giovedì, aprile 20, 2006

NEL NOME DEL PADRE (E DELLA MADRE)

A quanto pare, col precedente post, ho scatenato un piccolo "outing" familiare. Non me ne dispiace, ovviamente, anche perché mi consente di riflettere sul rapporto tra coscienza e ricordi, tra esperienza e maturità, tra radici e sviluppi esistenziali.
La poetica pascoliana del fanciullino è in effetti uno statuto esistenziale ineliminabile.
Anche chi non ha avuto la fortuna di avere un'infanzia e adolescenza più o meno normali e serene, se non addirittura felici, serba nel ricordo le cose migliori, magari le poche o uniche, di quel periodo; ed è giusto che sia così perché le radici sono tutte lì e da esse dipende, io credo, lo sviluppo della personalità.
Certo è evidente che un'infanzia "anormale", segnata da violenze, frustrazioni, abbandono non possono non segnare cicatrici che rimangono dolenti alla palpazione della vita, a volte piaghe che non si rimarginano: e non ci dicono infatti gli psichiatri che, ad esempio, tutti o quasi i pedofili sono stati bambini violati? e non ci dicono i sociologi e criminologi che l'attitudine alla violenza deriva da ambienti familiari violenti?
Eppure credo che qualcosa di bello, magari una piccolissima luce, come quella di una lucciola nel buio della notte, rimanga dell'infanzia anche quando è stata infelice.
Perché, essendo lì le radici, e non potendo nessun albero o pianta star su senza radici, si cerca di valorizzare magari quel segmento piccolo di radice che non era guasta, fradicia, malferma.
Guardando, devo dire con uno sforzo di attenzione non prevenuta e non invidiosa, tipica del signore di mezza età (per parafrasare una bella trasmissione televisiva dell'umorista Marcello Marchesi di tanti anni fa), ai giovani di oggi comprendo come sia difficile la loro condizione e come sia complicato esser bambini ai giorni nostri, in una rincorsa affannata dei genitori a dare sempre di più e a sforzarsi di evitare ai figli sentimenti di frustrazione e di dolore.
Un bambino di oggi DEVE andare in piscina, suonare uno strumento, fare danza, fare le sue festicciole in pizzeria, vestire in un certo modo alla moda e firmato, fare almeno un mese di vacanze all'anno, e NON DEVE mai sentirsi diverso dagli altri, rimanere con un desiderio insoddisfatto, conoscere il dolore di una punizione, assaggiare l'asprezza di un insegnante...
Io non ho figli, e davvero non voglio giudicare nessuno; sa Dio se è complicato esser genitore, mestiere difficilissimo che nessuno insegna e che non può impararsi con enciclopedie a dispense; sa Dio se questa società del superfluo che è diventato indispensabile aiuta i genitori, se la gregarietà di comportamenti educativi di massa consenta di resistere al ricatto psicologico insito nella protesta "ma quello lo ha, quella lo fa, i genitori di tizia fanno così, i genitori di caia non fanno così, e sì io devo essere l'unico/a che non...".
So anche però che anche nei tempi lontani della mia infanzia e adolescenza, sia pure in un ambito meno massificato, c'erano i ricchi e i più poveri, e i figli dei primi avevano cose impensabili per i figli dei secondi, e i primi facevano le gite scolastiche e gli altri no (una delle più simpatiche, azzeccate e feroci satire su queste differenze "di classe" in una classe erano gli sketch di Cochi e Renato, dove Cochi era un alunno ricco, viziato, ciuccio e maligno e Renato un povero maestro elementare che piegava la testa e gli dava, comunque e sempre, 7+: la trasmissione si chiamava !Quelli della domenica" ed era condotta da un magrissimo, incredibile dictu, Paolo Villaggio).
Perché allora si poteva crescere senza subire dilanianti e devastanti shoc psicologici se, non essendo figli di ricchi, si doveva rinunciare a qualcosa o a molto?
Semplicemente perché quella società conosceva una legittimazione che non si identificava (solo) nella ricchezza e nell'agio, ma (almeno) anche nella dignità del lavoro, tanto più dignitoso e riconosciuto in quanto, dobbiamo dirlo, svolto mangiando, come diceva il capitano Bellotti nel Giorno della civetta al mafioso don Mariano Arena, il "pane dello Stato".
C'era tra le classi (o i ceti) sociali un rispetto e una legittimazione che si fondava sul senso di appartenenza ad una comunità, di cui lo Stato incarnava la sintesi e l'espressione massima; c'era una educazione civica elementare che si apprendeva, certo, sui banchi di scuola ma soprattutto nelle famiglie e nelle varie "formazioni sociali", parrocchie, associazioni, partiti, condomini e via discorrendo.
Solito vieto discorso sui valori che si sono persi? No, molto più semplicemente, riflessione su società alla deriva, su comunità che non sono più tali, su cittadinanze che, nonostante l'ampliamento a dismisura del catalogo formale dei diritti, scritti su carta patinata, non riescono a farsi effettività di appartenenza alla comunità e di esercizio dei diritti di cittadinanza, perché non riescono a fuoriuscire dalla cura degli interessi individuali, a volte microscopici e qualche volta quasi miserabili.
Come si può pensare di costruire cittadinanze e patria europee se si perde il senso delle cittadinanze e patrie nazionali, regionali, provinciali, cittadine, di quartiere, di condominio?
Io e i miei fratelli siamo stati molto, molto fortunati, sia perché abbiamo vissuto uno scorcio di tempo diverso, in cui tutte queste cose esistevano, sia e soprattutto perché abbiamo avuto genitori che, pur incarnando i ruoli nel modo più tradizionale, sono stati un esempio, si sono presi cura, hanno dato più che l'essenziale e ci hanno insegnato a fare a meno di tante cose ma non della dignità, dell'onestà, della cultura, del senso del dovere, dell'etica del sacrificio.
Erano certo genitori di altri tempi, in altri tempi, ma sono stati i migliori (mia madre grazie a Dio lo è ancora) che potessimo avere, due grandi persone e personalità.
Trovo giusto dirlo in questo diario, è una delle poche verità e certezze che nessuno potrà mai togliermi.

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