliato" e generazioni che non sanno e non vogliono conoscere.


E in questo buco nero che assorbe ogni luce di verità e coscienza, precipita anche la coscienza civile di un paese che inscena ogni giorno talk show e non veri dibattiti, dichiarazioni e parole d'ordine effimere, profluvi di parole che obsolescono da un giorno all'altro, perché tutte centrate sull'adesso e ora, una via l'altra.


Sullo sfondo rimangono due fotografie in bianco e nero, due uomini i cui destini si sono tragicamente intrecciati, due padri che non hanno potuto vedere crescere i figli, né abbracciare i nipoti.


A loro, tra i tanti, bisogna chiedere scusa, e non dimenticarli.


Onore a Luigi Calabresi e Pino Pinelli.

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