giovedì, dicembre 24, 2009

ALLE RADICI, RICORDANDO SEMPRE GLI ULTIMI

Ho postato i brani del vangelo di Luca che ricordano la nascita di Gesù perché solo così, andando alle radici del Natale, e ricordando che non è più da due millenni solo la festa pagana del Sol Invictus, gli si può restituire il significato autentico, che va oltre le vuote cerimonie degli sms augurali, dei regali, dei cenoni, che invece servono solo a fissare un punto nell'anno in cui riconosciamo quanto abbiamo bisogno degli altri e degli affetti più cari (ma è già qualcosa).Nei telegiornali e sui giornali si affollano, in significativa contrapposizione, immagini di acquisti, viaggiatori inferociti da attese interminabili tra stazioni, porti e aeroporti, barboni che cercano di sfuggire alla morsa mortale del freddo, operai che non hanno proprio nulla da festeggiare perché sull'orlo di casseintergazioni, mobilità, prepensionamenti, licenziamenti.Se Gesù nasce povero, senza casa, senza una culla vera senza riscaldamento, riconosciuto per quello che è solo da pastori ignoranti, allora la povertà ha veramente una sua dignità regale; tanto regale che il senso del donare agli altri (ricordate San Martino) sta ne farsi più poveri, nel condividere la povertà, nell'esser grati ai poveri perché, privandosi di qualcosa, facendosi un pochino poveri, ci si fa in qualche modo simili a loro, che poveri non sono se non nelle cose materiali, se invece stanno nel cuore di Cristo, come stanno.Così, in questo Natale, non ho voglia di fare auguri formali di alcun tipo, e vorrei stare fisicamente vicino ai poveri, cioé ai malati, ai disoccupati, ai precari, agli extracomunitari agli angoli delle strade, ai barboni, agli operai che perdono il posto, a tutti quelli per cui un Dio unico e vero, nella sua infinita tenerezza paterna, s'incarna non in una reggia ma in una capanna, indifeso, al freddo, povero tra i poveri.Buon Natale a loro, e a tutti quelli che li amano e li servono

DAL VANGELO DI LUCA

1)In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. (2)Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. (3)Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. (4)Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, (5)per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. (6)Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. (7)Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.
(8)C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. (9)Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, (10)ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: (11)oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. (12)Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». (13)E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva:

(14)«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama».

(15)Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». (16)Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. (17)E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. (18)Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. (19)Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.

(20)I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.

sabato, ottobre 31, 2009

la folla dei quaquaraqua


Un film ch rivedo sempre molto volentieri, tutte le volte che lo trasmettono su qualche rete televisiva nazionale o regionale e che riesco ad "acchiapparlo", è "Il giorno della civetta", tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia.

Oltre l'intreccio della storia, esemplare racconto di mafia della Sicilia tra gli anni '50 e '60, i personaggi che la animano sono veramente straordinari e gli attori che li interpretano praticamente perfetti: dal volto chiaro, pulito, baffuto del capitano dei C.C. Bellodi, un giovane Franco Nero in una delle sue più felici interpretazioni, ad una splendida e intensa Claudia Cardinale, vedova inquieta di lupara bianca, all'ambiguo e filosofo confidente "Parrineddu", nell'impareggiabile resa di Serge Reggiani, al grande boss Don Mariano Arena l'attore americano Lee J. Cobb (interprete tra l'altro del malavitoso boss di "Fronte del porto" e dell'irriducibile colpevolista del film "La parola ai giurati"), sino alle figure di contorno di Pizzuco e Zecchinetta.

La storia è nota: un piccolo imprenditore edile, Colasberna, viene ammazzato con un colpo di lupara in una desolata e pietrosa campagna siciliana, e un suo lavorante, Nicolosi, scompare lo stesso giorno.

Il capitano Bellodi, comandante della locale stazione dei carabinieri, capisce subito che non si tratta, come la voce pubblica alimentata artatamente dai mafiosi locali, di un delitto d'onore o di storie di corna, benché Nicolosi abbia una splendida moglie Rosa, che vive nella vana speranza che il marito ricompaia, e sulla quale si appuntano gli sguardi libidinosi degli uomini del paese.

Il confidente Parrineddu, che gioca una personale partita cercando di assicurare un equilibrio tra Stato e Anti Stato, suggerisce, allude, ma si guarda bene dal dire quello che sa, sinché messo alle strette da Bellodi, confessa che Colasberna e Nicolosi sono stati ammazzati il primo perché era un concorrente pericoloso dell'impresa del mafioso Pizzuco, il secondo perché imprevisto testimone del delitto; e che la lupara del delitto è stata nascosta nel luogo più sicuro del paese, nientemeno che la casa di Don Mariano Arena, incontestato boss locale, in rapporti di "amicizia" con onorevoli che siedono al parlamento.

Autore materiale del delitto è un piccolo delinquente locale con la mania del gioco d'azzardo, perciò soprannominato Zecchinetta.

Bellodi arresta tutti, proprio nel giorno dell'inaugurazione di un'importante strada realizzata da Pizzuco; ma poi l'inchiesta viene "aggiustata", i mafiosi sostengono che le confessioni sono state estorte, finiscono tutti scarcerati con le migliori scuse del disturbo arrecato, e il povero Bellodi viene trasferito, mentre Parrineddu finisce ammazzato e seppellito, con un tappo in bocca, sotto la colata d'asfalto della strada inaugurata in pompa magna dall'onorevole amico di Don Mariano.

Al suo posto arriva un ufficiale corpulento, dai tratti un po' bovini, una "brava persona" commentano i mafiosi che se lo guardano dalla terrazza di Don Mariano Arena, "un viso aperto", "uno che tiene famiglia".

Ma Don Mariano Arena, che ha un suo sia pur deviato senso dell'onore e del rispetto, e che sa riconoscere cose e uomini, lo guarda sprezzante e dice che "Bellodi era un uomo, questo mi sembra un quaquaraqua", con i mafiosetti minori che starnazzando come oche gli fanno eco quaquaraqua, quaquaraqua, quaquaraqua".

Così si chiude questo grande film di Damiano Damiani, che risale ormai a quarantuno anni fa, e che, caso abbastanza raro, riesce veramente ad essere all'altezza del grande romanzo di Sciascia da cui è tratto.

Perché mi è venuto in mente stamattina questo film e questo romanzo?

Una delle cose più interessanti del romanzo (e ovviamente del film) è la particolare classificazione che Don Mariano Arena, al momento dell'arresto, offre al capitano Bellodi.

Il discorso è pressappoco questo:

"Vede capitano, io divido l'umanità in cinque categorie: rarissimi sono gli uomini, e rari i mezzi uomini; sotto di questi stanno gli ominicchi, bambini che fingono di essere uomini; una razza a parte sono i ruffiani, che stanno diventando una vera folla; e al fondo della scala ci sono i quaquaraqua, che starnazzano come le oche del cortile e che sono la maggioranza. Ma lei, anche se mi arresta, è un uomo".

In questi mesi (o dovrei dire anni?) in cui molta parte della politica e del giornalismo è ridotta a chiacchiericcio quotidiano, dichiarazioni che non valgono i pochi centesimi della carta su cui sono stampate, gossip guardoni, totale decadenza dell'etica pubblica e della morale privata, nel confuso vociare dei protagonisti della scena mediatica e delle trasmissioni di cosiddetto approfondimento giornalistico (?!), nessuna esclusa, a nessun livello, da quello locale della mia città a quello nazionale, a me sembra di cogliere l'eco della indimenticabile scena finale de "Il giorno della civetta", quando i mafiosetti che circondano Don Mariano Arena, e che sono a loro volta degli autentic quaquaraqua, si danno a starnazzare proprio come oche il loro grido di esistenza.

Quaquaraqua, quaquaraqua, quaquaraqua.

venerdì, settembre 04, 2009

A MIA MADRE

Occhi opachi e sbiaditi
specchiano i miei occhi,
e guardano distratti
un orizzonte non ancora
rischiarato dalla luce
delineato come linea d'ombra
e di ombre popolato
E le foto del passato
che restituisono brandelli di vita
sono istantanee della memoria,
la sua che appassisce
la mia che s'angustia
per afferrare almeno un poco
il senso vivo del ricordo
Ma nelle vene sue stanche e sfiancate
e nelle mie precariamente sane
(ancora ora e qui, ma poi chissà)
scorre lo stesso sangue vermiglio
e la sua carne è mia
e la mia carne è sua
perché lei mi appartiene dalla sera lontana
in cui mi diede scintilla di vita
e io le appartengo da quella sera e per
ogni istante di tempo
Si dovrebbe varcare sempre insieme
la soglia irreparabile
e ritrovarsi aldilà, nella luce o nell'ombra che sia
perché separarsi è impossibile davvero
senza perdersi
e sopravvivere è solo un frattempo
per ritrovarsi nella luce o nell'ombra

venerdì, luglio 31, 2009

Da piazza Fontana ad oggi: le radici del disastro

Ho finito di leggere il "monumentale" saggio di Paolo Cucchiarelli dedicato a "Il segreto della strage", edito da Ponte alle Grazie, che fatica a conquistare posizioni nelle classifiche dei saggi più venduti.
Certo un libro di oltre seicento pagine, fitte di fatti, nomi, persone, ricostruzioni, ipotesi ragionate, non è, per sua natura, destinato ad un pubblico amplissimo di lettori; e l'argomento, ormai storicizzabile (dalla strage di Piazza Fontana sono passati ormai quarant'anni, l'anniversario cade il 12 dicembre 2009), richiede una conoscenza, più o meno diretta, del contesto storico, nazionale e internazionale, che non può richiedersi a chi abbia meno di cinquant'anni, e che dunque quegli anni dal 1969 in poi abbia se possibile vissuto in presa diretta.
Eppure il libro, magari in una edizione ridotta, meriterebbe di esser letto anche e sopratutto dai "giovani", se vogliono capire qualcosa dell'Italia in cui vivono, e del modo in cui la storia di questo paese è stata più volte risospinta sul terreno dell'arretratezza economica, politica, culturale, delle riforme mai fatte, della modernizzazione mai attuata, di come, insomma, un paese uscito distrutto dall guerra e che pur seppe risollevarsi con gli aiuti americani e la tenacia laboriosa del suo popolo, sia potuto approdare all'attuale stagnazione paludosa, con una classe politica vecchia, consunta, logora e inadeguata, con classi dirigenti incapaci e rapaci, con una società civile frammentata, litigiosa, priva di orizzonti ideali, in fondo conforme alla sua classe politica e alla sua classe dirigente nel verbalismo vacuo delle finte indignazioni, nell'ipocrita declinazione di inesistenti virtù pubbliche e di tangibili e incontenibili vizi privati che quelle vrtù pubbliche minano e corrompono.
Se Cucchiarelli ha ragione (e temo che abbia ragione) in fondo tutto nasce proprio da quella strage, dalla sua "doppiezza" (bombe anarchiche, che non avrebbero dovuto far morti, affiancate a bombe fasciste che, nella combinazione, produssero la strage), dalla conseguente inconfessabile verità e dalla fissazione di una verità di "comodo", accettata anche dalla sinistra storica ed extraparlamentare, che pure finì per offrire un alibi al terrorismo brigatista, dall'onda lunga del progetto di stabilizzazione autoritaria che costituiva il "core business" di piazza Fontana, che travolse anche Aldo Moro, dal successivo "accomodamento" dei governi di centrosinistra degli anni '80, con l'incapacità di avviare le riforme strutturali di cui il paese aveva bisogno, e quindi dal crollo del vecchio sistema dei partiti, con il tramonto dei regimi dell'Est, dalle "manovre" internazionali che certamente sostennero la "falsa" rivoluzione di tangentopoli, dalla riorganizzazione di un blocco moderato attorno a Berlusconi e dall'emersione di un partito territoriale che è riuscito a conquistare anche i c.d. ceti popolari, dal fallimento di una classe politica di governo di centrosinistra dominata ancora da figure vecchie e incapaci di concepire la politica altro che come gestione degli interessi, semmai in larga misura asservita agli interessi forti o addirittura direttamente partecipe di quegli interessi.
Le vicende pugliesi di questi ultimi mesi sono esemplari, nell'intreccio di vecchie furbizie politiche, populismi e caudillismi, mala sanità, mala politica, malaffare, che enfatiche declamazioni para-poetiche non riescono più ad addolcire e tanto meno a nascondere.
In poco più di un mese si è passati dalle acclamazioni frettolose di una "storica" vittoria, alle furibonde litigate sulla segreteria del PD, dalle improvvide dichiarazioni sulla Puglia come "laboratorio politico" (in cui la "grande idea" era d'imbarcare in maggioranza l'UDC casiniana, nelle sue varianti locali), alle sferzanti e ruvide parole sull'avventatezza di una inchiesta giudiziaria (le inchieste "non avventate" sono sempre quelle che riguardano gli altri, ovviamente), dalle dimenticate promesse di sciogliere il cumulo tra incarichi istituzionali e incarichi di partito alla rivendicazione del cumulo, come sia e purchessia, passando attraverso aperture a nuovi movimenti localistici che si propongono di costruire una sorta di Lega Sud trasversale, che sembra più che una coerente declinazione di un nuovo meridionalismo un tentativo di costruzione di un "nuovo notabilato" meridionale che possa giocare ancora un ruolo politico nazionale, naturalmente senza una vera idea di sviluppo del paese nel suo complesso, accettando il gioco leghista e rilanciandolo.
All'origine della "miseria" della politica attuale, di cui in fondo le "esuberanze" cavalieresche sono la parte pittoresca, non certo quella più rilevante e allarmante, stanno i fatti (e i non fatti) di quarant'anni fa, che hanno indirizzato in un certo modo la storia nazionale, in un modo che non si è saputo o voluto raddrizzare.
Ma il vero e risorgente pericolo di questa fase è che una classe politica declinante e percorsa a destra, al centro e a sinistra, da scandali di ogni tipo, cada una volta di più sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, lasciando che i soliti poteri "forti" s'incarichino di gestire un altro rinnovamento, che rischia di essere fittizio come quello seguito a tangentopoli, aprendo la strada ai soliti "tecnocrati" per una transizione che rischia poi di riconsegnare il paese a figure nuove confezionate ad hoc, in una spirale senza fine.
Cambiare tutto perché non cambi niente, secondo il vecchio insegnamento del principe di Salina.

sabato, luglio 18, 2009

Le nuove categorie della politica

La nuova "pasionaria" piddina, Deborah Serracchiani, ha sdoganato quale nuova categoria della politica la "simpatia" e la "antipatia".
Intendiamoci, sono pulsioni istintive, emotive, spesso inconsapevolmente sottintese a un ragionamento e ai rapporti sociali, dall'amicizia ai luoghi di lavoro, e forse possono spiegare, più e meglio di articolate analisi su sistemi di valori e progetti politici, l'avversione o l'adesione a un'idea quando essa s'incarna, come è quasi inevitabile, in un uomo-simbolo.
In fondo, grandi "antipatici" sono stati De Gasperi, Togliatti, Fanfani, La Malfa, Craxi, De Mita, Forlani, Scalfaro...; mentre invece grandi "simpatici" sono stati Pertini, Berlinguer, Nenni, anche Andreotti con le sue arguzie, e per venire ai giorni nostri, se vogliamo è anche sul crinale antipatia/simpatia che si situano Berlusconi in massima misura, e in parte più piccola Bossi e Di Pietro, mentre dalla parte degli antipatici stanno decisamente D'Alema, Tremonti, Gasparri, Quagliariello e via così.
Anche nel "ridotto" pugliese non può dirsi che la dicotomia non giochi il suo ruolo: Michelone Emiliano, con il suo corpaccione che ricorda la pubblicità della Ferrero ("gigante pensaci tu"), è certo simpatico, mentre è difficile che non sia antipatico Raffaele Fitto, per non dire di Simeone Di Cagno Abbrescia, mentre Nicki Vendola è un po' double face: può risultare simpatico o antipatico, secondo che affabuli di valori o ragioni di politica.
Però la categoria della simpatia non era sinora mai assurta a criterio obiettivato di scelta di un segretario di partito; non si era mai sentito che la giustificazione di una scelta di schieramento fosse riposta nell'istintiva pulsione di empatia che lascia presupporre un sentire comune (come è appunto la simpatia).
Quando la quarantenne d'assalto multipreferenziata ha dichiarato che sceglieva Franceschini perché simpatico, è stata quasi sommersa da una salva di fischi e contumelie; eppure, in fondo, ha espresso soltanto il punto dei vista dei "giovani", di quei giovani di cui tutti i partiti "liquidi" della seconda repubblica cercano d'intercettare i consensi, rivendendosi furbescamente il "giovanismo" come valore aggiunto, salvo a dare poco o nessuno spazio alle quote "verdi".
E' evidente che Franceschini è "simpatico", in questo senso, ben più che Bersani: con la sua zazzeretta da bravo ragazzo di college americano, le camicie con le maniche rimboccate sui polsi, l'aria informale, questo cinquantenne può rappresentare nell'immaginario giovanile qualcosa che ricorda, in piccolo s'intende, il fenomeno Obama, che tra i giovani, i blog, la rete, ha costruito la sua identità politica.
Bersani, al contrario, con la sua più che incipiente calvizie, i tratti netti, il curriculum piccino-pidiessino-diessino, l'appoggio dell'antipatico per eccellenza D'Alema, sembra emergere dal passato lontano e dal milieu delle sezioni di partito, delle cooperative rosse, delle case del popolo, delle olivetti lettera 82, dei vecchi ciclostili.
Sin qui non meno scandalo delle dichiarazioni della Serracchiani che interpreta, non so se ingenuamente o furbescamente, il ruolo di voce delle nuove generazioni, e quindi anche delle loro pulsioni pre-politiche, o a-politiche, l'idea di una politica fatta solo di emozioni, immagine, youtube, internet, facebook, concerti a seguire brevissimi comizi, incontri in comitati elettorali dove si beve a sbafo (non è accaduto anche a Bari?).
Dove però la Serracchiani è scivolata, in modo rovinoso, è nella sua ultima esternazione, in cui immagina e rivendica un partito democratico dove ci sia spazio per tutti, da Beppe Grillo alla Binetti.
La ragazza, in sostanza, vorrebbe un partito che sia come una di quelle scatole di cianfrusaglie da soffitta, dove si tiene un po' di tutto, dalle foto della scuola e delle gite scolastiche, a vecchie lettere d'amore, ad una fionda, alle biglie colorate, a qualche ingiallita tessera di movimenti giovanili.
Una scatola che ha valore più come contenitore che per il suo contenuto, che dovrebbe esser "ricca" solo perché contiene di tutto e di più.
Si dirà che anche il PdL è un partito-scatola, che dentro ci sono sia Tremonti, vicino alla Lega, che Cicchitto, ex socialista con tessera P2, sia Quagliariello, ex radicale, che Bondi, ex comunista, sia Pisanu (vecchio moroteo) che la Savino, la Carfagna e le altre "bellone" del Capo.
Verissimo, ma lì c'è qualcuno che, nel bene e nel male, porta la scatola, e lo sguardo corre a lui, non alla scatola, anzi la scatola ha un senso ed esiste come tale solo perché esiste il Grande Inscatolatore.
Nel Pd scatolare, invece, nella scatola, alla rinfusa, ci finirebbero tutti, ma proprio tutti, e siccome non c'è tanto spazio e ognuno ne vorrebbe uno minimo vitale, la scatola dalle fragilissime pareti alla fine cederebbe, come certe scatole da scarpe quando anziché un paio, ne vuoi fare entrare due.
L'idea, ingenua o forse furbesca, della Serracchia è così di conglobare nel PD tutte le pulsioni, da quelle populiste vero-finto-moraliste-indignate a quelle riformiste-idealiste, a quelle realiste-politiciste, a quelle ideologico-valoriali, nell'ambizione di voler rappresentare, "totalitariamente", tutti gli umori della società italiana.
In effetti, a ben guardare, è il modello vecchio del partito di massa e interclassista, cioé della vecchia DC o del PCI emiliano-romagnolo, che peò avevano il collante dell'ideologia, a rinforzare le pareti delle scatole.
Deborah Deborah, se questa è la tua idea della "nuova" forma partito, sei un po' più vecchia dei quarantanni che l'anagrafe certifica.

venerdì, giugno 19, 2009

SE QUARANTANNI VI SEMBRAN POCHI PER UNA SCOMODA VERITA'


Quarant'anni sono un tempo lungo e per misurarlo nella sua profondità basta pensare che nel 1959 erano passati quaran'anni dal 1919, ossia da uno degli anni del "biennio rosso", in cui andava formandosi e irrobustendosi il partito fascista, che nel 1969 erano andati quarant'anni dai patti lateranensi, che chiudevano il sessanennio della "questione romana", che nel 1979 si celebravano i quarant'anni dall'inizio (agosto 1939) della seconda guerra mondiale con l'invasione nazista della Polonia.


In questo turbolento 2009, segnato dalla crisi economica mondiale e dalle miserie dello scenario politico italiano, cade il quarantennale dell strage di Piazza Fontana, il primo grande avvenimento (dopo l'assassinio dei due Kennedy) di cui posso dire di avere memoria diretta, anche se delineata nell'inquietante gioco di luci e ombre del bianconero dei telegiornali dell'epoca.


Di quelle immagini della sera di venerdì 12 dicembre 1969 conservo il ricordo del buco nero sul pavimento del salone centrale della Banca nazionale dell'Agricoltura, del salone cosparso di detriti, da cui erano già stati portati via i morti e i feriti, e lo sgomento di un fatto che, ai miei occhi di undicenne, era paurosamente prodigioso e inspiegabile.


Anche le foto della scena del crimine sono in bianconero, che è il colore del ricordo e che, nel contrasto tra luci e ombre, non restituisce ma paradossalmente attenua la cruda verità che apparve agli occhi di polizia, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri: le pareti chiazzate di sangue, frammenti di ossa e di materia cerebrale, i corpi anneriti dei morti, i pezzi anatomici sparsi, il colore della vita annientata o segnata per tutta la vita.


E le foto non dicono gli odori di quella scena, dall'acro della nitroglicerina uguale ai disinfettanti di ospedale al dolciastro della carne bruciata, al sentore di mandorle amare del binitrotoluolo (che era uno dei composti dell'esplosivo).


Leggo da qualche giorno "Il segreto di piazza Fontana" di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle grazie), forse il saggio più completo e documentato sulla strage e sugli attentati che nello stesso giorno colpirono Roma (sotterranei della Banca nazionale del Lavoro, Altare della Patria, pennone e lato Museo del Risorgimento, mentre la bomba alla Banca commerciale di Milano, probabilmente destinata non a scoppiare ma a lasciare una "firma" che servisse alla connotazione politica fu fatta frettolosamente brillare nel cortile di quell'istituto di credito).


E' un librone di 700 pagine (compresa una nota tecnica sul tipo di esplosivo utilizzato a piazza Fontana, i ringraziamenti, il fittissimo indice dei nomi), zeppo di riferimenti analitici anche tecnici (il tipo di borse utilizzate e le cassette che contenevano le cariche esplosive, ad esempio), molto diverso nell'impianto e nella narrazione da "La notte che Pinelli", il saggio con il quale Adriano Sofri ha ricapitolato la vicenda del ferroviere anarchico che precipitò da una finestra della Questura di Milano e i suoi sviluppi giudiziari; e ancora diversissimo dal lucido e tenero ricordo di "Spingendo la notte più in la" che ha proposto la inedita prospettiva delle vittime dei fatti di terrorismo, a partire dal ricordo di Mario Calabresi, che perse il padre quando aveva appena due anni eppure conserva un ricordo puntuale di quei giorni.


Il segreto della strage, nella lucida e argomentata ricostruzione di Cucchiarelli, è nel fatto che essa fu una strage "doppia", in cui furono coinvolti gli anarchici, convinti di fare una esplosione solo "dimostrativa" e in realtà attirati in una trappola dai fasciti di Ordine nuovo (Freda, Ventura, e il loro gruppo veneto-padovano) e di Avanguardia nazionale (Stefano Delle Chiaie), a loro volta manovrati da una parte dei servizi segreti, che voleva attentati eclatanti ma dimostrativi per sostenere un disegno di svolta autoritaria, sul tipo di quello che aveva portato al potere i colonnelli greci, ma dove qualcuno giocò sporco, cercando invece proprio la strage, per forzare ancora di più la mano, ottenendo invece l'effetto contrario di fermare la svolta autoritaria, alimentando soltanto la teoria, comunque politicamente utile, degli "opposti estremismi".


Vale la pena riportare un brano del libro:


"Il segreto della strage ha resistito per tanti anni godendo del silenzio di tutti i soggetti interessati: Stato, fascisti e anarchici. Questi ultimi dovevano scagionare Valpreda e rivendicare l'innocenza di Pino Pinelli. Si erano fatti tirare dentro, e ora la situazione non lasciava alcuno scampo politico: difficilmente sarebbe stata dimostrabile nelle aule di tribunale la loro buona fede di non voler causare morti. Da un punto di vista giuridico, la partecipazione degli anarchici alla vicenda sarebbe stata quantomeno un concorso in strage. Gli apparati che si erano resi colpevoli di connivenza coi fascisti dovevano a loro volta tutelarsi. Né poteva saltar fuori il ruolo di polizia politica che i servizi segreti svolsero -coprendo e depistando, facendo fuggire testimoni e occultanto o sottraendo prove- pur di tenere in piedi il tornaconto che la strage aveva offerto. Altrettanto prioritaria era l'esigenza di sottrarre alle condanne i veri responsabili materiali della strage, i fascisti. Avrebbero altrimenti potuto dispiegare un incredibile ricatto nei confronti di chi, all'interno degli apparati, aveva sostenuto l'operazione. Cosa che difatti accadde con le successive stragi. Salvando il segreto della strage, si salvavano anche i fascisti. Ecco perché probabilmente alla strage di Stato seguirono, su entrambi i fronti, le assoluzioni, altrettanto di Stato. Se si fosse distinto tra una borsa e l'altra, tutti sarebbero stati costretti ad ammettere pubblicamente qualcosa di inconfessabile. La trappola in cui erano caduti gli anarchici, che la sinistra doveva difendere a tutti i costi, era diventata ormai un segreto politico condiviso da tutelare. Da parte di tutti i soggetti interessati. Dentro quella trappola è così caduta un'intera generazione".


In pratica secondo Cucchiarelli, quel pomeriggio di venerdì' 12 dicembre 1969 tra le 16 e le 16.25 nel salone della BNA entrarono due persone, in momenti diversi: la prima, Valpreda, aveva una borsa contenente una cassetta metallica con esplosivo innescato da un timer (probabilmente era convinto che la "corsa" del timer fosse regolata a 120 minuti, e quindi che la bomba sarebbe esplosa a banca ormai vuota); la seconda con una borsa contenente esplosivo al plastico a innesco con miccia, che collocò la sua borsa sul ripiano del tavolo ottagonale centrale vicino a quella che aveva lasciato l'inconsapevole Valpreda; fu quest'ultima bomba a esplodere per prima attivando in una manciata di decimi di secondo anche la prima bomba, che era munita di un detonatore esterno; nessuno percepì due esplosioni, perché esse furono quasi istantanee.


La ricostruzione, argomentata e documentata, è del tutto verosimile, ed ha il pregio di mandare a posto praticamente tutte le tessere del mosaico.


Se posso aggiungervi un'impressione personale, direi che è abbastanza coerente con l'immagine di pochezza e sprovvedutezza che ebbi di Pietro Valpreda quando una sera autunnale del 1976 (o del 1977? qui il ricordo non mi conforta bene), andai con un altro colaboratore d Bari Radio Uno a prenderlo al palazzo dell'Ateneo di Bari, in un'aula della facoltà di lettere dove si svolgeva una infuocata assemblea proprio su piazza Fontana, per portarlo sino all'ottavo piano di via De Giosa con angolo piazza Luigi di Savoia via Carulli dove erano gli studi di Bari Radio Uno.


Quella serà andò in onda una intervista radiofonica condotta da Carlo Brienza, all'epoca direttore di Bari Radio Uno, e mi pare di ricordare che ci fossero anche Peppino Garibaldi, Bianca Tricarico, Fortunata Dell'Orzo, forse Susanna Napolitano, e chiedo venia se dimentico qualcuno.


Io non ebbi modo (ero uno degli ultimi arrivati nella redazione) di fare domande a Valpreda, ma lo vidi bene, lo osservai, ascoltai le sue risposte, sopratutto sul ruolo di Mario Merlino, il fascista infiltratosi nel circolo XXII Marzo fondato da Valpreda a Roma.


L'impressione che ne ricavai fu di una persona modesta, veramente modesta per intelligenza generale e politica, cultura generale e politica, del tutto inadeguata al ruolo che gli era toccato in sorte, e però qualcosa in lui non mi persuase del tutto; non riuscivo a scorgerne le stimmate del martire, dell'innocente assoluto predestinato a fare da capro espiatorio.


Fu una impressione vaga, che è rimasta sempre sepolta, e che mi torna alla mente rileggendo le pagine di Cucchiarelli.


Se l'ipotesi del libro è esatta Valpreda fu complice attivo (ma inconsapevole degli esiti mortali che non immaginava e non avrebbe voluto) della strage, fu l'uomo che, assieme agli altri anarchici, cadde nella trappola, e che aveva tutte le caratteristiche di sprovvedutezza e pochezza per diventare strumento di un disegno raffinatssimo che non poteva comprendere, nella sua mediocrità e inadeguatezza, come non lo poté capire, se non quando la strage fu cosa fatta e irreversibile, Giuseppe Pinelli.


Temo che Cucchiarelli possa aver visto giusto dopo dieci anni di ricerche, consultando tutte le fonti disponibili e anche qualche fonte orale informata dei fatti.


Se è così, in quella trappola siamo davvero caduti tutti quanti e la storia degli ultimi quarant'anni va riscritta a partire da questa scomoda verità.

lunedì, giugno 15, 2009

FACIMME AMMUINA

E' un riconoscibile falso il celebrato articolo 27 del Regolamento della Marina borbonica del 20 settembre 1841, secondo il quale, in occasione di ispezioni e visite a bordo di altre autorità, per dar l'impressione che si facesse qualcosa di operoso, attivo, importante, gli imbarcati dovessero fare "ammuina"; ossia, come avrebbe prescritto quel regolamento in pura lingua partenopea: "tutte chille ca stanno a prora, vann'a poppa e chille ca stann' a poppa vann'a prora; chille ca stann'a dritta vann'a sinistra e chille ca stanno a sinistra vann'a dritta; tutte chille ca stanno abbascio vanno 'ncoppa e chille ca stanno 'ncoppa vann'abbascio, passanno tutte p' 'o stesso pertuso; chi nun tene nient' 'a fa' , s'aremen' 'a ccà e 'a là ".
Però si deve esser grati a questo falso, di probabile ispirazione antiborbonica, perché descrive in modo plastico, e come meglio non si potrebbe, il senso di un'azione convulsa, frenetica, diretta appunto a dar la sensazione che tutto si muova e qualcosa accada mentre invece accade poco o nulla.
Forse il Cav. ha riscoperto, in una delle sue visitationes casoriane, il detto, e questo spiegherebbe l'ammuina del complotto più o meno "eversivo", evocato nei giorni scorsi, convalidato dal Sen. Cossiga con le rivelazioni di una congiura intesa a detronizzar Silvio per intronizzare Draghi, emblematico campione dei poteri forti delle banche, della finanza, del variegato mondo imprenditoriale e d'interessi che gira attorno alle une e all'altra.
Epperò, anche Max "statista" D'Alema, in omaggio alla sua intervistratrice (che però è di Sarno, provincia di Salerno, e non propriamente napoletana), ha annunziato alla Lucia "scosse", singulti tellurici, probabili sommovimenti politico-istituzionali, senza rivelare né le fonti delle sue divinazioni, né gli esiti che da questi sismi politici dovrebbero sortire (il crollo di Silvio, un'ennesima increspatura del cerone intonachizio della sua immagine di intramontabile sessantenne pure incamminato verso gli ottanta?).
Forse ognuno parla a nuora perché suocera intenda: il Cavaliere per serrare le fila della maggioranza, evocare un nuovo 1994, spaventare i moderati dell'UdC, mandare segnali alla Lega qualora la guardia pretoriana padana volesse in qualche modo smarcarsi troppo o troppo tirare la corda cui tiene avvinto il resto della maggioranza; Max "statista" per evocare l'esigenza che in passaggi delicati e cruciali non ci si dimentichi, appunto, di quanti, come lui, hanno dato prova di autorevolezza e nervi saldi, sin dal difficile passaggio della guerra del Kossovo, quando ha guidato, unico ex comunista della storia d'Italia, il governo; e magari anche per dire al popolo democratico che non è proprio il momento di affidarsi a convulsi conati giovanilisti pensando di affidare il partito ad una giovane quarantenne carina ma troppo immatura e certo "leggerina" come la Deborah Serracchiani.
L'oggetto comune del contendere, sul terreno politico, poi è nientepopodimenoché l'UdC di Casini e Cesa, che Berlusconi, facendo male i conti, aveva immaginato in liquidazione (dimenticadone il radicamento siciliano e territoriale, in quanto partito degli assessori al sud), e D'Alema vorrebbe imbarcata come un qualsiasi Udeur in un'ampia coalizione antiberlusconiana, comprensiva anche della Sinistra radicale nelle sue due declinazioni (S&L, RC-PdCI-Socialisti) e magari, perché no, anche dei pannelliani e boniniani.
Queste "simmetrie" berlusconian-d'alemiane dimostrano, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia logora e stantia la visione delle cose nel centrodestra e nel centrosinistra. così legata ai tatticismi e al gioco dei messaggi, così slegata dai bisogni e dalle esigenze della società italiana.
La politica sembra ormai soltanto un reality show, con la sua compagnia fissa di giro, le litigate, i pensieri poveri e debolissimi, laterali anzi periferici, gli orizzonti che non vanno al di là del salotto di Porta a Porta.
E in tutto questo Napolitano corre il rischio di far la parte di una qualsiasi Barbara D'Urso o Simona Ventura, quando richiama all'ordine senza convinzione i concorrenti con il fatidico "Ragaaaaziiiiii".