Va bene è Natale.
E allora?
Natale, visto in giro, è solo una sequenza di auguri rituali, di messaggini standard inviati in quantità industriali, di pacchi infiocchettati, di luci colorate ai balconi, di addobbi nelle strade (pochi qui a Bari, tanti a Roma, come sempre non c'è confronto).
E' una full immersion in cene, cenoni, poche tombolate, molte baccarate, c'è ancora qualcuno che gioca a piattino o a sette e mezzo?
E' il rassicurante concerto in TV, poca cosa rispetto a quello di Capodanno sulle note dei valtzer di Strauss (padre o figlio, o tutti e due), la benedizione urbi et orbi, i quotidiani con i programmi per tre giorni, dalla vigilia a Santo Stefano.
Quando ero bambino e ragazzino mi piaceva tutto il mese di dicembre, e tra Natale e Pasqua non avevo dubbi, preferivo il Natale, sarà perché Pasqua porta poche vacanze a scuola, molto perché a Pasqua non venivano a Bari i miei zii e mia cugina, i nostri mitici parenti di Gaeta.
Zia Lucia, austera e burbera sorella di mia madre, dal cuore tenerissimo, che era tanto affezionata al Re che dal referendum del 1946 non aveva mai più votato, nemmeno il partito monarchico, perché non si riconosceva nella Repubblica, e fumava tante sigarette, secondo la buona tradizione di famiglia.
Zio Peppe, maresciallo della Finanza, bell'uomo coi baffetti alla Clark Gable, imponente nella divisa come negli abiti civili, che era stato prigioniero in Germania e di quella fame vera e nera portava il ricordo nel modo quasi religioso con cui mangiava, a tocchetti piccolissimi di pane o di frutta, masticando tanto e tanto e tanto.
Zia Lucia e Zio Peppe arrivavano a Bari all'inizio di dicembre (e quando Peppe andò in pensione anche da novembre) e dormivano da mia nonna Anna, la madre di mia madre, in una casa che a me sembrava grandissima, ma aveva solo un ingresso con cucinotto in veranda, una stanza da pranzo, una stanza da letto e uno stanzino di passaggio, dove dormivano mamma bambina e la sorella più piccola Romana.
Era una festa saperli a Bari e vederli tutte le sere a casa mia, dove veniva a trascorrere qualche ora anche nonna Anna (per me semplicemente "la nonna" perché quella paterna, Rosaria, che viveva a Molfetta e vedevo molto meno aveva bisogno della specificazione del nome), dopo aver sceso, ultraottantenne, ottantotto faticosi scalini di un palazzo senza ascensore, che avrebbe poi risalito a tarda sera, con le sue gambe a tronchetto salde ma flebitiche e i piedi gonfi sempre profumati di borotalco.
Ma era anche una gran fatica il Natale, e prima la vigilia e poi Santo Stefano, per mia madre che doveva industriarsi a cucinare per tante persone e tante portate, e non aveva aiuto in casa, e si affannava dalla mattina della vigilia sino alla sera del 26, e quella stanchezza estrema, a ogni Natale, le procurava una colica renale, e la pressione le scendeva a 60 di massima, e io avevo una paura fottuta perché sapevo che senza di lei saremmo stati tutti persi, e se non ci siamo persi è soltanto grazie a lei e per lei. Così a Natale era di rito anche la visita del medico di famiglia, Michele Contesi che con due iniezioni metteva, quasi, tutto a posto.
Però poi Natale era anche la dolcezza del latte mattutino con avanzi di panettone e pandoro, il tepore delle luci intermittenti di un piccolo albero e del profilo bruno di un piccolo presepe nel buio della stanza da pranzo, nelle notti d'intermezzo tra le feste; e la letterina sotto il piatto di mio padre, certo non bella come quella di Nennillo, in "Natale in casa Cupiello", ma egualmente efficace ai fini della strenna natalizia, perché allora soldi se ne davano pochi o niente a bambini e ragazzini e regali solo nelle grandi occasioni, ossia il compleanno e la Befana.
La strenna era l'unico regalo di Natale, poi toccava aspettare il 6 gennaio, e una volta mia madre e mio padre (avrò avuto cinque-sei anni) mi fecero lo scherzo di farmi trovare del carbone (dolce) e io ero così scemo che ci piansi a dirotto, prima di consolarmi con il gioco che pure la benigna Befana non aveva mancato di portarmi, ma bisogna capire che ero proprio un piagnone da piccolo, oltre che un ammammato totale (ma questo in fondo, lo sono rimasto).
Il 26 però si andava dalla nonna Rosaria, a Molfetta, e lì trovavo i miei cuginetti, tutti più o meno coetanei: Pasquale, biondo come un cherubino e con gli occhi azzurri, appena di due anni più grande, Pietro, bruno e attivissimo (ora come allora) e Mauro, pure lui biondo e ceruleo di occhi, che erano i figli di zio Tanino, l'unico fratello di mio padre, professore di francese; Franchino, corrucciato e scontroso, ed Emiliana, piccola e vezzosa, che erano i figli della più piccola delle sorelle di mio padre, zia Giovanna.
Con loro era eterna la diatriba tra noi "baresi" e loro "molfettesi", ciascuno duro a rivendicare la superiorità della propria città; e se mio padre, esagerando, diceva che l'etimo di Molfetta era "Melficta", ossia "fatta di miele", mia madre, sempre pungente e polemica, replicava che era una storpiatura di "Mal fatta".
Io tutto quel miele in giro non lo vedevo, ma poi non mi sembrava fatta così male, almeno nella parte che affacciava sul porto e per la "villa" il giardino circolare grande meta del passeggio di ogni vero molfettese.
Non c'era miele, ma tante mandorle e buona farina nei dolci natalizi di nonna Rosaria, dagli amaretti alle mitiche spume di mandorla, brunastre, con la crosta dura di zucchero; oppure nel calzone con il merluzzo, che un amico di famiglia e storico della gastronomia volle immortalare in una delle ricette di un suo libro (era il buon professore Luigi Sada, che raccoglieva da vero collezionista un po' di tutto, dalle fotografie di Bari -con un archivio unico davvero-, a menù d'epoca di ristoranti, e mio padre lo definiva con l'ironia che solo un vero amico può permettersi, un "robivecchi").
Ecco, questo era Natale, il vero Natale; mentre ora è solo un intermezzo tra la fatica dei mesi post-estivi e quella dei mesi post-natalizi.
martedì, dicembre 25, 2007
venerdì, dicembre 07, 2007
IL SIGNORE DI MEZZA ETA'
"Che bella età, la mezza età", canticchiava sul primo canale televisivo, sul finire degli anni '60 Marcello Marchesi, fine umorista e sceneggiatore, nella sigla de "Il signore di mezza età".
Col cappello calato sugli occhi, il viso bonario, i baffi e un soprabito, Marchesi si aggirava nella sigla nelle immagini di un panorama urbano tipico di quegli anni, i neon, le grandi pubblicità sui cornicioni dei palazzi, il traffico (che sembrava caotico allora, figuriamoci) popolato di cinquecento e seicento, millecento, lancia flavia, rare giuliette, qualche renault e citroen ds, praticamente nessuna macchina tedesca e giapponesi neanche in sogno.
Mi sembrava così remota e lontana allora la mezza età, praticamente ai confini della vecchiaia.
Ora che sono arrivato pure io alla mezza età (anzi forse oltre perché teoricamente se la vita media maschile è di 78-79 anni, ho già compiuto un bel pezzetto oltre il cammin della metà di nostra vita), è curioso che non mi senta un "signore di mezza età" e non riesca a riconoscermi nell'omino della sigla.
E' vero, i cinquantenni di una volta erano praticamente già quasi nonni e i cinquantenni di oggi spesso si vestono, si comportano e pensano poco più che da adolescenti. La vita anzi spesso ricomincia a cinquantanni dopo separazioni e con famiglie più o meno allargate, almeno per la "classe borghese" (i poveri, oggi come allora, invecchiano molto prima).
E' proprio cambiato il sentimento di se e della propria generazione e del rapporto con quelle successive; e purtroppo anche con quelle precedenti, moltiplicandosi case di riposo che un tempo di chiamavano ospizi e oggi si ingentiliscono con nomi ridicoli tipo "hospice", "club del nonno", "anni d'argento" e cazzate consimili a travestire la nuda sostanza delle cose.
Ma è anche vero che, se si ha buona salute e soldi, magari a settantanni e circondati da badanti, si evitano gli ospizi e con le beauty farm e la chirurgia estetica si possono arrivare a dimostrare "venti anni di meno", come in una vecchia pubblicità caroselliana dell'acqua minerale "Fiuggi".
Eppure dubito che noi cinquantenni di oggi, con tutte le creme e cremine antirughe (chi le usa), con i capelli colorati (chi li tinge), con i fisici palestrati (chi si palestra), con l'abbigliamento sportivo-giovanilistico, si possa dire di avere quel senso di progressiva sazietà della vita, di maturazione e consolidamento della propria personalità, di consapevole raggiungimento degli obiettivi essenziali della vita che avevano i cinquantenni di quaranta anni fa.
Un qualche prezzo lo si paga sempre all'illusione della non sfiorente giovinezza.
Col cappello calato sugli occhi, il viso bonario, i baffi e un soprabito, Marchesi si aggirava nella sigla nelle immagini di un panorama urbano tipico di quegli anni, i neon, le grandi pubblicità sui cornicioni dei palazzi, il traffico (che sembrava caotico allora, figuriamoci) popolato di cinquecento e seicento, millecento, lancia flavia, rare giuliette, qualche renault e citroen ds, praticamente nessuna macchina tedesca e giapponesi neanche in sogno.
Mi sembrava così remota e lontana allora la mezza età, praticamente ai confini della vecchiaia.
Ora che sono arrivato pure io alla mezza età (anzi forse oltre perché teoricamente se la vita media maschile è di 78-79 anni, ho già compiuto un bel pezzetto oltre il cammin della metà di nostra vita), è curioso che non mi senta un "signore di mezza età" e non riesca a riconoscermi nell'omino della sigla.
E' vero, i cinquantenni di una volta erano praticamente già quasi nonni e i cinquantenni di oggi spesso si vestono, si comportano e pensano poco più che da adolescenti. La vita anzi spesso ricomincia a cinquantanni dopo separazioni e con famiglie più o meno allargate, almeno per la "classe borghese" (i poveri, oggi come allora, invecchiano molto prima).
E' proprio cambiato il sentimento di se e della propria generazione e del rapporto con quelle successive; e purtroppo anche con quelle precedenti, moltiplicandosi case di riposo che un tempo di chiamavano ospizi e oggi si ingentiliscono con nomi ridicoli tipo "hospice", "club del nonno", "anni d'argento" e cazzate consimili a travestire la nuda sostanza delle cose.
Ma è anche vero che, se si ha buona salute e soldi, magari a settantanni e circondati da badanti, si evitano gli ospizi e con le beauty farm e la chirurgia estetica si possono arrivare a dimostrare "venti anni di meno", come in una vecchia pubblicità caroselliana dell'acqua minerale "Fiuggi".
Eppure dubito che noi cinquantenni di oggi, con tutte le creme e cremine antirughe (chi le usa), con i capelli colorati (chi li tinge), con i fisici palestrati (chi si palestra), con l'abbigliamento sportivo-giovanilistico, si possa dire di avere quel senso di progressiva sazietà della vita, di maturazione e consolidamento della propria personalità, di consapevole raggiungimento degli obiettivi essenziali della vita che avevano i cinquantenni di quaranta anni fa.
Un qualche prezzo lo si paga sempre all'illusione della non sfiorente giovinezza.
giovedì, settembre 06, 2007
L'INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL'ESSERE (REGINA)
Non capisco proprio Elisabetta II d'Inghilterra. Pare che la Sovrana si sia sempre rifiutata, sdegnosa, alla visione del film "The Queen" di Stephen Frears. Eppure nel lucido affresco della monarchia britannica, l'unica figura che si staglia con dignità nella settimana successiva alla morte di Diana, dallo schianto nel tunnel dell'Alma ai funerali della "Principessa del Popolo" è proprio quella di Elisabetta.
Ho visto "The Queen" su Sky, con il solito ritardo che mi porto appresso in materia di cinema e films di successo, mediamente uno-due anni.
Il film è una straordinaria rilettura di quanto accadde dieci anni fa e la sua grandezza sta nel non fare sconti a nessuno, proprio a nessuno.
Non a Tony Blair, all'epoca neopremier, che cavalca (veltronianamente? direi abbastanza) l'ondata di commozione popolare per la tragica morte di Diana e riesce a farsi garante agli occhi dell'opinione pubblica inglese di una monarchia troppo algida e lontana dai sentimenti delle masse.
Non a Filippo d'Edimburgo, persona greve, modesta, inadeguata intellettualmente persino al ruolo di principe consorte, in effetti solo "inseminatore" della stirpe reale.
Non a Carlo, sorpreso e travolto dall'ondata di sospetti e ostilità nei suoi confronti, come sempre e per sempre debole "figlio di mamma" ed eterno principe ereditario.
Non alla stessa opinione pubblica, inglese e mondiale, manipolata dalla stampa e dalle televisioni, leste nel cogliere il bisogno di una "favola moderna", la principessa triste, tradita, isolata, sfortunata, forse sacrificata sull'altare della ragione di Stato e di Dinastia dinanzi alla minaccia di un fidanzamento, un matrimonio, una maternità con un arricchito parvenu di vaga religione islamica.
Ma a Elisabetta II, in fondo si, Frears concede molte attenuanti e qualche ragione.
Ragazzina intronata regina dopo la prematura scomparsa del padre, attenta ai doveri (oltre che ai diritti) della Monarchia inglese, incarnazione dell'unità di una nazione che già dovette digerire il declino e poi il crollo del suo impero coloniale, dopo una guerra sanguinosa e piena di lutti e rovine, tenace custode delle virtù britanniche per eccellenza (dignità, orgoglio, compostezza, adeguatezza al ruolo, senso della responsabilità collettiva).
In questo magistrale affresco si staglia la dignità della Sovrana, la tormentata presa di coscienza che i "fedeli sudditi" esigono l'omaggio alla principessa del popolo, ossia dei tabloid e delle TV, ossia dell'opinione pubblica da essi formata, ossia della commozione collettiva, non difficile da suscitare se si è belle come Diana, eleganti come Diana, sexy come Diana, dolci come Diana, giovani come Diana, e inspiegabilmente tradite, come Diana, a vantaggio di una cavallona quale Camilla.
E poi, come competere con Diana che s'intrattiene con Madre Teresa di Calcutta, che percorre i campi minati, che tiene in braccio bambini di colore, che anima mille attività benefiche, che insomma è tanto bella quanto buona?
Helen Mirren, attrice straordinaria (e donna stupenda, lasciatemelo dire...) presta ogni piega del suo volto, ogni increspatura delle sue labbra, ogni guizzo dei suoi occhi, ogni muscolo del suo corpo alla (ri)costruzione del tormento psicologico di Elisabetta II, della dolorosa presa di coscienza dell'esigenza di sacrificare etichetta, tradizioni, orgoglio e forse anche un po di verità (Diana non era una puttana, ma nemmeno una santa), sull'altare vorace apparecchiato dalle tonnelate di fiori dinanzi al Palazzo Reale, addirittura chinando la testa al passaggio del feretro di Diana.
La sequenza nella quale Helen-Elisabetta legge con angoscia i bigliettini che accompagnano fiori e pupazzetti e coglie il gelo del popolo inglese verso la Monarchia, sentendo l'ingiustizia di un confronto che oppone l'amatissima Diana e l'odiata corte inglese, vale da sola l'intero film e l'Oscar meritatamente assegnato quale migliore attrice.
Per questo non capisco come Elisabetta II non abbia compreso come "The Queen" è un omaggio straordinario alla sua persona e alla sua dimensione storica, l'epifania di una Monarchia che trova in lei, e solo in lei, l'ultima Sovrana possibile e credibile, unica vera degna erede di Vittoria e della grande Elisabetta, la prima.
E' difficile concentrare nello spazio di un film un'analisi più lucida, chiara, intensa, verace di temi così grandi e complessi, uno sguardo così leggero eppure penetrante e impietoso sulla manipolazione dell'opinione pubblica e sui meccanismi mediatici della costruzione del consenso; e tutto questo senza perdere l'incanto dei momenti intimi della Regina nello scenario incantato della tenuta di Balmoral, tra fiumi, colline, boschi, compresa la scena nella quale Elisabetta-Helen sopraffatta dalle emozioni si ferma a guardare incantata un maestoso cervo che finirà ammazzato e decollato per il divertimento di un qualsiasi banchiere ospite di una vicina tenuta di caccia.
Animale nobile, bello e solitario quel cervo, nel quale forse Helen-Elisabetta scorge un riflesso della propria dolorosa ma incontestabile regalità.
sabato, aprile 07, 2007
ARRIVEDERCI AMORE CIAO
Ho visto il film "Arrivederci amore ciao" di Michele Soavi, tratto da un romanzo di Massimo Carlotto, e sto finendo di leggere un libro intitolato "Il libro nero delle Brigate Rosse" edito dalla Newton Compton.
Non ci potrebbe essere niente di più diverso tra il film (e il romanzo di Carlotto) e il saggio "economico" sulla storia delle BR.
Il film racconta, con buona cifra narrativa e fotografica, di un ex terrorista alla ricerca spietata della "normalità" e "rispettabilità", perseguita attraverso delitti lucidi, togliendo di mezzo, volta a volta, chiunque si opponga all'agognata riabilitazione, sino al delitto più lurido e sporco, quello della giovane moglie, testimone indiretta e inquieta dell'omicidio del poliziotto corrotto che per anni ha ricattato l'ex terrorista, combinando con lui anche una sanguinosa rapina con quattro sbandati (due ex ustascia e due anarchici spagnoli), ammazzati per evitare di spartire il bottino.
Sorprendente l'interpretazione dell'ex terrorista (ma vero e stabile delinquente), da parte di Alessio Boni, "attor bello di sostanza", grande quella di Michele Placido nei panni di un commissario Digos corrotto e marcio sin nel midollo.
Ma questo terrorista da romanzo (e film) di discreto successo, dal titolo di un'indimenticata canzone anni '70 di Caterina Caselli-casco d'oro, non ha nulla a che vedere con i terroristi i cui profili emergono nitidi dal saggio della Newton Compton: in genere ragazzi di buona famiglia operaia o piccolo-borghese, spesso di estrazione cattolica, cresciuti nelle sezioni del vecchio PCI, educati al mito della Resistenza "tradita", ossia della Resistenza come guerra civile rivoluzionaria incompiuta, interrotta dalla togliattiana svolta di Salerno, dalla scelta della via istituzionale e costituzionale, sopratutto, a guardar bene, dall'accordo di Yalta, che sancì l'appartenenza dell'Italia al blocco occidentale d'influenza USA.
Il nucleo essenziale delle BR si aggregò, è noto, attorno alla prima facoltà di Sociologia italiana, la mitica facoltà di Trento dove la stessa Margherita (Mara) Cagol, moglie di Renato Curcio e prima e unica vera "pasionaria" della lotta armata, si laureò con una tesi discussa con Francesco Alberoni; e inoltre nelle fabbriche milanesi, l'Alfa Romeo di Arese, la Sit-Siemens, radicandosi ben presto anche nella Fiat torinese e nelle fabbriche genovesi.
L'interesse del libro, oltre alla ricostruzione minuziosa di tutte le "gesta" delle BR, delle loro spaccature e frazioni, della loro strategia, della risposta dell'apparato repressivo, investigativo e giudiziario, sta nella ripubblicazione di un buon numero di "comunicati" che segnarono le varie imprese, da quelle iniziali della "propaganda armata" (i primi sequestri lampo con immediato rilascio degli ostaggi, in genere quadri dirigenti delle fabbriche), a quelli della fase di "attacco al cuore dello Stato" (il sequestro Sossi, il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro, il sequestro D'Urso, il sequestro Dozier) e della successiva "ritirata strategica".
Per chi, come me, è vicino vicino ai cinquant'anni, ed era ragazzo di sinistra in quegli anni, dirigente di base della FGCI ma in contatto dialettico con i movimenti extraparlamentari, risuonano in quei comunicati concetti non alieni né "deliranti".
Operaio-massa, movimento degli studenti, proletariato organizzato, lotta di classe, padroni e padronato, vigilanza antifascista, avanguardia di classe, imperialismo erano l'universo concettuale attraverso il quale una generazione, o una buona parte di quella generazione, leggeva e ricostruiva la realtà.
I brigatisti erano parte, come riconobbe per prima credo Rossana Rossanda, dell'album di famiglia della sinistra comunista, sospesa tra aspirazioni rivoluzionarie e tatticismi di vie istituzionali al socialismo.
Certo, l'avvio di un'esperienza di lotta armata per il comunismo (le Brigate Rosse si definivano anche Partito comunista combattente) segnò una cesura indissolubile con le radici, con il revisionismo del PCI, con il movimentismo dei gruppi dell'ultrasinistra extraparlamentare; ma ancora in questi ultimi la definizione a lungo invalsa di "compagni che sbagliano" stava a significare che gli obiettivi erano giusti e i metodi, solo i metodi, sbagliati.
E invece, va detto con chiarezza, anche gli obiettivi erano sbagliati, perché la dittatura del proletariato, nell'esperienza storica, aveva già dimostrato di essere nient'altro che una dittatura, per giunta fondata su una organizzazione economica che intanto reggeva in quanto si alimentava con l'industria pesante degli armamenti, e quindi con un imperialismo socialista (l'imperialismo sovietico), niente affatto migliore di quello americano.
La via italiana al comunismo, l'eurocomunismo, il compromesso storico, la questione morale, segnarono via via il tentativo del PCI di ridefinire il proprio orizzonte politico-istituzionale senza poter rinnegare mai sino in fondo, sino alla svolta della Bolognina (bella forza, era caduta la DDR, la Romania di Ceausescu, l'Ungheria, e l'URSS di Gorbaciov si avviava alla sua rapida fine), il legame con la rivoluzione leninista.
Non so se questa generazione di piccoli bulli che crescono, telefoninodipendenti, mocciosi (nel senso di mocciani), stia meglio o peggio di quella che passò l'adolescenza in fumose (nel senso letterale che si fumava tutti e tanto) riunioni in locali più o meno fatiscenti, di cellula, gruppo, intergruppo, o rumorosi cortei lacrimevoli qualche volta di lacrimogeni, e a qualcuno andò male, tra lotta armata o rifluenza nella delinquenza comune e nella droga.
Forse è inevitabile che ogni generazione magnifichi il suo passato e critichi il presente, semplicemente perché nel passato c'è la gioventù perduta, i sogni, il delirio tipicamente giovanile di onnipotenza e immortalità.
Accadrà tra venti anni ai mocciosi-mocciani di oggi, e via così, sino alla fine dei tempi.
E accadeva duemila anni fa ai "vecchioni" del Sinedrio, che vedevano messo in discussione il proprio potere da un profeta disarmato ma pericolosissimo con le sue dottrine egualitarie e fondate sulla forza più rivoluzionaria che ci sia, l'Amore con la A maiuscola.
In fondo, la storia delle aberrazioni umane altro non è se non la storpiatura del concetto fondamentale di amore.
Ecco perché anche nel film di Soavi l'ex terrorista può segnare gli ultimi istanti di vita della sua giovane moglie, da lui avvelenata e tradita sino in fondo nella disperata e ingenua richiesta di fiducia, con la canzone della Caselli sparata a tutto volume a coprirne i gemiti di agonia.
Arrivederci, amore ciao.
Non ci potrebbe essere niente di più diverso tra il film (e il romanzo di Carlotto) e il saggio "economico" sulla storia delle BR.
Il film racconta, con buona cifra narrativa e fotografica, di un ex terrorista alla ricerca spietata della "normalità" e "rispettabilità", perseguita attraverso delitti lucidi, togliendo di mezzo, volta a volta, chiunque si opponga all'agognata riabilitazione, sino al delitto più lurido e sporco, quello della giovane moglie, testimone indiretta e inquieta dell'omicidio del poliziotto corrotto che per anni ha ricattato l'ex terrorista, combinando con lui anche una sanguinosa rapina con quattro sbandati (due ex ustascia e due anarchici spagnoli), ammazzati per evitare di spartire il bottino.
Sorprendente l'interpretazione dell'ex terrorista (ma vero e stabile delinquente), da parte di Alessio Boni, "attor bello di sostanza", grande quella di Michele Placido nei panni di un commissario Digos corrotto e marcio sin nel midollo.
Ma questo terrorista da romanzo (e film) di discreto successo, dal titolo di un'indimenticata canzone anni '70 di Caterina Caselli-casco d'oro, non ha nulla a che vedere con i terroristi i cui profili emergono nitidi dal saggio della Newton Compton: in genere ragazzi di buona famiglia operaia o piccolo-borghese, spesso di estrazione cattolica, cresciuti nelle sezioni del vecchio PCI, educati al mito della Resistenza "tradita", ossia della Resistenza come guerra civile rivoluzionaria incompiuta, interrotta dalla togliattiana svolta di Salerno, dalla scelta della via istituzionale e costituzionale, sopratutto, a guardar bene, dall'accordo di Yalta, che sancì l'appartenenza dell'Italia al blocco occidentale d'influenza USA.
Il nucleo essenziale delle BR si aggregò, è noto, attorno alla prima facoltà di Sociologia italiana, la mitica facoltà di Trento dove la stessa Margherita (Mara) Cagol, moglie di Renato Curcio e prima e unica vera "pasionaria" della lotta armata, si laureò con una tesi discussa con Francesco Alberoni; e inoltre nelle fabbriche milanesi, l'Alfa Romeo di Arese, la Sit-Siemens, radicandosi ben presto anche nella Fiat torinese e nelle fabbriche genovesi.
L'interesse del libro, oltre alla ricostruzione minuziosa di tutte le "gesta" delle BR, delle loro spaccature e frazioni, della loro strategia, della risposta dell'apparato repressivo, investigativo e giudiziario, sta nella ripubblicazione di un buon numero di "comunicati" che segnarono le varie imprese, da quelle iniziali della "propaganda armata" (i primi sequestri lampo con immediato rilascio degli ostaggi, in genere quadri dirigenti delle fabbriche), a quelli della fase di "attacco al cuore dello Stato" (il sequestro Sossi, il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro, il sequestro D'Urso, il sequestro Dozier) e della successiva "ritirata strategica".
Per chi, come me, è vicino vicino ai cinquant'anni, ed era ragazzo di sinistra in quegli anni, dirigente di base della FGCI ma in contatto dialettico con i movimenti extraparlamentari, risuonano in quei comunicati concetti non alieni né "deliranti".
Operaio-massa, movimento degli studenti, proletariato organizzato, lotta di classe, padroni e padronato, vigilanza antifascista, avanguardia di classe, imperialismo erano l'universo concettuale attraverso il quale una generazione, o una buona parte di quella generazione, leggeva e ricostruiva la realtà.
I brigatisti erano parte, come riconobbe per prima credo Rossana Rossanda, dell'album di famiglia della sinistra comunista, sospesa tra aspirazioni rivoluzionarie e tatticismi di vie istituzionali al socialismo.
Certo, l'avvio di un'esperienza di lotta armata per il comunismo (le Brigate Rosse si definivano anche Partito comunista combattente) segnò una cesura indissolubile con le radici, con il revisionismo del PCI, con il movimentismo dei gruppi dell'ultrasinistra extraparlamentare; ma ancora in questi ultimi la definizione a lungo invalsa di "compagni che sbagliano" stava a significare che gli obiettivi erano giusti e i metodi, solo i metodi, sbagliati.
E invece, va detto con chiarezza, anche gli obiettivi erano sbagliati, perché la dittatura del proletariato, nell'esperienza storica, aveva già dimostrato di essere nient'altro che una dittatura, per giunta fondata su una organizzazione economica che intanto reggeva in quanto si alimentava con l'industria pesante degli armamenti, e quindi con un imperialismo socialista (l'imperialismo sovietico), niente affatto migliore di quello americano.
La via italiana al comunismo, l'eurocomunismo, il compromesso storico, la questione morale, segnarono via via il tentativo del PCI di ridefinire il proprio orizzonte politico-istituzionale senza poter rinnegare mai sino in fondo, sino alla svolta della Bolognina (bella forza, era caduta la DDR, la Romania di Ceausescu, l'Ungheria, e l'URSS di Gorbaciov si avviava alla sua rapida fine), il legame con la rivoluzione leninista.
Non so se questa generazione di piccoli bulli che crescono, telefoninodipendenti, mocciosi (nel senso di mocciani), stia meglio o peggio di quella che passò l'adolescenza in fumose (nel senso letterale che si fumava tutti e tanto) riunioni in locali più o meno fatiscenti, di cellula, gruppo, intergruppo, o rumorosi cortei lacrimevoli qualche volta di lacrimogeni, e a qualcuno andò male, tra lotta armata o rifluenza nella delinquenza comune e nella droga.
Forse è inevitabile che ogni generazione magnifichi il suo passato e critichi il presente, semplicemente perché nel passato c'è la gioventù perduta, i sogni, il delirio tipicamente giovanile di onnipotenza e immortalità.
Accadrà tra venti anni ai mocciosi-mocciani di oggi, e via così, sino alla fine dei tempi.
E accadeva duemila anni fa ai "vecchioni" del Sinedrio, che vedevano messo in discussione il proprio potere da un profeta disarmato ma pericolosissimo con le sue dottrine egualitarie e fondate sulla forza più rivoluzionaria che ci sia, l'Amore con la A maiuscola.
In fondo, la storia delle aberrazioni umane altro non è se non la storpiatura del concetto fondamentale di amore.
Ecco perché anche nel film di Soavi l'ex terrorista può segnare gli ultimi istanti di vita della sua giovane moglie, da lui avvelenata e tradita sino in fondo nella disperata e ingenua richiesta di fiducia, con la canzone della Caselli sparata a tutto volume a coprirne i gemiti di agonia.
Arrivederci, amore ciao.
sabato, marzo 17, 2007
16 marzo, un terzo di secolo fa
Il 16 marzo 1978 era una soleggiata mattina di quasi-primavera. A quel tempo lavoravo, da circa due mesi (il contratto a termine scadeva a fine maggio) all'ufficio stampa della Fiera del Levante di Bari. Era un periodo tranquillo, di intervallo tra le varie rassegne fieristiche, e ne approfittavo per preparare l'esame di diritto privato su un manuale raffinato e forse troppo complesso per studenti del primo anno di giurisprudenza.
Sembrava proprio una sonnacchiosa mattina come le altre, i viali della fiera deserti, gli uffici moderni con pochi commessi e impiegati, il rito del caffé alla macchinetta distributrice già consumato.
E invece la Storia ci stava venendo addosso con la forza di un autoarticolato senza freni.
Qualche impiegato, da qualche parte negli uffici ascoltava la radio, per ingannare il tedio di una mattinata di poco lavoro.
La notizia dilagò nei tre piani del centro direzionale della fiera, si materializzò una radiolina a transistor, dall'edizione speciale del GR1 e del GR2 (all'epoca diretto da Gustavo Selva, detto per i suoi orientamenti conservatori Gustavo "Belva", e così Radio-Belva il suo giornale radiofonico), voci concitate di cronisti in diretta da via Mario Fani raccontavano di auto crivellate di proiettili, agenti (cinque) trucidati in un lago di sangue, Aldo Moro rapito, scomparso, ingoiato chissà dove dal ventre della capitale.
Conoscevo le BR, come tutti quelli della mia generazione: era abbastanza fresco il ricordo delle prime azioni dimostrative e poi del rapimento del sostituto procuratore di Genova Mario Sossi e della sua liberazione dopo la "finta" liberazione di altri brigatisti finiti in carcere e in attesa di processo.
Negli ambienti della sinistra il giudizio era variegato: il PCI bollava i brigatisti come provocatori fascisti, l'ultrasinistra extraparlamentare li definiva, forse un po' affettuosamente come certi fratelli piccoli animati di buone intenzioni ma pasticcioni, "compagni che sbagliano". Quante discussioni con i compagni di Lotta Continua ricordo, io che da buon figgicciotto mi attenevo alla linea ufficiale e dicevo che no, non erano compagni, di nessun tipo, semmai oscuri figuri prezzolati legati alla destra eversiva e ai servizi segreti deviati, e loro che insistevano che il fine era giusto (la rivoluzione) i mezzi sbagliati perché la rivoluzione era insurrezione armata di massa non azioni dimostrative di piccoli gruppi.
Quella mattina, però, la dimostrazione di "geometrica" potenza militare del rapimento e della strage degli uomini della scorta metteva in scacco veramente lo Stato, le forze dell'ordine, la magistratura, tutte le istituzioni democratiche.
Lo smarrimento e l'incertezza erano palpabili, la risposta "democratica" (sciopero generale e cortei e manifestazioni contro il terrorismo in tutte le città grandi e piccole) voleva essere piuttosto un riflesso di rassicurazione che non la dimostrazione di una lucida e forte visione dell'ineluttabilità della sconfitta del terrorismo.
Ero uscito dalla federazione giovanile comunista da un paio d'anni, ma gravitavo nell'area politica della sinistra istituzionale, cioé comunista, e non ebbi alcuna difficoltà ad aderire alla parola d'ordine diffusasi sin dalle primissime ore: con lo Stato, contro le BR, nessuna trattativa, partito della "fermezza", costi quel che costi.
E non ricordo, salvo discorsi e iniziative del PSI di Bettino Craxi e di forze minori, che il partito della trattativa avesse una qualche effettiva risonanza sui giornali o nell'opinione pubblica, mentre l'ultrasinistra coniava uno slogan veramente odioso e insottoscrivibile: "Né con lo Stato, né con le BR" che, devo dirlo, mi ricorda tanto certi slogan paficisti unilaterali contemporanei, in cui riecheggia l'utopia che deponendo le armi i terroristi islamici ti facciano una carezza e diventino operatori di pace.
Furono cinquantacinque giorni lunghi, interminabili, scanditi di foto di Moro col drappo rosso e la stella a cinque punte dietro le spalle, comunicati veri e falsi (uno il n. 7 sulla falsa uccisione di Moro e il suo seppellimento nelle acque del lago della Duchessa), notiziari ordinari e straordinari dei Tiggi, incertezza, angoscie, discorsi dolenti di Papa Paolo VI (agli "uomini delle brigate rosse", con quell'appello a liberare Moro "semplicemente, senza condizioni" che forse e non per colpa del Papa, coartato dalla ragion di Stato, contribuì a chiudere ogni spiraglio e a far vincere l'ala militarista delle BR).
Poi, nella tarda mattinata del 9 maggio, un'edizione straordinaria del TG1 e del TG2, immagini mosse e sfocate di una R4 rossa col portellone posteriore forzato, il povero cadavere di Moro rannicchiato, con la barba lunga e un cappotto, e mio padre, moroteo sin nel midollo, che non avevo ancora mai visto piangere così, come un bambino disperato, e che avrebbe lasciato quel giorno ogni impegno politico, per sempre.
Quattro anni dopo, praticante procuratore legale di Nino Contento, grande penalista barese e allievo di Moro e di Renato Dell'Andro, varcavo la soglia dell'aula bunker in cui si celebrava il primo processo Moro, presieduto da un severo, sereno e autorevole presidente di Corte d'Assise, Severino Santiapichi.
Nelle gabbie ebbi modo di vedere i brigatisti e vidi non uomini e donne superiori e invincibili, ma individui del tutto normali, un po' grigi, banali, tutto sommato mediocri, di maldigerite letture marxiste-leniniste; ne fui deluso, lo confesso, pensando che quegli individui piccoli piccoli, le cui esistenze si sarebbero potute e forse dovute consumare in fabbrichette e uffici, tra conti della spesa e gite fuori porta in 127, avevano tenuto in scacco nientemeno che "lo Stato" e tutti i suoi apparati.
Erano questi i sedicenti eredi delle brigate partigiane? Erano questi l'avanguardia armata della lotta rivoluzionaria? Questi quelli che avevano rapito, ucciso, gambizzato, terrorizzato per anni e anni, e i cui nipoti, a distanza di altri anni, avrebbero ancora ucciso Massimo D'Antona (che ricordo mite e gentile commissario del mio concorso in magistratura) e Marco Biagi?
Molti di essi ora sono liberi, o semi-liberi, intervistati in occasione degli anniversari, coi capelli imbiancati, le rughe, l'aspetto rassicurante di uomini e donne sessantenni. E molti "illuminati" invocano per tutti una amnistia politica per i loro crimini, legittimando ora ciò che fu negato allora, ossia che fossero un partito armato, una forza rivoluzionaria con cui fare i conti e scendere a patti, proprio quel riconoscimento "politico" che forse, solo forse (ma è già tanto) avrebbe potuto salvare la vita a Moro (e a chissà quanti altri).
A vent'anni aderìì al partito della fermezza, e me ne vergogno da allora: perché il partito della fermezza fu anche quello in cui si annidarono contraddizioni e opacità, perché troppi furono i buchi investigativi, perché nei comitati di crisi siedevano uomini della P2 che avrebbero conosciuto poi arresti e inchieste, perché troppi interrogativi restano sospesi sui legami tra BR o una parte di esse e pezzi dei servizi segreti, forse non solo italiani, perché Moro fu un agnello sacrificale sull'altare della definitiva legittimazione democratico-atlantica del PCI e di un compromesso storico con la DC che fallì miseramente appena un anno dopo quel sequestro e aprì la strada al pentapartito, all'arroccamento berlingueriano nell'illusione della questione morale come unica risposta ad un cambiamento che si produsse per sfinimento, senza riforme, solo perché era caduto il sistema comunista e non servivano più i vecchi partiti, dalla DC al PSI al PRI al PSDI al PLI.
Mi piace ricordare Moro come lo vidi una mattina di sole, nel 1977, all'uscita dalla Prefettura di Bari: un uomo magro, sofferente, con una mano lunga bianchissima e un po' molle nella stretta che scompariva nel polsino troppo largo di una camicia.
A chi oggi celebra la grandezza di Andreotti come statista, vorrei ricordare che Moro, al confronto, era un gigante, con una visione lucida, che avrebbe potuto avviare la stagione delle riforme e cambiare il corso della nostra storia, e forse anche della storia internazionale.
Ma la Storia, si sa, non premia mai i migliori, spesso li travolge.
giovedì, marzo 01, 2007
BUON COMPLEANNO
Il blog, zitto zitto, ha compiuto un anno due giorni fa e gli dedico questa torta con l'eroe della mia infanzia.
Sono stato un accanito lettore di Topolino, quando era stampato su concessione della Walt Disney dalla "Arnoldo Mondadori" editore.
Memorabili le storie dei primi anni '70, bellissime quelle degli anni '60 rilette su qualche raccolta de "I classici di Topolino", straordinarie quelle degli anni '40 e '50 in un'opera "enciclopedica" che acquistai una quindicina di anni fa, in grande formato su carta patinata e che non sfoglio da troppo tempo.
Da bambino ricordo che sugli unici due canali in bianco e nero trasmettevano "Disneyland", un rotocalco, si direbbe ora, di documentari e cartoni animati, con la musichetta di "Viva Topolin", unico topo in grado di contendere la popolarità nazionale di Topo Gigio, autentico mattatore della TV dei ragazzi.
Di Topolino ricordo in particolare il numero 500, pubblicat0 domenica 13 agosto 1967.
Era una domenica d'agosto, calda ma non impossibile come le attuali ferie agostane, e mio padre accompagnò me e mia sorella da mia nonna, che abitava in un vecchio palazzo del centro di Bari, all'ultimo piano di ottantotto faticosi scalini.
Lungo la strada c'era un'edicola di giornali, e tra quotidiani e riviste campeggiava la copertina color oro del numero settimanale di Topolino, il cinquecentesimo, appunto.
Per l'occasione la rivista era chiusa in una busta di cellophan e regalava nientemeno che una farfalla vera, le cui ali impalpabili mi si sbriciolarono in mano al primo tocco.
Avevo colto un certo trambusto, in casa, quella mattina, ma beata ingenuità dell'infanzia di una volta, o forse solo mia, non ci avevo fatto molto caso.
Certo mi era parso un po' strano che di prima mattina mio padre si fosse premurato di accompagnarmi assieme a mia sorella dalla nonna; e ancor più strano che zia Romana, la sorella di mia madre che, rimasta nubile, viveva con la mia nonna ottuagenaria e "potente" ma dolcissima (oltre che, come le rimprovevo allora "petulante"), avesse fatto il percorso inverso, sempre di buon mattino, verso casa mia.
Rimasi quindi sbigottito quando, verso le due e mezza del pomeriggio, ci venne a chiamare una vicina di mia nonna, che non aveva il telefono, ed esterrefatto quanto all'altro capo del telefono della gentile vicina (in realtà erano due sorelle d'altri tempi, come le sorelle Materazzi, che erano proprietarie di parte del palazzo) sentii la voce di zia Romana che mi diceva che mi era nato un fratellino, chiedendomi se ero contento.
Lì per lì non seppi cosa rispondere. Ero, da sempre il piccolo di casa e mi sembrava strano che qualcuno si accomodasse al posto mio nel ruolo di piccolo di casa.
A sera, tornato a casa, scoprii questo strano "intruso" infagottato nelle fasce (non c'erano ancora i pannolini della Lines) con la testa pelata lunga lunga la pelle arrossata e arrognata di tutti i neonati le minuscole labbra aperte su gengive rosa sdentatissime e voraci di latte materno.
Mia madre era a letto, ma ci sarebbe rimasta per poco perché così si usava una volta, le mamme partorivano in casa e due giorni dopo, a dir tanto, erano di nuovo affaccendate nelle cose domestiche e nella cura della famiglia; ricordo che era stanca, un po' pallida, magra come sempre (anche incinta la "pancia" si era veramente vista solo negli ultimi due mesi).
Quel bimbo dalla testa pelata compie quest'anno quarant'anni; per me era più bello allora, ma ancora ora, quando lo guardo, non riesco veramente a dimenticare il bimbo che è stato, i suoi pugnetti stretti, la bocca sdentata.
Buon compleanno blog. A te e, in anteprima, a lui.
domenica, febbraio 25, 2007
L'OMINO CHE URLA
Mi capita, quando non ho sottomano internet, di pensare ad un post per il blog, e poi di dimenticarmi cosa avrei voluto scrivere, preso da un'emozione, un sentimento, una riflessione.
C'è però qualcosa, anzi qualcuno che da qualche tempo, nelle mie giornate romane, colpisce la mia attenzione perché lo ritrovo ogni mattina sui gradini del teatro "Quirino-Vittorio Gassman" che s'affaccia proprio sulla corta e stretta strada, via delle Vergini, sul quale sorge il palazzo in cui hanno sede gli uffici del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (il C.S.M. in sedicesimo dei magistrati amministrativi, di cui sono componente).
D'inverno è intabarrato in un cappottaccio sdrucito, con un passamontagna da neve e due scarpacce che hanno visto tempi, molto remoti, migliori.
D'estate, dismesse le scarpe e il cappotto, scopre una camicia e due piedi noir con le gambe piene di croste e ulcerazioni.
Da un fiasco o più spesso un brick di cartone beve vino scadente e si nutre di cose immangiabili, ad esempio carne trita cruda che forse gli regalano gli esercenti della zona.
Da ragazzo c'è stato un periodo che alla domanda: cosa faresti da grande? avrei risposto "il clochard", o meglio "il viandante" con una visione romantico-adolescenziale di chi ritiene che la cosa più bella della vita sia la libertà di andare a zonzo, senza fissa dimora, con una coperta di stelle, in contemplazione degli uomini e delle donne, senz'altra occupazione che di vivere e cogliere tutte le vibrazioni e le energie del Creato.
Ci credevo davvero a quella visione edulcorata e manieristica della vita dei clochard (che dignità questa parola francese rispetto allo spregiativo italiano "barbone"); li immaginavo come uomini solitari ma liberi, saggi per antonomasia, ricchi di tutto perché poveri di tutto.
Sarà perché allora di clochard-barboni se ne vedevano pochi, almeno qui a Bari, e io ne conoscevo uno, Giacomo, pieno di dignità, cui pagavo qualche volta da bere e che si portava dietro una fogliata di giornali vecchi che leggeva religiosamente, chissà cosa cavando dalle notizie e notiziole, quali pensieri e riflessioni, quali illuminazioni.
Oggi le città, e non dico Roma, ma anche questa città che tutta insieme fa poco più di un quartiere di Roma, pullulano di umanità povera e dolente, scarti di produzione sociale, giovani o vecchi, precariamente sani o inguaribilmente malati, come un povero storpio, forse albanese, forse rumeno, forse di chissàdove, che ho incontrato stamattina ad un semaforo e a cui ho dato un paio di euro.
Ne ho incontrato un altro così a Roma, e ad un collega che si chiedeva se fosse storpio o fingesse ho detto che andava bene comunque dargli un po' di soldi, perché se storpio li meritava per elementare solidarietà, se attore davvero troppo bravo.
Questo clochard del teatro Quirino, come molti, ragiona tra sè ad alta voce, qualche volta canta, non di rado s'infuria e grida grida grida: ma non gli fa caso nessuno, si passa al largo frettolosi, un po' come doveva farsi nel medioevo nei villaggi popolati di mendicanti carichi di stracci e lebbra.
A Roma, di questi tempi, va di moda il regalo dell'abbraccio: persone ti si avvicinano e chiedendoti il permesso ti abbracciano. Ma dubito che qualcuno abbracci questo omino inquieto dalle gambe piene di ulcere e croste, dai capelli e dalla barba sporchi e arruffati, dalla fiatata odorosa di vino scadente.
Chissà che un giorno, trovando un po' di coraggio, non riesca a regalargli io un abbraccio, magari prendendomi un urlo, o peggio un pugno, o forse l'incanto di due occhi stupiti e umidi di gratitudine.
Vorrei esserne capace, davvero.
C'è però qualcosa, anzi qualcuno che da qualche tempo, nelle mie giornate romane, colpisce la mia attenzione perché lo ritrovo ogni mattina sui gradini del teatro "Quirino-Vittorio Gassman" che s'affaccia proprio sulla corta e stretta strada, via delle Vergini, sul quale sorge il palazzo in cui hanno sede gli uffici del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (il C.S.M. in sedicesimo dei magistrati amministrativi, di cui sono componente).
D'inverno è intabarrato in un cappottaccio sdrucito, con un passamontagna da neve e due scarpacce che hanno visto tempi, molto remoti, migliori.
D'estate, dismesse le scarpe e il cappotto, scopre una camicia e due piedi noir con le gambe piene di croste e ulcerazioni.
Da un fiasco o più spesso un brick di cartone beve vino scadente e si nutre di cose immangiabili, ad esempio carne trita cruda che forse gli regalano gli esercenti della zona.
Da ragazzo c'è stato un periodo che alla domanda: cosa faresti da grande? avrei risposto "il clochard", o meglio "il viandante" con una visione romantico-adolescenziale di chi ritiene che la cosa più bella della vita sia la libertà di andare a zonzo, senza fissa dimora, con una coperta di stelle, in contemplazione degli uomini e delle donne, senz'altra occupazione che di vivere e cogliere tutte le vibrazioni e le energie del Creato.
Ci credevo davvero a quella visione edulcorata e manieristica della vita dei clochard (che dignità questa parola francese rispetto allo spregiativo italiano "barbone"); li immaginavo come uomini solitari ma liberi, saggi per antonomasia, ricchi di tutto perché poveri di tutto.
Sarà perché allora di clochard-barboni se ne vedevano pochi, almeno qui a Bari, e io ne conoscevo uno, Giacomo, pieno di dignità, cui pagavo qualche volta da bere e che si portava dietro una fogliata di giornali vecchi che leggeva religiosamente, chissà cosa cavando dalle notizie e notiziole, quali pensieri e riflessioni, quali illuminazioni.
Oggi le città, e non dico Roma, ma anche questa città che tutta insieme fa poco più di un quartiere di Roma, pullulano di umanità povera e dolente, scarti di produzione sociale, giovani o vecchi, precariamente sani o inguaribilmente malati, come un povero storpio, forse albanese, forse rumeno, forse di chissàdove, che ho incontrato stamattina ad un semaforo e a cui ho dato un paio di euro.
Ne ho incontrato un altro così a Roma, e ad un collega che si chiedeva se fosse storpio o fingesse ho detto che andava bene comunque dargli un po' di soldi, perché se storpio li meritava per elementare solidarietà, se attore davvero troppo bravo.
Questo clochard del teatro Quirino, come molti, ragiona tra sè ad alta voce, qualche volta canta, non di rado s'infuria e grida grida grida: ma non gli fa caso nessuno, si passa al largo frettolosi, un po' come doveva farsi nel medioevo nei villaggi popolati di mendicanti carichi di stracci e lebbra.
A Roma, di questi tempi, va di moda il regalo dell'abbraccio: persone ti si avvicinano e chiedendoti il permesso ti abbracciano. Ma dubito che qualcuno abbracci questo omino inquieto dalle gambe piene di ulcere e croste, dai capelli e dalla barba sporchi e arruffati, dalla fiatata odorosa di vino scadente.
Chissà che un giorno, trovando un po' di coraggio, non riesca a regalargli io un abbraccio, magari prendendomi un urlo, o peggio un pugno, o forse l'incanto di due occhi stupiti e umidi di gratitudine.
Vorrei esserne capace, davvero.
domenica, febbraio 04, 2007
Una storia di violenza calcistica: correva l'anno 1973
L'unico ricordo diretto che ho di un episodio di violenza negli stadi risale alla mia prima adolescenza.
All'epoca mio padre era consigliere comunale e, in tempi in cui il gettone di presenza era una vera miseria, per un consigliere comunale onesto (fu anche assessore comunale, ma per breve tempo, ovviamente proprio perché onesto: né faceva "affari", né soprattutto consentiva che altri ne facessero), l'unico vero "benefit" era la tessera omaggio del campo sportivo.
Nel caso si trattava della tessera dell'A.S. Bari, Matarrese era di là da venire e il presidente del Bari era un ginecoloco noto -Angelo De Palo- che ci rimetteva di suo, come accadeva ai vecchi presidenti mecenati tipo quello del "Borgorosso Football Club".
Era di là da venire anche lo stadio "San Nicola", la "astronave" costruita su progetto di Renzo Piano e realizzata per i mondiali di calcio del 1990, alla modica cifra (credo) di 120 miliardi o giù di lì.
Il Bari giocava allora nel vecchio stadio "Della Vittoria", opera pubblica del ventennio fascista, con le gradinate in pietra, senza copertura, con una capacità di circa 40.000 spettatori (più di quella che oggi si ritiene ideale per uno stadio di calcio di una media-grande squadra).
E quello stadio era sempre pieno zeppo, anche col Bari in serie B, anche col Bari in serie C.
Lo stadio sorgeva, e sorge, in fondo a un lungo e ampio viale detto "della Maratona", sul lungomare di Bari e ricordo la fiumana di pubblico che vi accedeva e vi sfollava, coi bagarini che vendevano i biglietti a cento metri dalle "gabbie" degli ingressi (altro che biglietti nominativi!).
A quattordici-quindici anni io passavo, rotondetto e tronfio, tra i bagarini, guardandoli con commiserazione: avevo in tasca la tessera della tribuna d'onore, e scusate se per un adolescente è poco!
Mi scocciava i primi tempi che gli addetti alle porte della tribuna mi guardassero sospettosi, quasi che la tessera l'avessi rubata, ma alla fine, a forza di vedermi di domenica in domenica, si rassegnarono a comprendere che ero legittimo possessore di quella tessera.
Di fronte alla tribuna centrale sorgeva una tribunetta in legno e tubi "innocenti", la c.d. tribuna maratona (qualche volta ci sono andato, e sembrava dovesse venire giù a ogni azione da goal).
Ebbene, era un Bari-Vattelapesca qualsiasi, di serie B e credo che capitò un arbitro di quelli un pò strabici, che vedevano solo i falli contro e non a favore.
Forse il Bari stava perdendo, forse fu negato un rigore, non ricordo proprio.
Fatto sta che, ad una ennesima vessazione, vera o presunta, alcuni scalmanati riuscirono a inerpicarsi sulle recinzioni e a scavalcarle, e fu il finimondo.
Prima dieci, poi venti, trenta, cinquanta, cento supposti tifosi invasero il campo di gioco e mentre arbitro e giocatori guadagnavano gli spogliatoi in fuga precipitosa, si diedero a distruggere tutto, panchine, porte, tabelloni pubblicitari.
La polizia intervenne come doveva, con cariche, e i disordini proseguirono fuori dallo stadio.
Anche i distinti e notabili spettatori della tribuna d'onore riuscirono a sfollare, ma nei viali dell'antistadio si combatteva la guerriglia, certo con mezzi meno sofisticati che a Catania (non mi pare ci fossero bombe carta all'epoca, comunque non si usavano ancora).
Non so come schivai una carica della polizia, non il fumo dei lacrimogeni (lo assaggiai di nuovo in qualche corteo, sempre come vittima e mai protagonista degli scontri).
Tornai a casa di corsa, con la coda tra le gambe, mezzo affogato dalle lacrime e dalla tosse.
Il Bari beccò una sonora squalifica del campo; e da allora non mi pare sia successa mai più una invasione di campo.
Quelle scene di violenza stupida, gratuita, bestiale, mi sono tornate in mente guardando le scene della "intifada" degli ultras catanesi: allora bastarono pochi lacrimogeni per disperdere la folla, ma dubito che gli ultras del Bari (ed erano di solito delinquenti comuni, e non ragazzotti annoiati) si sarebbero anche solo azzardati a resistere alle cariche della polizia.
Il "pattuglione" del reparto celere incuteva timore eccome!
Ora apprendiamo dai quotidiani e dalle TV che, invece, i nuovi ultras si preparano a puntino, si armano, pianificano gli scontri, e gli agguati, come quello in cui pare sia caduto il povero ispettore di polizia catanese.
E si dice da tutti che deve esserci tolleranza zero.
Allora non c'erano queste formule "magiche", non ce ne era alcun bisogno, una divisa era una divisa e da sola incuteva timore. Anche ai delinquenti che invasero lo stadio della Vittoria in un lontano pomeriggio domenicale di quasi trentacinque anni fa.
All'epoca mio padre era consigliere comunale e, in tempi in cui il gettone di presenza era una vera miseria, per un consigliere comunale onesto (fu anche assessore comunale, ma per breve tempo, ovviamente proprio perché onesto: né faceva "affari", né soprattutto consentiva che altri ne facessero), l'unico vero "benefit" era la tessera omaggio del campo sportivo.
Nel caso si trattava della tessera dell'A.S. Bari, Matarrese era di là da venire e il presidente del Bari era un ginecoloco noto -Angelo De Palo- che ci rimetteva di suo, come accadeva ai vecchi presidenti mecenati tipo quello del "Borgorosso Football Club".
Era di là da venire anche lo stadio "San Nicola", la "astronave" costruita su progetto di Renzo Piano e realizzata per i mondiali di calcio del 1990, alla modica cifra (credo) di 120 miliardi o giù di lì.
Il Bari giocava allora nel vecchio stadio "Della Vittoria", opera pubblica del ventennio fascista, con le gradinate in pietra, senza copertura, con una capacità di circa 40.000 spettatori (più di quella che oggi si ritiene ideale per uno stadio di calcio di una media-grande squadra).
E quello stadio era sempre pieno zeppo, anche col Bari in serie B, anche col Bari in serie C.
Lo stadio sorgeva, e sorge, in fondo a un lungo e ampio viale detto "della Maratona", sul lungomare di Bari e ricordo la fiumana di pubblico che vi accedeva e vi sfollava, coi bagarini che vendevano i biglietti a cento metri dalle "gabbie" degli ingressi (altro che biglietti nominativi!).
A quattordici-quindici anni io passavo, rotondetto e tronfio, tra i bagarini, guardandoli con commiserazione: avevo in tasca la tessera della tribuna d'onore, e scusate se per un adolescente è poco!
Mi scocciava i primi tempi che gli addetti alle porte della tribuna mi guardassero sospettosi, quasi che la tessera l'avessi rubata, ma alla fine, a forza di vedermi di domenica in domenica, si rassegnarono a comprendere che ero legittimo possessore di quella tessera.
Di fronte alla tribuna centrale sorgeva una tribunetta in legno e tubi "innocenti", la c.d. tribuna maratona (qualche volta ci sono andato, e sembrava dovesse venire giù a ogni azione da goal).
Ebbene, era un Bari-Vattelapesca qualsiasi, di serie B e credo che capitò un arbitro di quelli un pò strabici, che vedevano solo i falli contro e non a favore.
Forse il Bari stava perdendo, forse fu negato un rigore, non ricordo proprio.
Fatto sta che, ad una ennesima vessazione, vera o presunta, alcuni scalmanati riuscirono a inerpicarsi sulle recinzioni e a scavalcarle, e fu il finimondo.
Prima dieci, poi venti, trenta, cinquanta, cento supposti tifosi invasero il campo di gioco e mentre arbitro e giocatori guadagnavano gli spogliatoi in fuga precipitosa, si diedero a distruggere tutto, panchine, porte, tabelloni pubblicitari.
La polizia intervenne come doveva, con cariche, e i disordini proseguirono fuori dallo stadio.
Anche i distinti e notabili spettatori della tribuna d'onore riuscirono a sfollare, ma nei viali dell'antistadio si combatteva la guerriglia, certo con mezzi meno sofisticati che a Catania (non mi pare ci fossero bombe carta all'epoca, comunque non si usavano ancora).
Non so come schivai una carica della polizia, non il fumo dei lacrimogeni (lo assaggiai di nuovo in qualche corteo, sempre come vittima e mai protagonista degli scontri).
Tornai a casa di corsa, con la coda tra le gambe, mezzo affogato dalle lacrime e dalla tosse.
Il Bari beccò una sonora squalifica del campo; e da allora non mi pare sia successa mai più una invasione di campo.
Quelle scene di violenza stupida, gratuita, bestiale, mi sono tornate in mente guardando le scene della "intifada" degli ultras catanesi: allora bastarono pochi lacrimogeni per disperdere la folla, ma dubito che gli ultras del Bari (ed erano di solito delinquenti comuni, e non ragazzotti annoiati) si sarebbero anche solo azzardati a resistere alle cariche della polizia.
Il "pattuglione" del reparto celere incuteva timore eccome!
Ora apprendiamo dai quotidiani e dalle TV che, invece, i nuovi ultras si preparano a puntino, si armano, pianificano gli scontri, e gli agguati, come quello in cui pare sia caduto il povero ispettore di polizia catanese.
E si dice da tutti che deve esserci tolleranza zero.
Allora non c'erano queste formule "magiche", non ce ne era alcun bisogno, una divisa era una divisa e da sola incuteva timore. Anche ai delinquenti che invasero lo stadio della Vittoria in un lontano pomeriggio domenicale di quasi trentacinque anni fa.
sabato, febbraio 03, 2007
ETEROGENESI DEI FINI
Sto finendo di leggere un grande saggio che da troppo tempo avrei voluto conoscere e che sono riuscito ad acquistare nella libreria Rizzoli in galleria a Milano, dove sono andato, non per diporto, la scorsa settimana.
Si tratta di un libro forse più citato che letto, ma ciò non toglie che credo meriti di essere letto, al di là del titolo che ne ha decretato la fortuna (e che non c'entra nulla col titolo originale, che è semplicemente "Eichman in Jerusalem").
"La banalità del male. Eichman a Gerusalemme" è la raccolta riveduta e ampliata dei reportages che Hanna Arendt scrisse nel 1961 su un quotidiano statunitense dalle aule in cui si svolgeva il processo ad Adolf Eichman "il contabile dello sterminio".
Eichman fu catturato a Buenos Aires, dove era riparato dopo la fine della guerra, da un gruppo di agenti del mitico Mossad (il servizio segreto israeliano), soprattutto perché cedendo all'impulso narcisistico rilasciò un'intervista per rivendicare il suo ruolo nella "soluzione finale".
Uomo grigio, piccolo borghese, di piccole e ristrette vedute, di scarso sapere e cultura, era un funzionario "ligio alle leggi", e quindi alla legge suprema del Reich nazista, che era la parola e la volontà del Fuhrer.
Si "specializzò" negli "affari ebraici" organizzando e dirigendo le deportazioni che miravano a fare della Germania un territorio "judenfrei", ossia libero dalla presenza di ebrei; poi dopo la conferenza di Wansee in cui si misero a punto i dettagli organizzativi della soluzione finale fu l'organizzatore (ma non l'unico) del "concentramento" degli ebrei verso i campi di sterminio, parte importante, ma non unica, della macchina di sterminio che si avvalse, e questo mi ha proprio sorpreso, dell'aiuto essenziale dei Consigli ebraici, ossia di organismi composti dai più eminenti esponenti delle varie comunità ebraiche che contribuirono a stilare gli elenchi delle persone che andavano "concentrate".
La cosa più mostruosa, in fondo, è proprio questa: le vittime furono complici operosi dei carnefici, magari animate dalla giustificazione di salvare così e preservare le personalità più eminenti, a cominciare, è ovvio dagli stessi componenti dei Consigli ebraici.
L'abisso morale in cui il Nazismo precipitò l'Europa fu anche questo: il sovvertimento delle coscienze, l'annullamento di ogni confine tra bene e male, giusto e ingiusto, l'annichilimento di ogni valore, una tempesta in cui alla fine contava "salvarsi" e non essere "sommersi".
Non è storia nuova, ed è una storia che, se non in quelle dimensioni, non finisce mai.
Eppure, proprio dalla follia dello sterminio, dalla pratica "scientifica" del genocidio nacque la vera e decisiva spinta alla crescita del movimento sionista e alla costruzione dello Stato di Israele.
Sulle ossa calcinate dell'Olocausto nacque una Nazione ebraica e un futuro, superando quella vocazione delle comunità ebraiche all'internazionalismo, alla integrazione nelle varie patrie nazionali pur con la conservazione della propria specificità religiosa e culturale.
In un passo dello straordinario saggio di Hanna Arendt si cita Wilhelm Wundt, filosofo e padre della psicologia, che coniò o forse sistematizzò (credo che tracce del concetto vi fossero già in Giovan Battista Vico e il Thomas Hobbes) la felicissima formula della "eterogenesi dei fini" (mi ci sono imbattuto troppi anni fa in un manuale di filosofia del diritto).
Le azioni (e aggiungerei le regole) umane si propongono uno o più fini, ma non possono padroneggiare i molti fini diversi (o forse i molti effetti) che a loro possono coordinarsi o da loro scaturire, e magari si pongono al servizio inconsapevole e oggettivo di fini affatto opposti.
La formula mi sollecita un'altro ricordo scolastico-universitario, di diritto penale, quella dell'aberratio delicti: intendo colpire tizio, ma finisco per colpire caio.
Forse dietro l'eterogenesi dei fini vi è una "mano invisibile" che guida le azioni e le indirizza altrimenti?
E' il caso caotico, una nemesi, la Provvidenza?
Non so dare una risposta a questa domanda.
Sarebbe rassicurante se vi fosse una Volontà superiore, omnilungimirante, onniscente che giustifica l'eterogenesi dei fini: una volontà correttiva della cecità dei fini umani, della angusta limitatezza della visiona umana delle cose e del mondo.
Meno rassicurante, anzi del tutto inquietante, sarebbe dover riconoscere che anche l'eterogenesi dei fini è frutto dell'effetto farfalla, il cui battito d'ali contribuisce, secondo una felice e abusata immagine, a formare un uragano.
Ma, in fondo, anche una farfalla è una creatura di Dio: e se Dio avesse dato al suo povero battito di fragili ali una forza del genere, sarebbe questa pure una prova della Sua grandezza.
E aggiungo in conclusione una giusta umiliazione della presunzione umana.
Si tratta di un libro forse più citato che letto, ma ciò non toglie che credo meriti di essere letto, al di là del titolo che ne ha decretato la fortuna (e che non c'entra nulla col titolo originale, che è semplicemente "Eichman in Jerusalem").
"La banalità del male. Eichman a Gerusalemme" è la raccolta riveduta e ampliata dei reportages che Hanna Arendt scrisse nel 1961 su un quotidiano statunitense dalle aule in cui si svolgeva il processo ad Adolf Eichman "il contabile dello sterminio".
Eichman fu catturato a Buenos Aires, dove era riparato dopo la fine della guerra, da un gruppo di agenti del mitico Mossad (il servizio segreto israeliano), soprattutto perché cedendo all'impulso narcisistico rilasciò un'intervista per rivendicare il suo ruolo nella "soluzione finale".
Uomo grigio, piccolo borghese, di piccole e ristrette vedute, di scarso sapere e cultura, era un funzionario "ligio alle leggi", e quindi alla legge suprema del Reich nazista, che era la parola e la volontà del Fuhrer.
Si "specializzò" negli "affari ebraici" organizzando e dirigendo le deportazioni che miravano a fare della Germania un territorio "judenfrei", ossia libero dalla presenza di ebrei; poi dopo la conferenza di Wansee in cui si misero a punto i dettagli organizzativi della soluzione finale fu l'organizzatore (ma non l'unico) del "concentramento" degli ebrei verso i campi di sterminio, parte importante, ma non unica, della macchina di sterminio che si avvalse, e questo mi ha proprio sorpreso, dell'aiuto essenziale dei Consigli ebraici, ossia di organismi composti dai più eminenti esponenti delle varie comunità ebraiche che contribuirono a stilare gli elenchi delle persone che andavano "concentrate".
La cosa più mostruosa, in fondo, è proprio questa: le vittime furono complici operosi dei carnefici, magari animate dalla giustificazione di salvare così e preservare le personalità più eminenti, a cominciare, è ovvio dagli stessi componenti dei Consigli ebraici.
L'abisso morale in cui il Nazismo precipitò l'Europa fu anche questo: il sovvertimento delle coscienze, l'annullamento di ogni confine tra bene e male, giusto e ingiusto, l'annichilimento di ogni valore, una tempesta in cui alla fine contava "salvarsi" e non essere "sommersi".
Non è storia nuova, ed è una storia che, se non in quelle dimensioni, non finisce mai.
Eppure, proprio dalla follia dello sterminio, dalla pratica "scientifica" del genocidio nacque la vera e decisiva spinta alla crescita del movimento sionista e alla costruzione dello Stato di Israele.
Sulle ossa calcinate dell'Olocausto nacque una Nazione ebraica e un futuro, superando quella vocazione delle comunità ebraiche all'internazionalismo, alla integrazione nelle varie patrie nazionali pur con la conservazione della propria specificità religiosa e culturale.
In un passo dello straordinario saggio di Hanna Arendt si cita Wilhelm Wundt, filosofo e padre della psicologia, che coniò o forse sistematizzò (credo che tracce del concetto vi fossero già in Giovan Battista Vico e il Thomas Hobbes) la felicissima formula della "eterogenesi dei fini" (mi ci sono imbattuto troppi anni fa in un manuale di filosofia del diritto).
Le azioni (e aggiungerei le regole) umane si propongono uno o più fini, ma non possono padroneggiare i molti fini diversi (o forse i molti effetti) che a loro possono coordinarsi o da loro scaturire, e magari si pongono al servizio inconsapevole e oggettivo di fini affatto opposti.
La formula mi sollecita un'altro ricordo scolastico-universitario, di diritto penale, quella dell'aberratio delicti: intendo colpire tizio, ma finisco per colpire caio.
Forse dietro l'eterogenesi dei fini vi è una "mano invisibile" che guida le azioni e le indirizza altrimenti?
E' il caso caotico, una nemesi, la Provvidenza?
Non so dare una risposta a questa domanda.
Sarebbe rassicurante se vi fosse una Volontà superiore, omnilungimirante, onniscente che giustifica l'eterogenesi dei fini: una volontà correttiva della cecità dei fini umani, della angusta limitatezza della visiona umana delle cose e del mondo.
Meno rassicurante, anzi del tutto inquietante, sarebbe dover riconoscere che anche l'eterogenesi dei fini è frutto dell'effetto farfalla, il cui battito d'ali contribuisce, secondo una felice e abusata immagine, a formare un uragano.
Ma, in fondo, anche una farfalla è una creatura di Dio: e se Dio avesse dato al suo povero battito di fragili ali una forza del genere, sarebbe questa pure una prova della Sua grandezza.
E aggiungo in conclusione una giusta umiliazione della presunzione umana.
mercoledì, gennaio 17, 2007
Il senso delle cose
Manco dal blog da circa tre mesi. Ho avuto molto da fare, è vero. Ma non è questo il punto. E'che, ad un certo punto, sono stato colto da quell'afasia che credo sia comune alla maggior parte dei blogger estemporanei, nulla a che vedere con i veri blogger alla Chris.
In questi tre mesi quasi non si è fermato l'orrore della vita quotidiana, ultimo episodio, solo per ora, il massacro di Erba.
Ho letto uno splendido articolo di Galimberti su Repubblica che, traendo spunto da quellì'efferato delitto di sangue, indagava sulla perdita non della ragione ma del senso del sentimento, di quell'innata capacità di discernere il bene (almeno relativo) dal male (almeno assoluto) che viene prima della ragione stessa.
Ho ripreso la citazione in un breve discorso di saluto all'inaugurazione dell'anno giudiziario del T.A.R. Lecce (intervenivo in rappresentanza del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, il CSM dei giudici amministrativi, per intenderci).
Naturalmente in quella sede ho alluso al sentimento delle Istituzioni, cioé a quel senso delle Istituzioni che pure dovrebbe essere innato, o che almeno dovrebbe ritrovarsi in quanti sono pubblici funzionari, dagli impiegati amministrativi delle USL ai dirigenti statali ai magistrati, dall'ultimo e più modesto gradino sino ai vertici delle Istituzioni.
E invece proprio il senso delle Istituzioni è diventato un optional, almeno per molti, meglio una sorta di patetica concessione sentimentalistica a valori astratti, di tutti, cioé di nessuno secondo la strana logica di questa Nazione.
Io non posso dimenticare, l'ho detto e lo ripeto, che mio Padre parlava con grande rispetto quasi venerazione dello Stato, lui che era funzionario statale e ne era grandemente orgoglioso.
Io non posso dimenticare i maestri di scuola elementare che, anche allora con stipendi ridicoli (si chiamavano "parametri" e così si distinguevano: si legga il grande romanzo di Mastronardi "Il maestro di Vigevano") avevano ben presente il compito educativo delicatissimo che svolgevano, in un'Italia ancora non del tutto alfabetizzata in cui vi erano adulti che sudavano nei corsi serali per prendere la "licenza elementare", che era una cosa seria, un elemento essenziale di legittimazione sociale e culturale.
Io non posso dimenticare l'aura reverenziale che circondava le aule di giustizia, ai tempi lontani in cui ero un praticante procuratore legale, il senso di autorevolezza che emanavano i magistrati in toga coi capelli spruzzati di grigio.
Io non posso dimenticare l'orgoglio con il quale assieme a tre compagni "d'avventura" tornai in treno, da Roma, dopo l'orale del concorso in magistratura, e poi la tremebonda prima udienza da uditore giudiziario con funzioni, in cui mi toccò un giudizio per direttissima per furto aggravato in concorso, e al ritorno a casa alle sette e mezza di sera ero tanto fuso che mi venne il dubbio di aver sbagliato a calcolare le pene irrogate e chiamai il mio magistrato affidatario che lenì la mia irrazionale e infondata disperazione così profonda che mi sarei dimesso il giorno dopo (per fortuna non avevo sbagliato, ma chissà quanti errori ho fatto anche io dopo di allora, spero pochi e senza gravi conseguenze).
Ecco, a parte tutto, se c'è una stella polare che dovrebbe orientare il cammino su questa terra quella dovrebbe essere la retta coscienza di dare alle cose il valore che meritano, e a quella cosa così evanescente eppure così irrinunciabile che è il c.d. bene pubblico.
Illusioni da romantico ultimo o penultimo?
Come ho detto un'altra volta, lasciatemi sognare in pace.
In questi tre mesi quasi non si è fermato l'orrore della vita quotidiana, ultimo episodio, solo per ora, il massacro di Erba.
Ho letto uno splendido articolo di Galimberti su Repubblica che, traendo spunto da quellì'efferato delitto di sangue, indagava sulla perdita non della ragione ma del senso del sentimento, di quell'innata capacità di discernere il bene (almeno relativo) dal male (almeno assoluto) che viene prima della ragione stessa.
Ho ripreso la citazione in un breve discorso di saluto all'inaugurazione dell'anno giudiziario del T.A.R. Lecce (intervenivo in rappresentanza del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, il CSM dei giudici amministrativi, per intenderci).
Naturalmente in quella sede ho alluso al sentimento delle Istituzioni, cioé a quel senso delle Istituzioni che pure dovrebbe essere innato, o che almeno dovrebbe ritrovarsi in quanti sono pubblici funzionari, dagli impiegati amministrativi delle USL ai dirigenti statali ai magistrati, dall'ultimo e più modesto gradino sino ai vertici delle Istituzioni.
E invece proprio il senso delle Istituzioni è diventato un optional, almeno per molti, meglio una sorta di patetica concessione sentimentalistica a valori astratti, di tutti, cioé di nessuno secondo la strana logica di questa Nazione.
Io non posso dimenticare, l'ho detto e lo ripeto, che mio Padre parlava con grande rispetto quasi venerazione dello Stato, lui che era funzionario statale e ne era grandemente orgoglioso.
Io non posso dimenticare i maestri di scuola elementare che, anche allora con stipendi ridicoli (si chiamavano "parametri" e così si distinguevano: si legga il grande romanzo di Mastronardi "Il maestro di Vigevano") avevano ben presente il compito educativo delicatissimo che svolgevano, in un'Italia ancora non del tutto alfabetizzata in cui vi erano adulti che sudavano nei corsi serali per prendere la "licenza elementare", che era una cosa seria, un elemento essenziale di legittimazione sociale e culturale.
Io non posso dimenticare l'aura reverenziale che circondava le aule di giustizia, ai tempi lontani in cui ero un praticante procuratore legale, il senso di autorevolezza che emanavano i magistrati in toga coi capelli spruzzati di grigio.
Io non posso dimenticare l'orgoglio con il quale assieme a tre compagni "d'avventura" tornai in treno, da Roma, dopo l'orale del concorso in magistratura, e poi la tremebonda prima udienza da uditore giudiziario con funzioni, in cui mi toccò un giudizio per direttissima per furto aggravato in concorso, e al ritorno a casa alle sette e mezza di sera ero tanto fuso che mi venne il dubbio di aver sbagliato a calcolare le pene irrogate e chiamai il mio magistrato affidatario che lenì la mia irrazionale e infondata disperazione così profonda che mi sarei dimesso il giorno dopo (per fortuna non avevo sbagliato, ma chissà quanti errori ho fatto anche io dopo di allora, spero pochi e senza gravi conseguenze).
Ecco, a parte tutto, se c'è una stella polare che dovrebbe orientare il cammino su questa terra quella dovrebbe essere la retta coscienza di dare alle cose il valore che meritano, e a quella cosa così evanescente eppure così irrinunciabile che è il c.d. bene pubblico.
Illusioni da romantico ultimo o penultimo?
Come ho detto un'altra volta, lasciatemi sognare in pace.
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