Ho visto ieri su Sky "Il Petroliere" e capisco perché non abbia avuto un gran successo commerciale.
E' una storia dura, raccontata senza sconti idealistici o romantici al mito della frontiera e del capitalismo portatore di progresso e prosperità, tra lande pietrose popolate di capre e erba selvatica, dove si mischia roccia, terra, petrolio, sudore, sangue, nelle quali Dio è assente o indifferente e si lascia rappresentare da improbabili ciarlatani profeti di una terza rivelazione.
Una storia troppo vera e cruda per poter piacere al grande pubblico, che anche in un film epico come questo cerca e spera in un riscatto finale, in una conversione al bene, in un rassicurante pentimento, in una carezza alle incertezze della propria anima.
Già il lungo prologo, in cui il protagonista si sfianca di fatica per cercare una vena d'argento, del tutto privo di rumori che non siano gemiti strozzati di fatica e dolore, picconate sulla pietra che sprizzano scintille, è difficilissimo da digerire per palati abituati a overture più ariose.
L'intero sviluppo del film poi è un costante cazzotto alla bocca dello stomaco: il duro lavoro dell'implacato cercatore di petrolio, la fatica sovrumana degli operai che in fondo al pozzo riempiono secchi e secchi, sversati in uno stagno maleodorante, magari lasciandoci la vita per una trave malfissata o troppo debole, la corsa all'accaparramento delle terre, con la sotterranea guerra tra cercatori indipendenti e grandi compagnie come la Standard e la Union Oil, i sermoni furbastri rivolti ai contadini facendogli balenare il sogno di guadagni tali da cambiare la vita di una intera comunità, come tante esche tese a un branco di pesci affamati, l'accordo con il predicatore ciarlatano che approfitta della superstizione e ignoranza dei suoi paesani per governare assieme, tra false guarigioni miracolose e false promesse di benessere e prosperità di un'intera comunità, le magre e desolate esistenze.
Un frammento potentissimo e fisico dell'epopea del capitalismo americano moderno che sa scendere però nel pozzo più profondo e scuro dell'animo del protagonista Daniel Plainview, al quale inspiegati traumi familiari ed esistenziali hanno strappato ogni sentimento di pietà, ogni capacità di comprensione e condivisione umana, generando un impasto ambiguo di crudeltà e tenerezza verso il bambino orfano di un suo compagno di lavoro, che spaccia per figlio proprio perché gli da quell'aria di rispettabilità e di affidabilità che il suo viso da lupo non ha; e che gli armano la mano furiosa contro l'impostore che si spaccia per suo fratello e alla fine contro il predicatore impostore che uccide a colpi di birillo da bowling in un delirio alcolico distruttivo e autodistruttivo, forse perché nell'imbonitore riconosce come in uno specchio il riflesso della propria immagine, della propria furbizia, della propria assenza di scrupoli, delle menzogne, di una vita intera votata al denaro e sopratutto alla voglia di strapparlo agli altri, ai gonzi, alla gente senza qualità, senza sogni, senza idee.
Un grande film, un grande regista (Peterson) allievo di Robert Altman, un immenso Daniel Dai Lewis, un cast all'altezza, una fotografia straordinaria, una colonna sonora implacabile e potente.
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