mercoledì, aprile 19, 2006

CAIETA


E' passata anche Pasqua, e pasqua nella sua etimologia aramaica rimanda appunto ad un passaggio, quello dell'Angelo che sterminò il primogenito del faraone (pare fosse Ramses II) e tutti i primogeniti del tempo della cattività egiziana del popolo ebreo, poi nella tradizione cristiana la Pasqua ha assunto la portata di ben altro "passaggio", quello dal corpo martoriato di un crocifisso al sepolcro vuoto, dalla morte alla risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo.
Prosaicamente la Pasqua anche quest'anno con la sua appendice ha segnato il passaggio di milioni di autoveicoli in transito da sud a nord per il rientro dal ponte, mentre già si profilano quelli del 25 aprile e poi del 1° maggio.
Col prezzo del petrolio ormai impennato oltre i 70 dollari al barile e in pericoloso avvicinamento a valori che rimandano alla guerra del petrolio dei primi anni '70 (tornerà l'Austerity, le domeniche a piedi, le targhe alterne, le trasmissioni TV finite alle undici di sera? chissà ma penso di no, siamo ormai troppo viziati), con la benzina a 1,30 euro e il gasolio a 1,20 euro, si sarebbe pensato che i flussi di traffico fossero più o meno diradati.
Macché.
Ieri, ad esempio, da Caserta a Roma l'autosole era un'unica immensa coda, un serpentone di auto, pullman, camion, tir estenuante, lento, asfissiante.
Ho impiegato sei ore da Bari per un viaggio che compio in poco più della metà del tempo.
Gli autogrill erano riproduzioni di malebolge, code per il rifornimento, bar e snack inavvicinabili, toilettes dove non mi sono nemmeno arrischiato di avvicinarmi.
E così, mentre guidavo a strappi, con punte di velocità di 80 km/h e una media di 30 km/h, mi è tornato in mente quando, prima della costruzione dell'autostrada Napoli-Canosa, e del tratto Bari-Taranto, ci si doveva inerpicare con pazienza lungo la vecchia strada statale che saliva tortuosa per le balze dell'appennino dauno e irpino, seguendo con pazienza teorie di camion, a velocità non superiori ai 70-80 Km/h, e già arrivare ad Ariano Irpino era qualcosa perché li si cominciava a intravvedere non lontanissima Avellino e poi la discesa che avrebbe riportato sulla costa e alla vista del mare.
I viaggi automobilistici della mia infanzia e adolescenza si fermavano ben prima di Roma ed erano legati alle vacanze augustane in quel di Gaeta, a suo tempo incantevole cittadina adagiata a mezzaluna sull'omonimo golfo, dove abitavano miei zii e una cugina, di cui eravamo ospiti per una quindicina di giorni.
Più spesso si andava su col treno, e non in cuccetta o vagone letto ma in normali vagoni, rinfrancati dal caffellatte (più caffé che latte) preparato da mia madre e serbato in capaci thermos cilindrici con le pareti interne a specchio a trattenere il calore. Il viaggio durava tutta la notte ed aveva una ineguagliabile magia sui sedili imbottiti di cuoio, gli scompartimenti con sbiadite vedute di paesaggi alle pareti, l'odore ferroso dei portaceneri e dei finestrini, gli sfiati di vapore alle fermate nelle varie stazioni, la sosta tipica e topica a Benevento con l'acquisto dell'immancabile torrone venduto in stazione assieme a panini e bibite. Quando iniziava l'ultima sequenza di gallerie, e spariva il cartello della stazione Minturno-Scauri, si sentiva nel fresco dell'alba una stanchezza felice e di lì a poco si sarebbe arrivati a Formia, dove si cambiava per Gaeta raggiungendola su un trenino a carrozza-locomotore che si chiamava "littorina" (certo reminiscenza del ventennio, e d'altra parte non si era in provincia di Latina?).
Nel viaggio in auto, invece, compiuto dalla mattina all'imbrunire, era d'obbligo la sosta a Grottaminarda: la statale ci passava attraverso e da un lato e dall'altro della strada piccole botteghe salumaie vendevano inimitabili panini imbottiti di prosciutto crudo; come al ritorno, sempre in auto, era imperdibile la sosta a Mondragone per acquistare le mozzarelle di bufala.
Il tempo del viaggio era lento, ma non vuoto, il viaggio stesso era un'esperienza, un momento iniziatico di preparazione alla bellezza e agli ozi caetani, all'andata, un momento sospeso che attenuava l'amarezza penitenziale del rientro, al ritorno.
Le auto erano piccole, scomode, sobbalzanti, i treni rumorosi, caracollanti sulle rotaie, il paesaggio rurale e urbano più nettamente delimitato nei suoi spazi, le case spesso ancora con i cavi elettrici a vista e con gli interruttori di porcellana, gli svaghi poveri (una fetta di cocomero in riva al male o sulla barca di mio zio, vicino a riva; un cinemino pomeridiano; un bicchiere di amarena gelata al bar...).
Forse divento davvero vecchio se indulgo a questi ricordi, forse è la distanza temporale e il riflesso della percezione ingenua dell'infanzia e della dimensione fresca dell'adolescenza che mi seduce e mi inganna.
Eppure, in nessun autogrill potrei mai ritrovare il sapore di quei panini al prosciutto, in nessuna caffetteria sia pure celebratissima il sapore del caffè nel thermos dalle pareti interne a specchio; e in nessun viaggio, il senso, le emozioni, l'entusiasmo di quei viaggi.
Che stupido romanticone, nevvero?

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