sabato, giugno 03, 2006

Da Buttiglione (il colonnello) a Bertinotti


Negli anni '70 fu tutta una fioritura di filmetti della c.d. commedia all'italiana sull'esercito e i militari. Cominciarono Franco Franchi e Ciccio Ingrassia col "sergente Rompiglioni", una mini-saga credo in due o tre "puntate" nella quale già faceva capolino, tra i comprimari, Aldo Carotenuto, un attore di qualità che come tanti, in quegli anni, per guadagnarsi la pagnotta dovette accettare parti e particine in quei filmetti.
Carotenuto fu poi il trait d'union con le commedie sexy, che di tanto in tanto le TV locali (che però spesso ora trasmettono sul satellite, potere del digitale globalizzante!) ripropongono: "La dottoressa del distretto militare", "La soldatessa", "La soldatessa alle grandi manovre" e compagnie (e battaglioni) via cantando.
Negli stessi anni il personaggio radiofonico del colonnello Buttiglione diede vita a sua volta a un film e vari sequel, il primo interpretato da un attore caratterista francese Jaques Duphilo, gli altri da Aldo Maccione (che era poi uno dei "Brutos" complesso comico-vocale degli anni '60, quello in cui il più brutto di tutti prendeva immancabili scoppole dagli altri: mi riferisco a "misteri gloriosi della TV" noti solo agli anzianotti come me).
Regina incontrastata delle caserme a luci "rosse" (ma forse solo "rosa", visto che si vedevano nudi abbastanza "casti", rispetto a quelli attuali) era Edwige Fenech, ora splendida quasi sessantenne ancora molto bella e piena di glamour, che fece sognare almeno due generazioni di adolescenti, dividendoli nei due "partiti" dei fenechiani e dei bouchetiani (Barbara Bouchet era l'alternativa bionda della valchiria dalla chioma nera).
Indimenticabili protagonisti di quei film erano poi, oltre a Carotenuto, Aldo Montagnani (altro attore di teatro di qualità costretto ad arrotondare la mesata con quei film) e Alvaro Vitali (interprete della saga di "Pierino").
Quale era il mondo di quella vita militare?
Camerate in cui le reclute subivano atroci scherzi dai "nonni", si accollavano le corvee (immancabile la pulitura delle latrine), marcavano visita con i più ingegnosi sistemi; sottufficiali frustrati, generalmente tonti e prepotenti; ufficiali, colonnelli, generali tromboni.
Diciamolo: per molti anni l'esercito (onnicomprensivamente parlando delle tre armi) è stato visto come lo specchio della peggiore Italia, la sentina di ogni incompetenza e cialtroneria, una cosa sostanzialmente inutile e autoreferenziale.
Giocava in quel sentimento la memoria della guerra perduta, di ufficiali che non si dimostrarono all'altezza, lo scarsissimo sentimento nazionale, un amor di Patria diventato imbarazzante quasi come un'orientamento pedofilo, la naturale propensione italica a defilarsi, uno spirito "guerresco" del tutto evaporato.
Poi sono iniziate le missioni di pace: era il 1982 e un contingente italiano, al comando del generale Franco Angioni, fu spedito in un Libano martoriato dalla guerra civile tra musulmani e cristiano-maroniti (con i relativi sponsors siriano e israeliano) come forza d'interposizione sotto l'egida dell'ONU.
Ancora un decennio, e un'altro contingente italiano andò il Somalia nel quadro di una forza multinazionale che tentò, vanamente, di rimettere ordine nel paese del corno d'Africa sbrindellato pezzo a pezzo tra bande al servizio dei c.d. signori della guerra.
Vennero poi le missioni nei Balcani, la guerra "umanitaria" per proteggere le popolazioni del Kossovo (a proposito, lì l'Italia partecipò attivamente a missioni belliche, con le sue basi e i suoi aerei che andarono a bombardare i serbi...), il piccolo contingente di Timor est, la partecipazione a "enduring freedom", ossia al consolidamento della pace in Afganistan, e quella, da ultimo, tesa allo stesso obiettivo nell'Iraq meridionale.
Fu allora che scomparve l'immagine macchiettistica delle nostre forze armate, e iniziammo a celebrare i primi funerali dei primi militari caduti in azione dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Fu così che la parata del 2 giugno, che aveva conosciuto alterne vicende dalla sua istituzione nel 1948, riprese vigore e diventò un appuntamento di un qualche significato e di una certa solennità.
I contromanifestanti piddiccini, rifondaroli e verdi (solecheghigna, più che ridere) naturalmente non sanno niente di tutto questo, né della distinzione tra guerra d'aggressione, guerra difensiva, missioni di polizia internazionale, missioni umanitarie.
I loro leader, da Diliberto a Pecoraro Scanio, citano come sacro manifesto del pacifismo unilaterale e unidirezionale l'art. 11 della Costituzione.
Ma che dice l'art. 11 della Costituzione?
Che l'Italia, uscita come tutta l'Europa e il Mondo intero dalle macerie di una guerra terribile come la seconda mondiale, "ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli", ossia rifiuta la guerra di aggressione, volta alla conquista, e ripudia la guerra "come strumento di risoluzione delle controversie internazionali", ovvero l'escalation bellica tra nazioni che accampano reciproche pretese.
Rientrano in questo solenne paradigma le missioni di polizia internazionale, le missioni umanitarie, le missioni d'interposizione tra belligeranti?
A me non pare del tutto evidente.
Prendiamo i tre esempi: Kossovo, Afganistan, Iraq.
In Kossovo, si trattava di evitare una carneficina e una nuova pulizia etnica dopo quelle che Milosevic e i suoi soci avevano sostenuto in Bosnia e in altri pezzi della ex Jugoslavia.
In Afganistan, di stanare dai loro santuari i talebani e i qaedisti, coautori dell'11 settembre e di tante successive stragi.
In Iraq, di deporre un dittatore che aveva a sua volta fatto operazioni di pulizia etnica (i massacri dei curdi), sanguinose repressioni, appoggiando il terrorismo palestinese e islamico.
Sono state queste guerre di aggressione? Erano rivolte alla conquista di quelle nazioni e ad attentare alle libertà dei loro popoli? O non piuttosto a liberare quei popoli dal giogo di dittature sanguinarie e oscurantiste?
E' troppo sperare che queste cose le sappiano e ci riflettano i ragazzotti dei centri sociali; dovrebbero saperlo i "combattenti e reduci" ultracinquantenni della sinistra radical-kitch che amoreggiano con Castro e i neodittatori sudamericani; lo sanno ma hanno il loro tornaconto politico ad alimentare pacifismo e confusione i leader politici piddiccini, rifondaroli, verdi.
Di certo lo sa anche il Presidente della Camera, che ieri, imbarazzato e stranito, ha seguito la sfilata dal palco delle autorità per dovere istituzionale, cercando di rimanere "di lotta" (almeno un pochino) col distintivo arcobalenista sul bavero della giacca.
Non credevo di poter mai condividere un giudizio di Bondi (che trasfonde nella sua fede nel berlusconismo quella stessa cecità che molti trasfondono nella fede comunista e pacifista).
Ma Bondi ha detto ieri una cosa giusta: "Il modo con cui Bertinotti adempie alle sue responsabilità di presidente della Camera è imbarazzante e fa precipitare l'Italia nel ridicolo".
Chissà che non se ne sia accorta anche "Lady" la cagnetta meticcia mascotte dei carabinieri, in parata anche lei tra i monumentali cavalli dell'Arma.
Le cronache non lo dicono, ma mi piace immaginare che arrivata all'altezza del Presidente di lotta e di governo gli abbia abbaiato festante. E magari ha alzato la zampina posteriore, accostandosi al palco.

giovedì, giugno 01, 2006

Questioni di stile


La mia generazione aveva quattordici anni quando fu ucciso Luigi Calabresi, "il commissario", e ricorda le immagini in bianco e nero dei telegiornali, la pozza scura del sangue nell'angusto spazio tra due automobili, di quelle comuni rigorosamente nazionali, anzi "Fiat", che circolavano allora.
E se all'epoca della strage di piazza Fontana eravamo più piccoli, comunque avevamo avuto modo di conoscere, quali "contemporanei", la bomba piazzata nella sala circolare della Banca nazionale dell'agricoltura di Milano, la morte per "precipitazione" da una finestra del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, i sospetti su quel suicidio che molta parte della sinistra parlamentare ed extraparlamentare considerava un omicidio, o una messinscena di suicidio, gli slogan dei cortei ed uno in particolare "La strage è di stato, Pinelli assassinato", che nel 1972 si aggiornò in "Feltrinelli assassinato", quando l'editore rosso Giangiacomo, di sicure pulsioni rivoluzionarie, restò dilaniato sotto un traliccio dell'alta tensione da una bomba che, si disse, stava "piazzando" in prima persona (ma pochi ci credettero, almeno all'epoca).
Era, e rimane nonostante i tanti processi, dei quali quello di piazza Fontana chiusosi dopo infiniti dibattimenti in varie diverse sedi processuali senza colpevoli ufficiali e certificati, il periodo più oscuro e nebuloso della storia recente dell'Italia repubblicana.
Ma di quella nebulosa di immagini, titoli di giornali, cortei, slogan, bombe, sangue, pallottole, gruppuscoli di destra eversiva, gruppuscoli di sinistra rivoluzionaria, infiltrati, processi, rimane nitido un ricordo: l'immagine di "assassino" che, a torto o ragione, e molto probabilmente a torto, una generazione giovanile si fissò negli occhi, nella mente e nel cuore, del commissario Luigi Calabresi.
Non so dire se il suo omicidio, starei per dire nella logica dei suoi assassini la sua "esecuzione", ebbe davvero Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani come mandanti e Leonardo Marino e Ovidio Bompressi come esecutori materiali.
Una verità processuale, stabilita dopo un tormentato processo costellato di annullamenti della Cassazione e rinnovazioni dei giudizi di appello, vuole che appunto i quattro, in quei ruoli, abbiano compiuto quel delitto.
Una verità politica, questa non controvertibile, è che Luigi Calabresi fu additato come il boia di Pinelli, il prezzolato poliziotto al servizio di trame oscure, il "nemico del popolo" per antonomasia.
Ed è incontestabile che tra i più tenaci accusatori di Calabresi, che gli cucirono addosso l'immagine che si fissò nella mente e nel cuore della mia generazione e di quella immediatamente precedente(cioé del mondo giovanile sensibile alla politica), vi fu "Lotta continua", giornale-movimento di cui Adriano Sofri era il leader indiscusso e Pietrostefani e Bompressi dirigenti autorevoli.
E' comprensibile e umano che gli ex di LC disseminatisi nel mondo dell'informazione e della cultura (compresi i Lerner, i Mughini, e via andare) o qualche ex PCI amico alla Ferrara credano e giurino sull'innocenza di Sofri.
E' innegabile che l'Adriano Sofri giornalista e commentatore autorevole, che ha scritto reportage da Saraievo e intelligenti "lettere dal carcere" di Pisa su Panorama, sia persona stimabile e perbene.
Certo le "lettere dal carcere" e i quaderni di Antonio Gramsci non ebbero la stessa immediata diffusione e fortuna, ma c'era una dittatura, un regime, e in più Gramsci morì giovane, finito di consumare dal carcere non avendo salute di ferro.
Personalmente, e sul piano giuridico, ho dissentito dalla pretesa di Castelli di considerare come "duale", ed in senso politico, il potere di grazia, che, come poi riconosciuto dalla Corte Costituzionale, appartiene invece al solo Presidente della Repubblica.
E' vero però che questo istituto di antiche origini, espressione storica di un potere proprio dei sovrani assoluti, poi passato alle monarchie costituzionali, si attaglia molto meglio a delitti comuni che a delitti "politici", o se vogliamo essere precisi a delitti comuni di matrice e ispirazione "politica".
Per questi ultimi, se e in quanto sia possibile sotto il profilo storico e appunto politico, sono più congeniali atti di clemenza "collettivi", ossia amnistie e indulti.
Ma amnistie e indulti in questa materia sono a loro volta comprensibili solo quando si inaugura una stagione che chiuda, con passaggi più o meno sanguinosi seguiti da una rilegittimazione popolare del potere, una stagione precedente, in cui un potere, che non ha mai avuto o ha perso legittimazione popolare o democratica, abbia commesso delitti.
Tanto per intenderci: ancora si discute sulla famosa "amnistia Togliatti" dei delitti dei gerarchi fascisti, e della mancata "epurazione" delle classi dirigenti fasciste, riciclatesi in larga misura nella classe dirigente repubblicana; e son passati si badi, sessant'anni; e quella amnistia aveva comunque quale retroterra una guerra, e anche una guerra civile, e milioni di morti, e il passaggio dalla dittatura fascista alle libertà costituzionali e democratiche del nuovo regime repubblicano.
Ho la sensazione quindi che sia prematuro, ancora molto, se non del tutto inappropriato, invocare una "amnistia" per chi si è macchiato di delitti nella stagione del terrorismo e della delinquenza politica, con buona pace di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, Cossiga e circoli politico-culturali.
Anche perché non c'era un "regime" o una "guerra civile" che in qualche modo potesse legittimare terrorismo e guerra civile, come invece, ad esempio, per il terrorismo etnico basco o quello religioso irlandese.
E' davvero un nodo arduo: difficile immaginare l'adeguatezza della grazia, ancor più la percorribilità della strada dell'amnistia.
O meglio, va bene la grazia solo se giustificata da ragioni "umanitarie", riferite cioé alle sole condizioni di salute che rendano inutile nei suoi fini afflittivi e rieducativi l'espiazione della pena (e mi auguro perciò che le ragioni di salute di Bompressi siano vere, radicate e fondate, come non dubito peraltro).
Ciò vale a più forte ragione per Sofri, che come si sa è stato molto male, è sopravvissuto per miracolo e la cui salute potrebbe oggi essere seriamente minata.
Certo, non sarebbe stato sbagliato se la concessione della grazia a Bompressi fosse stata preceduta da un'iniziativa tesa a informare la vedova e i figli di Calabresi, se si fosse atteso ancora qualche mese, se non si fosse trattato quasi del primo atto del Presidente Napolitano, se questi avesse affidato la notizia a un più compassato comunicato stampa anziché a dichiarazioni in video.
Questioni di stile, forse: ma da un Presidente del cui stile non si è mai dubitato era legittimo attendersi un po' più di stile e sensibilità.

martedì, maggio 23, 2006

Per non dimenticare D'Antona e Biagi


Ieri sera ho visto la prima puntata di "Attacco allo Stato", una miniserie (due sole puntate)sugli omicidi di Massimo D'Antona e Marco Biagi, la casuale cattura di Nadia Desdemona Lioci dopo la sparatoria in cui rimasero uccisi l'altro brigatista Galesi e il sovrintentente polfer Petri, lo smantellamento delle nuove BR.
Ricordo il senso d'incredulità e sbigottimento alla notizia dell'omicidio di D'Antona e alla lettura del relativo "volantino" di rivendicazione: le BR sembravano appartenere ormai all'archeologia di una stagione di sangue, tra il 1970 e i primi anni '80, rimandando ad immagini sbiadite in bianco e nero di vecchi TG, ai titoli di pagine ingiallite di giornali, ad un clima di scontro sociale e politico ormai superato dalla globalizzazione.
E invece, sia pure con mezzi e militanti assai più ridotti, le BR erano "risorte" conservando l'armamentario ideologico allucinato del passato.
Svuotate le fabbriche di "quadri" operai in relazione all'avvento di processi produttivi all'insegna dell'automazione e alla delocalizzazione, le nuove BR si proponevano di parlare a nuovi interlocutori sociali, nell'area del lavoro precario e/o flessibile, dei centri sociali, dell'emigrazione, delle "nuove povertà".
Benché quel "progetto" sia stato sventato, è bene ricordarlo: se forse mai più i gruppi eversivi potranno avere la base di (relativa) massa che ebbero in passato, un'area di scontento sociale ci sarà sempre, e in quest'area di vecchie e nuove marginalità potranno sempre annidarsi i germi di azioni terroristiche o para-terroristiche (comprese le iniziative dei c.d. anarco-insurrezionalisti, con i loro pacchi-bomba); come pure non può escludersi che nel brodo di coltura di certi centri sociali allignino "alleanze" e "convergenze d'interesse" con gruppi terroristi islamici, nel comune cemento del risorgente antisemitismo (più o meno mascherato come critica allo stato d'Israele, che però è lo stato ebraico, e quindi parliamo della stessa cosa) e dell'imperituro antimperialismo anti-U.S.A.
Se rivado con la memoria al passato, ricordo ancora, alle prime azioni BR (il sequestro del sostituto procuratore Sossi, ad esempio, taluni "espropri proletari"...) il vivace dibattito interno alla sinistra giovanile di allora, il rifiuto di pensare che le BR potessero essere altro che "fascisti provocatori" da parte del P.C.I. e della F.G.C.I. o invece, da parte di taluni gruppi della sinistra extraparlamentare, la considerazione che si trattava di "compagni che sbagliano", cioé i cui obiettivi, e non anche i mezzi, erano in fondo condivisibili.
Scorrendo le biografie dei capi storici brigatisti, invece, si è visto che provenivano spesso dalle fila dei movimenti giovanili della sinistra "ortodossa", avevano matrice cattolica, coltivavano il mito della "Resistenza tradita", ossia della mancata insurrezione rivoluzionaria al termine della seconda guerra mondiale, organizzandosi in strutture che scimmiottavano quelle delle formazioni partigiane, e assegnandosi pseudonimi proprio come i partigiani.
I loro volti non erano estranei, come si è detto efficacemente, all'album di famiglia della sinistra italiana, anche se da quela famiglia erano poi usciti per entrare in clandestinità.
Certo rimane, e forse rimarrà sempre, oscuro il ruolo giocato nelle azioni più eclatanti (il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro) dai servizi segreti italiani, americani e sovietici, ed ancor oggi la lettura del libro di Flamigni "La tela del ragno" - Edizioni Kaos, appunto dedicato al sequestro Moro, lascia aperti molti inquietanti interrogativi.
Eppure, per tornare al bel sceneggiato (la seconda e ultima puntata stasera su canale 5), non era affatto casuale e sfuocato il senso di colpire due uomini come Massimo D'Antona e Marco Biagi, giuristi intenti, quali consiglieri di due diversi ministri del lavoro (il diessino Bassolino il primo, il leghista Maroni il secondo) alla stessa opera: costruire un "nuovo mercato del lavoro" in cui fossero coniugabili flessibilità e tutela dei diritti, nuove forme di lavoro e nuove garanzie giuridiche.
Se qualcosa manca nello sceneggiato è il clima in cui maturò soprattutto l'omicidio di Marco Biagi: non si può né si deve dimenticare le critiche, anche molto, troppo aspre, che alcuni settori del sindacato, della CGIL e della FIOM, mossero in quella stagione al giuslavorista bolognese, al suo "libro bianco", alla riforma che porta il suo nome (e che oggi settori della sinistra radicale parlamentare vorrebbero senz'altro eliminare con un tratto di penna). Il "cinese" Cofferati, prima di vestire i panni istituzionali di Sindaco di Bologna, e di intraprendere giuste battaglie per la "legalità" cittadina, polemizzò aspramente con Biagi e quei settori sindacali che non rifiutavano a priori le sue idee.
Sarebbe folle sostenere che quelle polemiche abbiano avuto un peso nella decisione delle nuove BR di uccidere Biagi; ma di certo non le dissuasero dal proposito criminale, e chissà alimentarono nella loro allucinata percezione della realtà l'idea che vi potesse essere un "consenso" ai loro obiettivi di lotta.
Voglio chiudere con un piccolo ricordo personale di Massimo D'Antona: nel dicembre 1983 quando sostenni l'orale del concorso per entrare in magistratura D'Antona era uno dei componenti della commissione di concorso; non aveva ancora i baffi, era molto giovane, molto gentile, e contribuì ad allentare la tensione con cui molti come me affrontavano quella difficile prova; sulla sua materia (Diritto del lavoro) ebbi 10.
Lo ritrovai qualche anno dopo, non so in quale convegno o occasione pubblica, e lo salutai ricordando quella prova orale.
Mi sorrise sotto i baffi.

sabato, maggio 20, 2006

La bestia nel cuore


"La bestia nel cuore" è un film bellissimo. L'ho visto ieri sera in pay per view su Sky. Ero tornato da Roma stanco e anche un po' depresso, per niente in particolare e per tutto in generale. Sapevo che era stato candidato all'Oscar per miglior film straniero. Ma il suo oscar lo aveva già vinto come successo di pubblico e critica. Sapevo che era tratto da un romanzo della stessa regista Cristina Comencini, e che il romanzo era andato a ruba. Sapevo che era uscito in contemporanea con "I giorni dell'abbandono" e che si era scatenata la solita guerra italiana "guelfi-ghibellini" tra i sostenitori della Margherita Buy, protagonista del film di Roberto Faenza, e quelli di Giovanna Mezzogiorno, intensissima interprete del film della Comencini.
Perché il film mi è piaciuto?
Secondo me un grande film, pur avendo un nucleo narrativo portante, deve essere capace di offrire una ricchezza di intrecci di storie, situazioni, sentimenti, vite come è normale nella vita di ogni giorno e di ciascuno.
La storia centrale è quella di due fratelli, Sabina e Daniele, figli di due austeri e all'apparenza grigi e inappuntabili insegnanti di scuola media superiore.
In una casa piccolo-borghese degli anni '60-'70, ingombra di mobili classici, solidi, comuni, con le porte di vetro smerigliato, si dipana l'esistenza di una famiglia "normale": il padre, severo, corregge i compiti nel suo studio, la madre, sbiadita e succube, li corregge in cucina.
La famiglia "normale" ha un "cuore di tenebra": dietro l'apparenza perbene della qualunque famiglia, così rassicurante nel quadretto classico (padre, madre, il maschietto più grande, la femminuccia), si nasconde il terribile segreto di un'infanzia violata, di un padre pedofilo che, finita la correzione dei compiti, percorre il corridoio e chiama il figlio, con voce lamentosa e quasi da bambino, per i suoi "giochi" malati; e dopo la ribellione del figlio, che la madre consapevole e accondiscendente cerca di rassicurare dicendogli "siamo una famiglia", approccia anche la piccola Sabina, solo due volte.
Troppo poco perché Sabina ne serbi un ricordo cosciente. Troppo perché non ne resti segnata nell'inconscio, dal quale l'incubo emergerà in forma di sogno dopo che essa avrà ripreso contatto con le foto dei genitori, di cui torna a occuparsi per la traslazione dei resti a distanza di anni dalla loro morte.
Emilia, l'amica cieca di Sabina, che vive rinchiusa in un appartamento con il suo cane, passando il tempo su un telaio e ascoltando musica, e che ama Sabina, e che ricorda quel ritratto di famiglia "normale" e "rassicurante", coglie il senso del rifiuto inconscio dell'amica di affrontare il dolore e l'angoscia quando le dice che lei cerca di mettere sempre una "distanza", un "distacco", dalle cose che la feriscono.
Maria, l'amica cinquantenne di Sabina, che la dirige nel suo lavoro di doppiatrice, non riesce a penetrare la superficie del mare oscuro che è la coscienza di Sabina, perché troppo presa a sopravvivere all'abbandono del marito, che si è messo con una amica della loro figlia, e che l'ha lasciata dicendole: "Vorrai mica che invecchi con te?".
Franco, il compagno di Sabina, attore di teatro duro e puro che alla fine si piega alle esigenze della quotidianità e accetta di recitare in un serial TV di ambiente medico, non sa andare oltre il piano consueto di un rapporto d'amore e convivenza.
Sabina decide allora di raggiungere il fratello Daniele in una piccola città degli U.S.A., dove egli insegna in quelle "incantevoli" realtà di campus universitari organizzati, ricchi di mezzi, libri, buoni rapporti sociali, case indipendenti con prato e giardino.
L'incontro sarà dirompente e decisivo: Sabina riuscirà a scuotere il rigido controllo in cui il fratello ha chiuso la sua sfera emotiva, sottoponendosi ad anni di analisi senza riuscire a liberarsi del tutto del trauma infantile, di cui rimane traccia nell'incapacità di abbracciare i propri figli nel terrore di ritrovare in quelle effusioni l'eco malata degli abbracci paterni, di ritrovare in sé le stigmate di una morbosità, di un "contagio" della depravazione.
Dal doloroso scavo nei ricordi infantili però i due fratelli porteranno alla luce non solo il grande affetto che li lega ma anche il senso di una famiglia che non hanno mai avuto: orfani e figli solo di se stessi, e per questo legati da un filo più profondo di quello "normale" tra fratelli, adulti senza infanzia eppure ancora bambini che l'infanzia dovranno viverla attraverso i loro figli.
Perché anche Sabina avrà un figlio da Franco, e lo chiamerà Daniele; e Daniele, nella scena finale, riuscirà finalmente ad abbracciare uno dei suoi due figli.
Il viaggio della vita quotidiana attraverso il dolore, la solitudine, la diversità.
La faticosa educazione alla vita e alla maturità.
Questo è il succo de "La bestia nel cuore", che a ben guardare non ha personaggi "minori", tra quelli femminili.
Non è una figura minore quella di Emilia, due volte diversa perché cieca e lesbica, che ama senza essere riamata Sabina e che trova la voglia di uscire dalla sua tana attraverso l'amore di Maria, donna concreta, pratica, forte ma ferita nel suo orgoglio, nelle sue certezze, dall'abbandono del marito per la solita sciaquina venti-trentenne; e Maria, a sua volta, nell'amore "diverso" di Emilia riscopre tenerezza, affetto, passione.
I personaggi maschili sono invece, salva la figura inquietante del padre di Sabina e Daniele, sfumati e sostanzialmente banali e stereotipati: Franco, il compagno di Sabina, che si ribella quando lei, in partenza per gli Stati Uniti, gli predice che la tradirà con la prima che "glielo fa rizzare", e in effetti si scopa una compagna di set; il regista del serial TV, che vagheggia un improbabile tenero film su due spazzini che ritrovano un bambino in un cassonetto e lo adottano.
Storia di dolore, solitudine, diversità, dicevo; e anche di speranza: le cicatrici, scrive Daniele a Sabina in una e-mail, restano ma bisogna imparare a vivere nonostante le cicatrici, lasciare che esse sbiadiscano, perdonarsi perché non si è colpevoli del male che si è ricevuto e di quello che non si è riusciti, nonostante tutti gli sforzi, a impedire.
Film bello anche nella tecnica, nei piani sequenza della casa dei genitori, abbandonata, coi mobili impolverati, tomba dei segreti inconfessabili della famiglia "normale", nella fotografia che vira su toni ora freddi ora caldi, nella recitazione intensa e così naturale di Giovanna Mezzogiorno (Sabina), Luigi Lo Cascio (Daniele), Stefania Rocca (Emilia), Angela Finocchiaro (Maria), nei simbolismi (la rottura delle acque di Sabina, in un vagone solitario nella campagna pugliese di una vacanza estiva, che nella sua mente è un fiume che travolge la casa famigliare e i suoi abitanti, spazzando via nel naufragio della famiglia quei legami inconfessabili e dolorosi).
Leggerò il romanzo.

domenica, maggio 14, 2006

BIANCONERI DEL BORGOROSSO


"Bianconeri del Borgorosso, rosso rosso rosso rosso, bianconeri del borgo rosso, rosso rosso football club"!
Ve lo ricordate l'inno intonato con orgoglio dall'indimenticabile Alberto Sordi, nei panni del Presidente del Borgorosso Football Club?
Sembra passato un secolo, ed era solo ieri o l'altro ieri. Le società di calcio non erano società quotate in borsa, i calciatori facevano lunghe trafile dalle serie inferiori, gli allenatori erano ruspanti come il mitico Oronzo Pugliese, con i suoi riti propiziatori (cui forse si ispirò Trappattoni ai mondiali nippo-coreani del 2002, senza fortuna, con l'acqua santa sparsa sul campo...), i giornali raccontavano con retoriche guerresche gli epici scontri della domenica pomeriggio (altro che anticipi e posticipi serali), il calcio era in bianco e nero come tutto il resto, ma non nel senso dell'egemonia juventina.
Tutto pulito a quei tempi? No, anche allora c'erano magagne, arbitri comprati e venduti, ma in maniera "casereccia", alla buona, senza metodo "scientifico", senza pianificazioni che magari coinvolgevano interi campionati e poi qualificazioni in coppa dei campioni (così si chiamava allora, prima che l'anglicismo imperversante e la formula a gironi eliminatori ne facessero un supercampionato europeo).
I Presidenti erano industrialotti che scoprivano il pianeta calcio mettendoci dentro quel tanto di mecenatismo che avevano e potevano, magari rovinandosi, come appunto il Presidente del Borgorosso, senza decreti "spalmadebiti" e salvataggi più o meno politici, senza "parametri" di ripescaggio, con la forza della proprietà dei cartellini dei giocatori, che erano veri "lavoratori dipendenti" e non "liberi professionisti" della pedata, senza sponsor unici, tecnici, senza nomi sulle maglie, senza dirette televisive e processi televisivi di compagnie di giro.
A quei tempi il calcio aveva il sapore e il colore di "Tutto il calcio minuto per minuto", già "90° minuto" era un'innovazione trascendentale, "La Domenica Sportiva", condotta da Enzo Tortora o da Tito Stagno un vero rito religioso per i fedeli di "Eupalla" (la immaginifica divinità della penna inimitabile di Gianni Brera), le moviole avevano immagini sgranate, da cui si vedeva abbastanza poco, gli arbitri erano i signori e padroni incontrastati del campo di gioco, e Concetto Lobello aveva l'autorità di un ministro.
L'arrivo delle dirette, dei digitali terrestri, spaziali, interplanetari, interstellari e intergalattici (gli unici "spazi" in cui l'Inter sia incontestabilmente prima!), le ricche sponsorizzazioni, il riparto della ricca torta dei diritti TV, la lievitazione incontrollata dei prezzi dei giocatori svincolati dalla sentenza "Bosman", e quindi dei loro ingaggi, e di conserva quella degli "onorari" dei loro procuratori, dei compensi degli allenatori, dei dirigenti-manager, di tutta la compagnia "contante" (forse solo i magazzinieri ne son restati fuori), hanno fatto del calcio un'industria: e siccome i profitti dipendono dai risultati e dai titoli vinti, è quasi naturale che in questa industria allignassero, come d'altra parte in tanti settori di questo Paese, pratiche "anticoncorrenziali" e "cartelli oligopolistici".
Che ha fatto, in fondo, Moggi di diverso da quanto hanno fatto e fanno i capitani d'industria, compresi quelli presuntamente "coraggiosi" celebrati ai tempi della privatizzazione della Telecom, i Consorte, i Fiorani, i "furbetti del quartierino" noti e quelli meno noti sfuggiti alle maglie della giustizia, i tanti che hanno beneficiato delle privatizzazioni sostituendo monopoli privati a monopoli pubblici (vedi caso Autostrade)?
Ha, ne più né meno, applicato, con gli adattamenti del caso, pratiche anticoncorrenziali, per consolidare un oligopolio pallonaro che generasse profitti.
Tanto più che l'azionista di riferimento della Juve si era man mano sfilato dalla gestione e disimpegnato finanziariamente (un po' come accaduto alla Fiat sino a appena due anni fa) e quindi si doveva "industriare" e "ingegnare".
Dopo di che, siccome anche Moggi "tiene famiglia", come poteva non pensare a "sistemare" il figlio?
Mi scoccia dar ragione a Mughini, ma è vero che troppe "vergini" presunte e dell'ultima ora si stracciano le vesti disperate e affrante, non avendo sino a ieri o all'altro ieri disdegnato l'alcova del "manovratore" o le sue blandizie, tessendone le lodi, contendendoselo per le sue capacità di novello Re Mida del mondo pallonaro.
Certo, è un po' triste (e se lo dice un interista c'è da credergli) vedere i tifosi juventini che nonostante tutto, oggi, hanno invaso Bari e il San Nicola, in un tripudio di sciarpe e cappellini bianconeri e bandiere tricolori, per festeggiare uno scudetto solo provvisoriamente assegnato, destinato con ogni probabilità a essere revocato, assieme al 28°, e fosse solo questo sarebbe niente perché a leggere i giornali la retrocessione è cosa abbastanza probabile, se non certa.
Vedendoli passare, nei pullman scortati dalla polizia, guardando in TV le immagini di piazza Castello a Torino, quei festeggiamenti un po' mesti ricordano i funerali di New Orleans, con le orchestre di diexiland che suonano motivetti allegri accompagnando le bare al cimitero.
Ma anche questi tifosi hanno poi diritto a tutta la comprensione del mondo? Non sono loro che, insaziabili, incontentabili, incontenibili, hanno spinto questo mondo pallonaro, inscenando manifestazioni di piazza per la cessione o il mancato acquisto di un campione, alimentando i processi televisivi e le compagnie di giro dell'avanspettacolo calcistico-giornalistico?
Fa un po' ridere, devo proprio dirlo, sentire che qualcuno, per cavalcarne la delusione, arrivi a prospettare richieste di risarcimenti alla Lega, alla FIGC, alla Juve, alla Triade, nel nome dei diritti del consumatore, quasi che ci sia un diritto a vincere gli scudetti, a non retrocedere, a qualificarsi per le coppe europee.
Se la rifondazione comincia così, c'è poco da sperare.

mercoledì, maggio 10, 2006

BUONA FORTUNA, "COMPAGNO" PRESIDENTE


Una voce insistita vuole che Giorgio Napolitano sia figlio naturale di Umberto II, e certo alla fortuna di questa leggenda metropolitana ha giovato la notevole somiglianza fisica tra il neopresidente della Repubblica e il c.d. "re di maggio": stessa stempiatura giovanile e alta, stessi tratti aristocratici, stesso fisico asciutto, verrebbe da dire anche stessa incontestabile "regalità" di posture, eleganza sobria, toni, timbri vocali.
Se non si trattasse soltanto di una leggenda metropolitana, verrebbe da pensare che l'ascesa al Colle di Giorgio "il migliorista" sia una di quelle curiose "vendette" che la Storia ogni tanto concede: Napolitano s'insedia nel palazzo del Quirinale esattamente sessant'anni dopo (giorno più giorno meno) in cui ne uscì Umberto II, salutando una piccola e affranta folla, per salire su un aereo che lo avrebbe portato nell'esilio portoghese di Cascais.
Al di là di stupidi e ingialliti "gossip", il giudizio sulla elezione di Giorgio Napolitano alla massima carica istituzionale della Repubblica si presenta complesso e articolato.
E' indiscutibile il profilo istituzionale della personalità politica: Napolitano, allievo di Giorgio Amendola, animatore dell'ala "migliorista", e cioé moderata (o di "destra") del vecchio P.C.I., "ministro degli Esteri" ombra del vecchio "Bottegone", è stato presidente della Camera e poi, soprattutto, Ministro dell'Interno, titolare cioé di un dicastero che sino allo sfaldamento del blocco comunista, tra il 1989 e il 1991, mai e poi mai la vecchia D.C. avrebbe ceduto ad altri: dai tempi lontani di Scelba troppo importante era il controllo di un Ministero che comanda Prefetti, Questori, Polizia di Stato e costituisce il vero nerbo della macchina amministrativa dello Stato.
Nel vecchio P.C.I., peraltro, l'influenza di Napolitano (e anche del suo maestro Amendola) era abbastanza modesta, come sul versante opposto dell'estrema sinistra quella di Pietro Ingrao (primo presidente comunista della Camera), per la larga egemonia del "centro" berlingueriano.
E d'altra parte per chi, come Napolitano, ha vissuto tutta intera la propria parabola politica nel P.C.I. dominato dalle figure di Palmiro Togliatti, Luigi Longo ed Enrico Berlinguer, era una "missione impossibile" conquistare spazi di maggiore influenza nel partito.
Soltanto leaders carismatici come i tre citati (cui nei vecchi slogan del P.C.I. si aggingeva quale nume tutelare la figura di Antonio Gramsci: Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, a indicare una continuità più postulata che reale, soprattutto tra Gramsci e Togliatti) potevano tener assieme le anime di un grande partito di massa in cui convivevano aspirazioni di stampo più o meno socialdemocratico (come quelle "miglioriste", appunto) e ispirazioni "gauchiste" di alternativa di sinistra (come quelle ingraiane) dalle quali del resto aveva tratto spunto la mini-scissione del gruppo de "Il Manifesto".
Se Amendola e Napolitano guardavano all'esperienza storica della SPD e della socialdemocrazia tedesca (dominata dalla grande figura di Willy Brandt, già sindaco di Berlino Ovest e poi indimenticato cancelliere tedesco), il gruppo de "Il Manifesto" e Ingrao criticavano da sinistra l'esperienza storica del comunismo burocratico sovietico, con qualche apertura all'esperienza maoista.
Toccava appunto a Barlinguer tenere la barra al centro e cercare una "terza via" quella dell'Eurocomunismo, con i leader del Partito comunista spagnolo e portoghese (il partito comunista francese di Marchais era su posizioni filosovietiche ortodosse); fallito poi l'Eurocomunismo, Berlinguer si arroccò, com'é noto, nella difesa orgogliosa e intransigente della "diversità comunista", imperniata sulla questione morale, e forse perse l'occasione storica per lanciare una sfida di vero riformismo e modernizzazione (quella che aveva intuito il primo Craxi, prima di impaniarsi nel CAF (Craxi Andreotti Forlani) ossia nel patto di potere che lo portò alla rovina).
Riemerge ora, da quel passato, e questa sì che è una rivincita, la figura di Napolitano che, poco incisiva nella vita e nella politica del P.C.I., si consegna ad un impegno istituzionale per il quale ha di certo un profilo più che adeguato, ma che, nella confusa situazione politica italiana, avrebbe forse postulato una personalità più netta e politicamente forte.
Con un governo che sarà debole e guidato da un Prodi sempre in bilico nel tentativo di tener assieme la sua eterogenea maggioranza, un'opposizione a sua volta non coesa in modo granitico (e dalla quale la Lega si sfilerà, con ogni probabilità, dopo la sconfitta annunciata al referendum costituzionale di fine giugno) e attraversata dalla non troppo sotterranea guerra di successione a Berlusconi (che soltanto radicalizzando lo scontro può sperare di conservare la sua leadership, come infatti sta facendo), una situazione dei conti pubblici dissestata, una ripresa economico-produttiva ancora incerta e non tumultuosa, un panorama europeo e internazionale complesso e pieno di nuvole minacciose, la cultura e l'equilibrio istituzionale di Napolitano rischiano di ridimensionarne il ruolo a quella funzione "notarile" che fu propria dei presidenti della Repubblica sino a Giovanni Leone.
La strisciante trasformazione del ruolo presidenziale, il rafforzamento del Quirinale, concise con la crisi del sistema dei partiti, a cominciare dal sequestro e dall'omicidio di Aldo Moro, il cui significato è stato forse poco compreso e valorizzato.
Aldo Moro, di cui due giorni fa è ricorso il ventottesimo anniversario della tragica morte, aveva compreso come fosse ineludibile una transizione politica, istituzionale e sullo sfondo costituzionale di cui il compromesso storico, e l'ingresso del P.C.I. nell'area della maggioranza parlamentare e, in prospettiva, nel governo, costituiva un passaggo obbligato, dato il contesto internazionale (erano gli anni del breznevismo e dell'apice della potenza "imperiale" sovietica).
Quel tentativo era in anticipo di oltre dieci anni rispetto ai tempi storici: il mondo era segnato ancora dalle demarcazioni e dai confini tra le sfere d'influenza disegnate nella conferenza di Yalta e di Potsdam, e quella "sperimentazione" non poteva avere successo, risultando inaccettabile tanto a Washington quanto a Mosca (al di là di ogni zona d'ombra, tutt'altro che dissipata, sul ruolo che i servizi statunitensi e sovietici, la C.I.A. e il KGB, possano aver giocato nella vicenda).
La incipiente crisi dei partiti produsse la presidenza forte (anche se un pò populista) di Sandro Pertini, grande "vecchio" della Resistenza, socialista incatalogabile nella geografia correntizia del vecchio P.S.I., primo vero "nonno" della Repubblica (nel senso buono: da allora gli italiani hanno gradito la presenza sul Colle di augusti vegliardi, e questo spiega anche il successo popolare di Ciampi e il preconizzabile successo, nella stessa linea, di Napolitano).
Una presidenza forte, ma non amata per il carattere dell'uomo e i suoi indimenticati trascorsi di Ministro dell'Interno negli anni più aspri e bui del decennio 1970-1980, tali da meritargli il "K" iniziale e l'odio di una generazione studentesca extraparlamentare, tra le cui fila avrebbero pescato i gruppi armati dell'eversione di sinistra, fu quella di Francesco Cossiga, il "picconatore".
Una presidenza tendenzialmente forte, anche se nata nel momento di massima debolezza della politica e del parlamento, e sotto il frastuono orrendo dell'attentatuni di Capaci, è stata quella di Oscar Luigi Scalfaro, che ha segnato il punto di massima divisione tra le forze politiche nate dal naufragio giudiziario-mediatico della prima repubblica.
Una presidenza forte, sempre nel segno però della sostanziale debolezza della politica della seconda repubblica e dell'aspra divaricazione tra maggioranza polista e opposizione di centrosinistra, è stata quella di Carlo Azeglio Ciampi, "civil servant" non sgradito ai c.d. mitici "poteri forti" e cioé a quel groviglio di interessi e istituzioni industriali e finanziarie, coi i loro relativi "media" di riferimento (l'area della stampa, più che quella delle televisioni, ovviamente), che sia in relazione alla "apoliticità" (meglio "apartiticità") della persona che al profilo bonario di "nonno" della Repubblica, e ad una condivisa operazione di "marketing" mediatico, si è proposto come "il Presidente più amato dagli Italiani".
L'ascesa al Colle di Napolitano si pone in evidente linea di continuità, sotto questo profilo, del "ciampismo", benché l'elezione non sia avvenuta con la larga maggioranza del predecessore per l'esigenza di Berlusconi di smarcarsi dal tentantivo aennino-uddiccino, e cioé finian-casiniano, di farsi "garanti" dell'opposizione di centrodestra nei confronti del centrosinistra, e sotto sotto di marcare l'inizio di una "fuoriuscita" dalla stagione del berlusconismo e di rompere l'asse di ferro tra Berlusconi e Lega.
Certo l'elezione di un ex comunista, e la definitiva caduta anche per la massima carica istituzionale del c.d. fattore "K" (ossia della pregiudiziale anticomunista) ha anche un suo significato storico-istituzionale, perché è vero che chiude, col tramonto definitivo di quel fattore (per vero già declinato con la presidenza del consiglio a D'Alema e prima ancora col ministero dell'Interno a Napolitano) la stagione della prima repubblica e delle sue regole non scritte ma cogenti.
Napolitano sarà certamente il presidente "di tutti" e "super partes": e come potrebbe essere diversamente?
Il punto è, semmai, se la sua presidenza saprà produrre quegli stimoli forti verso un rinnovamento della politica, del suo quadro, delle sue strategie, in una parola verso le riforme istituzionali come si suol dire "condivise", che altra personalità più marcata e più forte politicamente, come D'Alema, avrebbe probabilmente saputo e potuto imprimere.
Il "paradosso italiano" potrebbe essere proprio questo: che un presidente "super partes" serva peggio la causa di una reale ristrutturazione del quadro politico e di un superamento condiviso dello stato di belligeranza continua tra maggioranza e opposizione di quanto avrebbe potuto un presidente "intra partes".
La risposta non la darà la Storia, con la S maiuscola, ma probabilmente già la cronaca politica dei prossimi mesi.
In ogni caso gli italiani ritrovano un "nonno della Repubblica", equilibrato, istituzionale, molto "british", elegante, e, ciò che non guasta, meridionale: un uomo di partito, ma non "partigiano" o partitizzato, che nel contesto internazionale farà la sua brava e innegabile figura, un'immagine idealtipica di un Presidente.
Buona fortuna, compagno Presidente.

sabato, maggio 06, 2006

ANNIVERSARI


Curiosa la sequenza di funesti anniversari che si è sgranata in questi tre anni: il 2 dicembre 2004 sono trascorsi venti anni dal disastro chimico di Bhopal, il 6 e 8 agosto 2005 sessant'anni dai funghi atomici all'uranio e al plutonio di Hiroshima e Nagasaky, il 26 aprile 2006 venti anni dall'incidente di Chernobyl, tra due mesi saranno trent'anni dall'incidente di Seveso.
Per fortuna l'ultimo anniversario ricorda un evento meno drammatico nelle conseguenze: la dispersione in atmosfera della diossina dalla fabbrica ICMESA di Seveso produsse molti casi di cloracne e vari disturbi, forse non ancora compiutamente valutabili nella loro entità, ma nulla di paragonabile agli altri eventi dei grani di questo drammatico "rosario", anche se ebbe giusta e grande risonanza.
Chernobyl, a quanto se ne sa (e non se ne sa ancora abbastanza) ha fatto forse molte, molte decine di migliaia (qualcuno dice duecentomila) morti e continua a mietere migliaia di vite a distanza di tanto tempo: il sarcofago di cemento che racchiude il reattore n. 4 (dove si verificò la "fusione del nocciolo" e l'esplosione che immise in atmosfera una quantità di radiazioni di gran lunga superiore a quelle rilasciate dalle bombe di Hiroshima e Nagasaky) è pieno di crepe, potrebbe crollare, attende la realizzazione di una colossale struttura ulteriore di protezione.
Sulla rete in effetti non si trova tantissimo, in termini di informazioni accessibili e non strettamente tecniche, sull'incidente e la sua dinamica, frutto di una somma di inadeguatezze tecniche e incredibili errori umani, alimentati dalla mentalità burocratica e ottusa di un ingegnere nucleare.
Bhopal ha trovato invece due narratori straordinari, Dominique Lapierre e Javier Moro, che con "Mezzanotte e cinque a Bhopal" hanno raccontato con rigorosa documentazione ma in forma quasi romanzesca (da vero reportage) come e perché un colosso americano della chimica la Union Carbide Corporation" decise di impiantare una fabbrica per la produzione del pesticida "Sevin" nel cuore millenario, misterioso, magico dell'India e poi, dinanzi alla crisi produttiva determinata dalle ricorrenti siccità che affliggevano il paese dei maraja, la lasciarono andare progressivamente alla malora sino a determinare quella catena di carenze di manutenzione, assurdo stoccaggio di grandi quantità di MIC (isocianato di metile), operazioni di lavaggio condotte con approssimazione, depauperamento delle condizioni di sicurezza, che portarono nella fresca serata del 2 dicembre 1984 all'esplosione della vasca n. 610, in cui erano contenute duecento tonnellate di isocianato di metile e alla liberazione di una nube di vapori tossici che, scomponendosi in gas miciliali (tra cui l'acido cianidrico) avvolse dapprima le bidonville che sorgevano attorno alla fabbrica, quindi la stazione ferroviaria e alcuni quartieri della città.
Non si ha nemmeno un'idea precisa dei morti (l'intervallo attendibile tra sedicimila e trentamila la dice lunga) e dei contaminati (almeno duecentomila), che più sfortunati dei primi hanno avuto la vita segnata da cecità, gravissimi disturbi respiratori, neurologici, psichiatrici, cancri di vario genere, colpiti spesso sin dal ventre delle loro madri incinte all'epoca del disastro.
La storia del disastro di Bhopal è la storia delle conquiste e delle illusioni della chimica, dell'idea di poter debellare le carestie prodotte dal furioso assalto di parassiti devastanti, di offrire un sollievo alla fame del mondo: come in tutte le storie umane si intrecciano grandi ideali e aspirazioni e meschini calcoli di profitti più o meno rapidi, preveggenze inascoltate e negligenze ottuse e intollerabili, vigliaccherie ed eroismo.
Ho letto il libro in meno di tre giorni, lo desideravo da anni dopo aver visto un servizio in televisione all'epoca della sua uscita editoriale, l'ho comprato entrando per un caso nel Feltrinelli Megastore della Galleria Alberto Sordi di Roma.
A volte mi chiedo se, dietro la mia curiosità per i grandi disastri (posso considerarmi un conoscitore della tragedia della diga del Vajont, per aver letto credo quasi tutti i libri pubblicati in argomento, oltre che aver visto e rivisto il film di Renzo Martinelli e la drammatizzazione di Paolini), si celi quella tipica pruderie che suscita l'idea e l'immagine delle catastrofi, delle morti collettive, dell'intreccio misterioso di destini che si compiono all'unisono per il solo fatto spesso casuale e banale di essere al posto sbagliato nel momento sbagliato.
Eppure, al di la di questa pruderie, che non voglio negare (sapendo di non essere migliore o più nobile di nessun comune mortale), ciò che mi spinge è un bisogno di comprensione profonda, di "immedesimazione", di condivisione del senso tragico ed esistenziale di questi drammi collettivi, forse anche un sottile senso di colpa, nella consapevolezza di essere il solito fortunato che può leggerne senza pagare in prima persona le conseguenze.
Bella la vita di chi è nato da buona, anche se non ricca, famiglia, che ha un lavoro sicuro, una salute almeno sinora buona, in un angolo tranquillo d'occidente, di una città non più brutta di tante altre.
Quale dannato karma ha portato, invece, migliaia, milioni di esseri umani a nascere o a vivere sulla "spianata nera" attorno alla fabbrica di Bhopal?
E perchè il dolore colpisce sempre, o quasi, chi già dal dolore tanto è stato colpito?
Come spiegare tutto questo sapendo che Dio è buono?

domenica, aprile 30, 2006

Rose and Jack


Le cose non accadono mai per caso.
Stamattina, quando ho "postato" l'ultimo commento sulle elezioni dei presidenti delle camere, l'ho intitolato al "Titanic" e l'ho accompagnato con una bella immagine del transatlantico più famoso e sfortunato della storia.
In realtà avevo in testa un servizio, letto su "Io donna" allegato al Corsera di ieri, dedicato a Kate Winslet.
Kate Winslet è l'attrice che ha dato corpo e vita al personaggio di Rose, la protagonista del "Titanic" di James Cameron.
Confesso che quando "Titanic" uscì nelle sale, anni orsono, mi rifiutai di andarlo a vedere.
In effetti, vado poco a cinema, e sopratutto quasi mai a vedere i film di cui tutti parlano mentre se ne parla, e proprio forse perché se ne parla.
Pigrizia, snobismo? L'una e l'altro.
Nel caso di "Titanic" poi le notizie di frotte di ragazzine adolescenti che lo rivedevano quattro-cinque volte di seguito, inzuppando montagne di fazzolettini di carta e sospirando a ogni inquadratura di Leonardo Di Caprio (bello avere, almeno, il suo stesso nome!), mi davano i brividi.
Confondermi con quelle pischelle tenerone, magari con le loro camerette zeppe di posters di "Titanic"? Giammai!
Ho visto poi "Titanic" a distanza di qualche tempo, in un cinema estivo di Rosa Marina, villaggio turistico sulla marina di Ostuni, in una serata stellata di agosto.
Mi è piaciuto, tantissimo. Di più. Mi ha commosso, profondamente.
E così, mica poi tanto diverso dalle adolescenti lacrimose, l'ho rivisto in TV quasi a ogni passaggio; e se capita lo rivedo ancora.
Cosa c'è in questo film che riesce a incantarmi?
A prima lettura, in fondo, è niente più e niente meno di un kolossal fumettone americano, con grande dispendio di mezzi ed effetti speciali.
Vero, ma dipende con quali occhi lo si guarda.
Un film ha tanti piani di lettura, e più lo vedi più, come in una scansione, li scopri uno a uno.
Il primo strato è quello del kolossal, certo, e se ti fermi a questo lo archivi come un esempio, di quelli buoni, della colossale macchina produttiva americana, commenti "gli americani li sanno fare 'sti film, e ci hanno pure i mezzi" e finisce li.
Poi, però, se lo rivedi e ci pensi su ti accorgi che c'è qualcosa di più.
Una grande, bella, commovente storia d'amore, anzitutto, fresca, intensa, palpitante, che si brucia in una notte stellata, l'ultima del "Titanic".
Una storia impossibile, come tutte le grandi storie d'amore, tra un vagabondo col genio del disegno, Jack, e una rampolla di una decaduta famiglia inglese, Rose, costretta a promettersi a un giovane squalo del mondo degli affari americano, ricco, ignorante, possessivo, volgare.
Rose è una giovane splendida donna, assetata di vita, di bellezza, di esperienze, di verità, che non disdegna di ballare in terza classe, che vuole imparare a sputare come un uomo, che vuole andare a cavallo a gambe larghe come un uomo.
La vera protagonista di "Titanic" è Rose, il suo coraggio di ribellarsi ai ruoli, ai copioni di vita scritti da altri.
Kate Winslet è una Rose magnifica. E' bella ma non perfetta, il viso un po' lungo dagli occhi chiari ma non chiarissimi, le forme piene e rotonde.
Rose ha la magia della femminilità, quando la femminilità diventa magia, ciò che non accade poi così spesso (nessun paragone con la pur perfetta Angelina Jolie o con le altre dello star's system, compresa Nicole Kidman, bellissima ma algida)-
Rose riempie lo schermo e incarna quell'impasto miracoloso che solo alcune donne possiedono.
Per dare un'idea di quello che intendo, devo citarmi. Ho scritto un romanzo "Elogio di Pompeo" e la unica donna del romanzo si chiama Adriana; ebbene per capire cosa è una donna che ha la magia della femminilità leggete queste brevi righe:
"Lui sapeva tutto ciò e ne era comunque irretito e prigioniero, perché quegli occhi azzurri screziati di giallo, che conoscevano ogni arte spontanea dell’astuzia femminile, la malizia, la lussuria, la pudicizia, la tenerezza, lo smarrimento, la comprensione, la pietà, gli si erano ficcati nell’anima e non avrebbero mai mollato la presa".
Malizia, lussuria, pudicizia, tenerezza, smarrirmento, comprensione, pietà.
Se negli occhi di una donna c'è tutto questo, c'è la magia della femminilità.
Rose, in "Titanic", ne ha in abbondanza di tutto.
E' per questa magia che il suo arrogante fidanzato si strugge comprendendo come Rose non lo ami e non lo amerà mai, qualsiasi cosa lui faccia, per quanto possa regalarle il mondo.
E Jack che è un povero squattrinato è invece riamato perché a sua volta è giovane, vivo, fremente, generoso, romantico, e sa offrire a Rose qualcosa di più prezioso del diamante blu, l'utopia della libertà e della felicità.
Rose è Rose e non una qualsiasi ragazzuola che civetta a bordo del "Titanic" perché accetta la sfida di essere felice contro tutto e tutti, contro le regole, le convenzioni, d'inseguire il sogno, di farlo vivere tra i corridoi del transatlantico, nella stiva dove sono le poche lussuosissime automobili, a bordo proprio dell'auto del suo fidanzato, coi finestrini che si appannano per le effusioni amorose dei due giovani, sul ponte della nave dove cadono i pezzi dell'iceberg appena urtato, mentre le luci si spengono e la grande nave si spezza in due, prima che la prua trascini la poppa verso gli abissi, nelle acque gelide dove Jack le muore vicino assiderato avendole lasciato un relitto per salvarla.
E questo è un secondo piano di lettura del film, per me bellissimo perché pieno di grandezza, semplicità e verità.
C'è poi il terzo piano, comune anche alle altre versioni cinematografiche del "Titanic", quello della grande tragedia collettiva, dei destini che si intrecciano a bordo della nave immensa, data per "inaffondabile", che è la trasparente metafora di un mondo, quello del secolo lungo (l'ottocento, l'età degli imperi, del positivismo, del progresso) che va in mille pezzi perché arriva la guerra, la Grande guerra, quella del 1914-1918 che inaugura il "secolo breve".
Il Titanic è la rappresentazione del mondo e della società, con le sue classi, ai piani alti e ai piani bassi, i suoi splendori effimeri, le sue miserie durevoli, i suoi atti di coraggio sovrumano, le sue infime viltà.
Il film di Cameron lo racconta abbastanza bene, tratteggiando le figure minori, dal progettista, inebetito dalla rapidità con cui la nave affonda (e affonda perché la White Star, società armatrice, ha voluto risparmiare sui materiali e le rivettature), al capitano che, al suo ultimo viaggio, ha ceduto all'orgoglio di stabilire il record di velocità della traversata atlantica, e chiuso nel suo orgoglio affronta dalla tolda l'inabissamento, al laido rappresentante della società armatrice che sarà tra i primi a mettersi in salvo (altro che prima le donne e i bambini).
Vedete quante cose possono leggersi in un film che all'apparenza è un polpettone?
Tornando a Kate Winslet, dirò anche che ho appreso dal servizio di "Io donna" che è sposata con un altro dei miei miti, il regista Sam Mendes, quello di "American beauty" ed "Era mio padre" ("Road to perdition"), film che amo entrambi, e sopratutto il secondo che, come "Titanic", rivedo a ogni passaggio televisivo.
Sarà stupido, ma la cosa mi ha fatto piacere, come se trovassi l'intreccio di quelle due persone, l'attrice e il regista, qualcosa di naturale, logico, una complementarietà necessaria, del tipo di quelle che ho evocato in altri "post".
Mica per caso ho scelto più volte l'immagine del bambino di "Era mio padre", e ne ho fatto la mia "card" di MSN Messanger.
Quando dico che gli ultimi romantici guardano il mondo con gli occhi di un bambino, penso a quel bambino, e in quello sguardo mi riconosco del tutto.
Sono occhi aperti sul mondo, capaci di meraviglia e di sogni. Siamo noi adulti che li sporchiamo quegli occhi, e davvero questo è il più grande delitto. Come è un delitto perdere quello sguardo.

sabato, aprile 29, 2006

Titanic: navigando a vista tra gli iceberg


La giornata di ieri è stata meno convulsa di quella d'insediamento delle Camere. E ha raggiunto i primi risultati istituzionali necessari: l'elezione dei Presidenti dei due rami del Parlamento.
Bertinotti è stato eletto al quarto scrutinio quando era necessaria la maggioranza assoluta, con 337 voti, ma D'Alema ha raccolto ancora più voti degli scrutini precedenti spingendosi sino a quota 100 (le schede bianche sono state 144, le nulle 6, i voti dispersi 11).
Marini è stato eletto (dopo l'annullamento del secondo scrutinio) al terzo scrutinio, in cui era sufficiente la maggioranza semplice dei presenti, che però erano ben 322 (e cioé i 315 più i 7 senatori a vita), e ha conseguito 165 voti, contro i 156 di Andreotti e 1 sola scheda bianca.
Nei discorsi d'insediamento entrambi hanno ricordato il 25 aprile e il 1° maggio, cogliendo come la loro elezione si ponesse a metà strada tra le due ricorrenze; più orientato ai temi consueti della tutela dei meno abbienti e delle nuove povertà il discorso di Bertinotti, con accenti vibrati sulla Resistenza nel richiamo a celebri parole di Piero Calamandrei; più "istituzionale" e scontato il discorso di Marini, entrambi hanno ringraziato i predecessori e si sono dichiarati impegnati al ruolo di garanzia che le rispettive cariche istituzionali esigono, evidenziando l'esigenza del rilancio della centralità del Parlamento, nei suoi due rami.
In una rapida dichiarazione televisiva, colta al volo, un Prodi evidentemente soddisfatto e con un largo sorriso, ha commentato in chiave calcistica "2 a 0".
Berlusconi, dal canto suo, ha assicurato opposizione dura e tenace, e non solo in Parlamento, scatenando così un'ennesima polemica da parte dell'Unione (data la minaccia, non tanto velata, di portare l'opposizione nelle piazze), e l'ennesima precisazione di Bonaiuti, che rilanciava ricordando come l'attuale maggioranza non abbia perso occasione per contestare il Governo Berlusconi proprio nelle piazze.
A parte qualche "Tax Day", "Devolution Day", etc. etc., è un po' difficile immaginare l'elettorato polista coinvolto in larghe manifestazioni di piazza, e comunque dubito che il tentativo di resuscitare i fantasmi della c.d. "maggioranza silenziosa" (che ora poi silenziosa non è tanto) possa giovare alla causa della CdL.
Le due elezioni dicono cose solo in parte convergenti.
L'Unione ha passato, con le difficoltà intuibili al Senato, la prima prova della legislatura.
Marini, alla fine, ha conseguito tre voti in più di quelli necessari e previsti ai primi due scrutini, e questo è per lui di certo un buon risultato; è vero che in quei 165 voti confluiscono la gran parte dei voti dei senatori a vita (solo due, sembra di capire, sono andati ad Andreotti: quello dello stesso divo Giulio e di Pininfarina), e che tra questi almeno 2 non saranno di certo disponibili a presidiare il Senato (la Levi Montalcini per l'età e Cossiga perché non sta bene, come lui stesso ha dichiarato intervenendo in apertura di seduta al Senato).
Andreotti non è riuscito ad andare oltre i 156 voti, non ha avuto cioé forza attrattiva nei confronti dell'elettorato del campo avverso, quindi non è riuscito nell'intento politico di porsi come candidato "istituzionale", "bipartisan" e di "garanzia". Era una missione forse impossibile, ma il suo fallimento ha comunque un significato.
Per quanto esile la maggioranza unionista, rinforzata dalla pattuglia dei senatori a vita, ha tenuto alla prima prova, nella notte evidentemente sono stati somministrati "antidolorifici" ai "maldipancia" che avevano portato tre senatori a esprimere un voto chiaramente nullo ("Francesco Marini"), i segnali che esso lanciava sono stati colti, le trattative hanno avuto presumibile buon esito per i tre reprobi (chissà se Mastella diventerà Ministro della difesa? C'è da scommetterci).
Alla Camera danno da pensare i 100 voti per D'Alema: le manifestazioni di attenzione e gli occhieggiamenti per "baffino" da parte di settori della CdL non sono così discrete da non essere notate.
Quei voti sembrano un segnale, questa volta di almeno una parte dell'opposizione.
Se tale indizio si congiunge alle dichiarazioni di Berlusconi, alla nemmeno troppo velata minaccia insita nella promessa di fare opposizione non solo in parlamento, alla rivelazione che vi sarebbero stati "accordi" o comunque intese più o meno implicite sull'affidamento dell'incarico di governo da parte del successore di Ciampi, il senso di una operazione possibile potrebbe essere quella di una disponibilità a convergere su D'Alema come presidente della Repubblica.
Sul colle più alto D'Alema potrebbe costituire elemento di riequilibrio rispetto a Prodi e alle ali più estreme della maggioranza unionista, garanzia che non vi saranno "vendette" o leggi "contra Berlusconem" più o meno punitive, e chissà, qualora la marcia del Prodino dovesse esser corta, anche di governi di più larghe intese.
Tutto si gioca a partire dal 2 maggio, quando Berlusconi si recherà da Ciampi per rassegnare le dimissioni: se Ciampi, come sembra, dopo un rapidissimo giro di consultazioni e nell'arco di 24 ore affiderà l'incarico a Prodi, ciò potrebbe far saltare l'ipotesi di D'Alema al Quirinale, se Prodi riuscirà come sembra a questo punto possibile a presentare la lista dei ministri e ottenere la fiducia.
Se invece Ciampi dovesse tener duro e lasciare tutto nelle mani del suo successore, potrebbe davvero rafforzarsi la candidatura di D'Alema, anche se c'è da immaginare che ampi settori della maggioranza unionista non vedano affatto di buon occhio questa prospettiva (i diellini della Margherita, certi settori di minoranza dei DS, RC, PdCI, Verdi, Di Pietro, RNP...).
Gli scenari sono davvero abbastanza fluidi, a questo punto.
Nell'immediato il tempo gioca a favore dell'Unione, anche perché un'eventuale (più che probabile) sconfitta della riforma costituzionale al referendum confermativo di fine giugno smarcherebbe la Lega.
D'altro canto l'ipotesi del partito unico dei moderati, benché meno remota di quella del partito democratico, deve scontare molti dubbi soprattutto da parte dell'UdC che, con l'isolamento totale di Follini, rischia una miniscissione: e d'altra parte il partito unico dei moderati affosserebbe l'idea del "polo di centro", ossia della ricostituzione di una DC unitaria, che è nelle aspirazioni degli uddiccini.
Nel frattempo, però, l'Italia naviga a vista tra gli iceberg, come il Titanic

PER UN VOTO MAR(T)IN PERSE LA CAPPA


Il "lupo marsicano", al secolo sen. Franco Marini, non ce l'ha fatta a conquistare lo scranno più alto di Palazzo Madama nella prima, convulsa e tormentata riunione del Senato.
La "vecchia volpe", sen. (a vita) Giulio Andreotti, almeno per la prima riunione non è finito "in pellicceria" (secondo un celebre vaticinio di Bettino Craxi, rilevatosi fallace dato che il leader del PSI ha finito i suoi giorni in terra straniera e il divo Giulio ha superato ormai gli ottantasette anni e due processi "del secolo").
La seduta del Senato è stata tesa, concitata, piena di colpi di scena.
Secondo le dichiarazioni e previsioni della vigilia, Marini avrebbe dovuto conseguire senza grandi travagli i 162 voti (maggioranza assoluta dei componenti del Senato, ossia la metà + 1) necessari, a termini di regolamento di quel ramo del parlamento per l'elezione nei primi due scrutini.
Tra l'altro a favore di Marini avevano manifestato la propria preferenza la gran parte dei senatori a vita, compresa Rita Levi Montalcini che pure vanta una amicizia personale con Andreotti e la moglie Livia (e che secondo qualche voce, non smentita da Andreotti, deve il laticlavio vitalizio anche ai buoni uffici del divo Giulio).
La novantasettenne professoressa senatrice, pur presentandosi al vito, aveva declinato la presidenza provvisoria dell'assemblea, che le spettava, sempre a termini di regolamento, in quanto senatore "più anziano per età".
La presidenza provvisoria è stata quindi assunta dal secondo più anziano, il sen. Oscar Luigi Scalfaro, già Presidente della Repubblica ante-Ciampi.
Il primo scrutinio si è svolto nella mattinata, con seguente risultato:
Marini voti 157, Andreotti voti 140, Calderoli voti 15, Giulio Marini voti 1, bianche 5, nulle 4.
La Lega, tenendo fede alle dichiarazioni della vigilia, in prima votazione aveva fatto convergere i voti sul candidato "di bandiera" Calderoli, che ha poi spiegato ai microfoni della Rai che in tal modo si voleva "testare" la forza propria di Franco Marini.
Nel pomeriggio alla seconda votazione il colpo di scena: Marini arriva e supera di un voto la soglia di 162, scattano i tradizionali applausi dai banchi del centrosinistra, il "lupo marsicano" si fa largo verso Andreotti per concedergli l'onore delle armi, ma la proclamazione non arriva. Conciliaboli dei sei senatori segretari (che costituiscono l'ufficio elettorale del Senato costituito come collegio elettorale), che secondo regolamento sono i senatori "più giovani presenti alla seduta", che chiedono consiglio a Scalfaro, il quale rifiuta ritenendo che i suoi poteri di presidente provvisorio dell'assemblea gli consentano solo la proclamazione degli eletti.
E' accaduto che tra i 162 voti ve ne sono ben tre espressi per "Francesco Marini": ma Francesco Marini non esiste anagraficamente, il "lupo marsicano" si chiama proprio "Franco", nato il 9 aprile 1933, quindi non può ritenersi inequivoca la volontà di votare proprio lui, come se anagraficamente fosse "Francesco" e si facesse chiamare per consuetudine "Franco" (alla Camera si è svolto un gustoso "siparietto" a proposito dei pochi voti espressi per "Luxuria", anziché per Vladimiro Guadagno, ritenuti validi perché lo pseudonimo "Vladimir Luxuria" ha ormai assunto importanza preminente sulle vere generalità, e tutti conoscono l'onorevole "transgender" come Luxuria, pochissimi come Guadagno).
E' vero molti senatori sono "matricole", ma appare difficile pensare che quei tre voti siano frutto di ingenuità. A molti (ovviamente della CdL, ma anche qualcuno dell'Unione, come il pdcino Marco Rizzo, ospite su Rete 4 della Pivetti) sembrano un "segnale" (si parla anche di "pizzini") con l'intento di dare la prova "provata" di un voto che evidentemente era in bilico, o peggio oggetto di trattative per contropartite di governo o sottogoverno (e qui molti pensano, maliziosamente e senza prove, a Mastella, e alla partita per il Ministero della difesa).
I giovani senatori dell'ufficio elettorale (quattro unionisti e due polisti) non riescono a raggiungere un accordo, a stilare un verbale e quindi Scalfaro, per superare lo stallo, decide di ritenere nulla l'intera votazione, riconvocando il Senato per le ore 20.30.
La decisione non mancherà di suscitare polemiche, perché se la votazione fosse stata ritenuta valida si sarebbe dovuto rinviare al giorno successivo, cioé ad oggi, e procedere al terzo scrutinio, nel quale basta secondo il regolamento "la maggioranza assoluta dei presenti". E' vero anche però che la ripetizione del secondo scrutinio mantiene intatta l'esigenza della più alta maggioranza assoluta dei componenti del Senato, e quindi rende più difficile l'elezione del favorito Marini.
Insomma, è difficile sostenere che la decisione di Scalfaro sia "squilibrata", anche se sull'ex presidente della Repubblica piovono critiche poliste perché nella qualità di presidente provvisorio dell'assemblea, si sostiene, si sarebbe dovuto astenere dal votare (e si sa che come ha dichiarato lui vota per Marini). Comunque sono questioni opinabili perché vi sono esempi in un senso e nell'altro nella prassi parlamentare, e l'interpretazione delle regole di "galateo" istituzionale è ovviamente a sua volta opinabile.
Qui accade però un secondo "colpo di scena". Dopo che Scalfaro aveva comunicato la ripresa dei lavori per le 20.30, si "rettifica" e fissa l'orario delle 22.00, pare di capire perché, come lui dice (vedremo lo stenografico dei lavori) aveva ricevuto richieste ubique in tal senso.
I polisti insorgono: l'orario, si dice, avrebbe dovuto essere concordato in aula, richieste "formali" non ce ne sarebbero state, il rinvio alle 22.00 viene visto come l'espediente per consentire il rientro a Roma o comunque al Senato di quei senatori di centrosinistra che troppo frettolosamente sarebbero andati via dopo l'applauso "funesto" della seconda votazione annullata.
Lo dice, in apertura dei lavori alle 22.00, Schifani, lo ripete Matteoli, lo ribadisce a chiare lettere Castelli, mentre Angius rigetta quei sospetti ed evidenzia come la scelta di ripetere la seconda votazione è la più garantista.
Scalfaro a sua volta precisa, e sembra un pochino mortificato e un po' stizzito.
Riprende la votazione, al termine della quale si fa anche una seconda "chiama" per i senatori risultati assenti al primo appello (e anche qui pioggia di polemiche perché nel primo e nel secondo scrutinio annullato non ci sarebbe stata la seconda chiama).
Questa volta lo scrutinio procede nel silenzio più assoluto, nessuno azzarda applausi o previsioni, ma dopo l'ultima scheda dai polisti partono grida di "mancato, mancato", "a casa, a casa".
I senatori segretari contano, ricontano, discutono, chiedono di riunirsi separatamente e Scalfaro sospende la seduta (non senza ulteriori polemiche perché si sostiene da alcuni che il seggio elettorale deve compiere tutte le operazioni in seduta pubblica, in aula).
Alle 2.00 della mattina il risultato: Marini 161, Andreotti 155,5 schede bianche, 1 scheda nulla.
Anche questo voto non mancherà di suscitare polemiche: una scheda nulla è tale perché reca solo il cognome "Marini", e quindi è assolutamente incerta la sua attribuzione (c'é anche un senatore Giulio "Marini", già votato come tale nel primo scrutinio (ma Scalfaro non lo sapeva e ha commentato, suscitando ilarità nell'assemblea: "E' una sintesi"). Una delle schede considerate valide sarebbe stata invece votata come "Francesco Marini", e se così fosse ci sarebbe una contraddizione rispetto a quanto deciso in occasione dello scrutinio annullato.
Dunque, nulla da fare, si deve andare alla terza votazione, a partire dalle 10.30 di sabato.
Nella terza votazione è sufficiente la maggioranza (metà + 1) dei senatori "presenti", e se nemmeno in questa uno dei candidati ottiene l'elezione, i due candidati più votati vanno al ballottaggio nella stessa giornata, e risulta eletto chi consegue la maggioranza anche relativa, e in caso di parità il più anziano di età (e cioé Andreotti).
Fin qui la cronaca nuda dei fatti.
Le valutazioni politiche sono abbastanza facili: l'Unione sino a questo momento, e nonostante il voto (prevalente) dei senatori a vita, non riesce a spuntare la maggioranza al Senato; ci sono stati tre "franceschi" tiratori, come li ha definiti con una battuta al vetriolo Andreotti, che sembrano il segno di "maldipancia" nella risicatissima maggioranza, e che con quella strana preferenza "Francesco Marini" hanno forse voluto lanciare un segnale a Prodi e ai Capi partito dell'Unione, in vista di partite da giocare sulla composizione del governo e l'attribuzione dei ministeri. E' anche vero però che Andreotti non ha sfondato il muro delle 155 preferenze, ossia di quei 140 voti del primo scrutinio cui si sono uniti i voti della Lega, e quindi non riesce a pescar voti nel campo avverso, nonostante il suo prestigio e autorevolezza.
Stamane Marini dovrebbe essere comunque eletto, perchè un risultato diverso travolgerebbe la stessa ipotesi del mandato governativo a Prodi, aprendo una fase d'incertezza tra un improbabile governo di larghe intese e un esecutivo tecnico con maggioranza trasversale.
Comunque la si voglia giudicare, l'intera vicenda testimonia un pericoloso avvitamento della situazione politica e istituzionale: la spaccatura continua nel dopo voto, il Governo Prodi rischia di vivere sotto l'incubo continuo di una crisi, i voti al Senato rischiano di dar vita a continui "mercanteggiamenti", con poteri d'interdizione e condizionamenti attribuiti ai senatori "border line", non chiaramente schierati con l'Unione o la CdL.
E se si riflette sugli scrutini alla Camera con i voti di protesta a favore di D'Alema (cresciuti nel corso degli scrutini sino a 70, e pur considerando che parte di essi possa venire proprio dalla CdL per seminare divisioni e imbarazzi), non c'è comunque da gioire, in nessun senso.
L'Italia si è rotta veramente, questa volta.

martedì, aprile 25, 2006

LE RAGIONI DEL CUORE


Ho modificato la descrizione del blog, a quasi due mesi dal primo post, perché di discussione ce ne è assai poca (a parte i post dei miei fratelli, di Chris e di Luna, mentre Wil Coyote è scomparso, e me ne dispiace), mentre rimane essenziale, per me, la fedeltà alle ragioni "ideologiche" che mi hanno spinto a tenere questo diario on line.
Le ragioni sono quelle che esponevo in un "Manifesto degli ultimi romantici" postato l'11 marzo e reperibile sotto quella data, che ho sintetizzato nella descrizione.
E' difficile, molto difficile, la fedeltà alle ragioni del cuore, perché se è vero che il cuore ha una sua ragione e le sue ragioni, è innegabile che il mondo se ne fa molto spesso beffe. Anzi quasi sempre, se non sempre.
Quante volte ci si scontra contro la "ragion pratica", e meglio pragmatica, di chi, invece, e dal suo punto di vista magari a buon diritto, mette il cuore al guinzaglio della Ragione?
Quante volte, da ultimi romantici, capita di essere chiamati, con malcelata o evidente compassione, mista magari a una remota ammirazione, "sognatori","visionari",
"idealisti", "utopici", o peggio "fuori di testa"?
Quante volte la realtà delle cose e dei rapporti umani tradisce le illusioni, le speranze, le aspettative?
La regola, piuttosto che l'eccezione, è proprio questa.
Gli ultimi romantici si sentono dire spesso che sono persone belle, splendide, irripetibili, ineguagliabili ma...ci si arrischia poi ad affidargli la propria vita? Si compie il grande balzo, oltre la prosaica realtà quotidiana, i riti, le regole, le convenzioni, che richiede la loro mano tesa?
Eppure, se si è veri ultimi romantici, e siccome lo si è e non lo si diventa, non si cambia lo statuto della propria esistenza, anche quando l'esperienza dimostra che non si va da nessuna parte oltre l'orizzonte del proprio cuore.
Ma se l'orizzonte di quel cuore dovesse chiudersi, se la speranza dovesse spegnersi, se soprattutto dovesse subentrare la rassegnata accettazione delle regole del gioco del mondo antiromantico, non vi sarebbe più vera possibilità di vita: la vita diventerebbe un deserto piatto, arido e secco, molto più di quello evocato da Wil Coyote, una sequenza di giorni tutti uguali, la ripetizione meccanica di gesti, parole, abitudini disincarnate dalla passione, dalla emozione, da ogni impulso vitale vero.
Gli ultimi romantici piangono molte lacrime e ridono molto poco, al massimo sorridono, e spesso di se più che degli altri.
E' vero, tutto vero. Ma in quelle lacrime, in quelle malinconie, in quegli scoppi di rabbia verso il mondo antiromantico e prosaico, in quei sogni, in quelle illusioni, si racchiude un tesoro di vita, il senso che non si è diventati degli zombie, morti viventi quanti ne vediamo, a frotte, per le strade, negli uffici, nei cinema, nei ristoranti.
Se non ho altro che la ricchezza dei miei sogni, lasciatemi dormire in pace.
Se i miei occhi sono quelli ingenui del bambino della foto di scena di "Road to perdition", non mettetemi gli occhiali, non mi cingete il capo con una benda nera.
Se il cuore riesce a battere per un'emozione, lasciate che vada in fibrillazione.
Questo vorrei dire a quelli che si sono rassegnati ad un mondo arido, piatto, secco, come il deserto.
Ho labbra molto meno secche delle loro.

LA STRATEGIA QAEDISTA


L'attentato di ieri sera a Dahab, nel Mar Rosso, è stato commentato, a "botto caldo" da qualcuno con la solita litania che esso è l'ennesima conseguenza della guerra in Iraq.
L'idea che la madre di tutti gli attentati sia la guerra in Iraq è stupida, prima ancora che fuorviante; e non solo perché prima della guerra in Iraq c'è stato l'11 settembre e ancora prima altri attentati devastanti.
La strategia qaedista ha un disegno ben più complesso e ambizioso, e per capirlo basta guardare una cartina geografica del medio oriente.
In senso antiorario si allineano vari Stati: l'Egitto, con la sua propaggine del Sinai che si protende nel Mar Rosso, e a sud il Sudan, e dall'altro lato del Mar Rosso la penisola arabica, con il regno saudita e lo Yemen e tutti gli emirati dall'altro lato, e poi l'Iraq, e a nord la Siria e la Giordania.
Una tenaglia geografica stretta attorno a quella piccola "arachide" che è lo Stato di Israele, unico non musulmano dell'intera regione mediorientale, necessario e tradizionale alleato dell'Occidente, unica democrazia dell'area, unica potenza atomica dell'area, unico del tutto privo di petrolio.
Il "fantasma" Bin Laden nel suo ultimo audiomessaggio, trasmesso dai "fiancheggiatori" di Al Jazeera, non parla per caso del "Califfato" di Bagdad, né per caso cerca di mettere il cappello sull'irredentismo palestinese, e mentre critica l'Occidente che non da ad Hamas quei quattrini che hanno costituito il sostegno della satrapia di Yasser Arafat (malanima) e dell'Autorità Nazionale Palestinese, parla ai dissidenti jiadisti palestinesi, ai suoi infiltrati qaedisti a Gaza City, alle masse povere e ignoranti dei paesi musulmani dell'area mediorientale, che nell'Islam trovano l'unico vero collante, l'unica identità possibile dopo il fallimento del sogno socialista nasseriano, l'unica arma in grado di condizionare i governi dittatoriali o autoritari di quella sfortunata regione della terra.
Non è un caso se Bin Laden cerca di evocare l'orgoglio islamico richiamando la caduta dell'Impero ottomano, e fa nulla se gli ottomani o turcomanni nulla c'entrassero etnicamente e linguisticamente con gli arabi e con la culla dell'Islam, perché il sogno o incubo ladeniano è la restaurazione di un Califfato, che si estenda dalla Turchia almeno sino all'Egitto e faccia un sol boccone di Israele.
Un Califfato ricco di petrolio (come mai il prezzo del petrolio sale, sale, sale: proprio sicuri che sia solo un gioco di domanda e offerta, e che la colpa sia delle tigri asiatiche che ne succhiano sempre più, facendo schizzare i prezzi alle stelle???), ricco di tecnologie, ricco di armi, sperabilmente anche nucleari.
Un Califfato che possa proporsi come potenza politica mondiale, negoziare, condizionare, ricattare l'Occidente, con teste di ponte nell'Europa fragile politicamente, per sue divisioni interne, ed economicamente, per la sfida globale delle tigri asiatiche da un lato e dei paesi latino-americano (Brasile in testa) dall'altro.
Ci si affanna da parte dell'Occidente a negare che sia in atto una guerra di civiltà: infatti, è in atto la quarta guerra mondiale, in cui un pugno di terroristi ben determinati e di satrapie mediorientali costrette, col ricatto e per mantenere il proprio potere, a finanziarli, tengono luogo di eserciti, armate e divisioni, in attesa di una sollevazione più o meno generale delle masse islamiche che rovesci quei governi e li sostituisca con sceicchi locali e teocrazie diffuse.
In questa guerra, ovviamente, e direi per fortuna, l'Islam non è compatto, e non tanto per l'influenza, tutta da dimostrare, del c.d. Islam moderato, quanto per la spaccatura religiosa e dottrinale che attraversa sunniti e sciiti.
In questa chiave l'audiomessaggio di Bin Laden può essere letto anche come una risposta al movimentismo dell'attuale leadership iraniana, che cerca di rompere l'isolamento e di accampare mire egemoniche sull'irredentismo palestinese: al "Califfo" non piace evidentemente la concorrenza, e men che meno quella degli sciiti, essendo lui un wahabita duro e puro, che odia gli sciiti forse più di quanto odi gli stessi americani e gli occidentali.
Forse, sotto questo riguardo, sarebbe il caso di ripensare non tanto all'Iraq, dove in fondo accade solo che la maggioranza sciita rivendichi i suoi diritti dopo esser stata calpestata e oppressa dalla minoranza sunnita, quanto all'Iran e a come un grande paese sciita possa svolgere un ruolo di freno proprio alla strategia qaedista.
Certo è difficile discutere con la teocrazia iraniana, ma questa potrebbe avere, paradossalmente, interessi convergenti perché alla lunga ove emergesse una situazione di egemonia sunnita nella regione sarebbe destinata a essere schiacciata.
Riuscirà l'Occidente, e quindi USA e UE, a guardare con un minimo di lucida consapevolezza al futuro del medioriente, e quindi al proprio futuro?

lunedì, aprile 24, 2006

ERA DESTINO

Venerdì pomeriggio mi è capitata una cosa curiosa, che mi da lo spunto per una riflessione sul destino.
Era un assolato pomeriggio romano, appena velato da nuvole alte.
Avevo finito la riunione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, l'organo collegiale di autogoverno dei magistrati amministrativi di cui sono uno dei componenti.
Lasciate le magniloquenti sale di Palazzo Spada (cinquecentesca sede del Consiglio di Stato, ricca di stucchi, dipinti, affreschi), con un collega, segretario del Consiglio, stavo tornando verso gli uffici situati a via delle Vergini, una piccola e corta strada che collega via dell'Umiltà alla via che porta a piazza di Trevi (con l'omonima fontata).
Camminavamo per le strade strette e affollate del centro di Roma, così belle e suggestive coi loro palazzi di tufo e travertino, incassati gli uni vicino agli altri, zeppi di trattoriole, osterie, baretti, negozietti.
D'improvviso un proiettile di pietra mi è piombato tra i piedi, frantumandosi in mille pezzi: era un pezzo di cornicione che stava lì, attaccato con lo sputo chissà da quanto tempo, e che, evidentemente aveva deciso di cadere proprio in quel momento, in quel giorno, in quell'ora, quasi m'avesse dato un segreto appuntamento.
Il collega mi ha detto che aveva visto quel proiettile sfiorarmi la testa ed era annichilito.
Se avesse avuto miglior mira, quel proiettile, forse non sarei qui nemmeno a poterlo raccontare.
Ma tant'è: è andata così.
Non sono un temerario né un coraggioso, ma il fatto non mi ha, devo dire, spaventato più di tanto.
Ho rincuorato il collega, forse scosso più di me, con una battuta: "Si vede che non era arrivata la mia ora".
Io credo al destino, almeno per quanto attiene alla possibilità che qualcosa ti caschi sulla testa, ti ammali di una malattia rara e sconosciuta, venga coinvolto in un incidente stradale, ti venga trovare sull'aereo sbagliato, quello che alimenta la statistica secondo cui, nonostante tutto, è il mezzo di trasporto più sicuro, faccia il viaggio inaugurale del Titanic e finisca come è finito.
E' come in guerra: da qualsiasi parte si combatta, una pallottola vagante, magari di "fuoco amico" ti può sempre cogliere in un punto vitale.
Fu il destino, ad esempio, che decise tra Kokura e Nagasaki, la città destinata all'olocausto nucleare, dopo Hiroshima: il cielo su Kokura era pieno di nuvole, mentre su Nagasaki si aprì uno squarcio, quel tanto che bastava al puntatore per inquadrarla nel mirino e sganciare "fat man", la seconda bomba, al plutonio (quella di Hiroshima, chiamata "little boy", era all'uranio); tra parentesi, che mattacchioni questi americani, che si erano divertiti a affibbiare un nomignolo a quelle prime bombe atomiche, poi visti gli effetti si vergognarono e non ci scherzarono mai più.
E'il destino che, a proposito di malattie genetiche rarissime, decide da quale parte della statistica stiamo: ho visto su un canale satellitare un programma su due malattie che causano anomalo accrescimento di parti del corpo, ad esempio una bambina con un enorme dito medio a una mano e l'altra gonfia e irriconoscibile, un giovane uomo con un piede gigante (era la stessa malattia che colpì un inglese dell'Inghilterra vittoriana, conosciuto come "Elephant Man": un medico lo tolse dalla strada e dai circhi, dove il poveretto veniva esposto come fenomeno da baraccone, e sulla vicenda David Linch vi girò un film molto bello sul finire degli anni '70, da vedere se si riesce).
Sempre il destino decide la lotteria di certe malattie rare, come la sclerosi laterale amiotrofica, di cui è morto il radicale Luca Coscioni, che ha fondato l'omonima associazione per la ricerca scientifica, più nota come sindrome di Lou Ghering, uno sportivo americano (forse un giocatore di baseball). Un mio caro amico e collega, andato in pensione per inabilità, ne è affetto ed è un miracolo di lucidità, generosità, attaccamento alla vita, oltre che ironia: quando stava ancora abbastanza bene mi disse un giorno "Pensa che di questa malattia si ammala uno ogni trecentomila: e cos'é la lotteria gratta e perdi?".
In fondo c'entra col destino anche l'incrocio tra le vite delle persone, e in qualche misura dunque anche l'amore, incontrare o meno una persona, incontrarla in un momento anziché in un altro, non incontrarla affatto, incontrarla nel momento sbagliato; certo poi le azioni umane fanno il resto.
Negli anziani, l'idea del destino, essendosi esso in buona parte già compiuto nella loro vita, è amica e non ostile, non ci si ribella, la si asseconda, saggiamente, sapendo come diceva una vecchia canzone che "al destino che vien rassegnarsi convien".
Nei giovani, il destino è una sfida, e infatti non si capisce altrimenti perché si sfidino in competizioni assurde, e non di rado ci lascino la pelle; è perché si sentono più forti del destino o almeno pensano di poterlo affrontare ad armi pari, e di beffarlo.
Ma poi tutto questo sproloquio per dire cosa?
Semplicemente che dovrete sopportarmi ancora, vista la scarsa mira di quel pezzo di cornicione. Una occasione mancata.

sabato, aprile 22, 2006

PUNTA PEROTTI 2 E 3: SHOW MUST GO ON


Oggi e domani vanno giù le ultime "torri" di Punta Perotti. La "saracinesca", già in buona parte divelta dall'esplosione del 2 aprile, viene definitivamente abbassata e la vista di uno spicchio di cielo e orizzonte, aperto sul nulla di una periferia degradata, restituita ai baresi.

Difficile, anzi impossibile, che questa volta vi sia la folla della "prima", pochi i giornalisti accreditati nell'area stampa, Pecoraro Scanio sarà probabilmente altrove, a ritemprarsi dalle fatiche della campagna elettorale, i baresi che possono saranno andati fuori porta profittando del ponte del 25 aprile, il mare antistante non sarà un brulicare di barche, motoscafi, barchette e gommoni.

Eppure, sia pure rateizzato tra oggi e domani, lo spettacolo è all'ultimo atto. Anzi al penultimo, perché per la torre "Quistelli", che è distanziata dagli edifici dei Matarrese, in parallelo al mare (e quindi nulla centra con la saracinesca), ci vorrà almeno un altro mese: troppo vicina agli edifici del quartiere di Japigia sarà demolita con mezzi meccanici, tra cui una gru alta oltre quaranta metri che giungerà per ferrovia nei prossimi giorni.

Poi, sull'area, rimarrà un monumentale complesso di macerie che saranno sminuzzate, macinate, triturate, polverizzate, spianate, e che costituiranno il nuovo "piano di campagna" dei suoli.

La prima demolizione non ha portato molto bene alle sorti del centrosinistra barese: alle politiche del 9 e 10 aprile la CdL si è presa una clamorosa rivincita e la "primavera pugliese" del sindaco Emiliano, del presidente della Provincia Divella e del presidente della Regione Vendola ha conosciuto una innegabile "gelata".

Fatta eccezione per il tono trionfalistico del "Corriere del Mezzogiorno", emanazione locale del Corrierone di via Solferino, che era stato uno dei grandi "sponsor" mediatici dell'operazione, i baresi comuni, intervistati da "La Gazzetta del Mezzogiorno" e da televisioni locali, hanno manifestato dissenso e disagio per una demolizione vista come uno spreco di ricchezza e di opportunità.

Si fosse fatto un referendum consultivo sulla sorte di Punta Perotti, l'esito non sarebbe stato, sembra, così scontato.

Che Punta Perotti (i suoi scheletri incompleti) fosse brutto, nessuno lo discute; il punto era se, con opportuni interventi (il taglio di una parte del complesso, la riqualificazione urbanistica dell'area) se ne potesse fare qualcosa di utile alla città e magari anche alla regione, si potesse ammansire e ingentilire il c.d. ecomostro, renderlo un "monumento" positivo della legalità ripristinata.

E' curioso come gli intellettuali (ovviamente tutti di sinistra) della città e della regione, sempre così attenti alla cittadinanza attiva e ai diritti di partecipazione, non abbiamo sollecitato un referendum di questo tipo, quando per molto meno si invoca la consultazione della popolazione.

Evidentemente ci sono referendum consultivi e referendum consultivi: quelli dal risultato incerto e sgradito non s'hanno da fare, come il matrimonio dei protagonisti manzoniani.

Cosa resterà di Punta Perotti, a parte le cause di risarcimento da oltre 500 milioni di euro proposte dai Matarrese contro Comune di Bari e Regione Puglia?

Pare di certo un'opera collettanea di giovani registi, coordinati dal barese Piva (quello di "La capagira" e "Mio cognati", gran cerimoniere dell'intellettualità barese, che ha fatto scoprire al mondo il degrado di questa città levantina, su cui peraltro vari scrittori locali hanno costruito le loro (non piccole) fortune editoriali (anche queste targate RCS).

Giusto, la città doveva uscire dal suo provincialismo, contendere anche nel degrado il primato di Napoli, proporsi come il laboratorio socio-economico sul quale giocare la scommessa di una rinascita.

Una rinascita di cui, però, nessuno sembra cogliere l'inizio: più caotica, sporca, degradata nelle periferie e anche nel centro, abbandonata al suo crepuscolo pubblico da quelli che, storicamente, ne hanno fatto la fortuna (commercianti e imprenditori), con la squadra di calcio (appartenente ai Matarrese perché nessuno si fa avanti a rilevarla) che bordeggia nei bassifondi della serie B, periferia politica dopo esser stata con Moro, Lattanzio, Formica, una stella fissa del panorama politico nazionale (e nonostante gli sforzi di Max D'Alema, che qui ha subito una sonora sconfitta).

Poco da dire: ogni città esprime la classe dirigente che sa e può. Il declino di Bari è scritto nella pochezza della sua classe dirigente, dei suoi commercianti e professionisti ripiegati sulla cura dei propri interessi, della sua università sovrappopolata ma di poca "eccellenza", dei suoi intellettuali sospesi tra memorie della "ecole barisienne" e associazionismo snob, della imperversante provinciale autoreferenzialità.

Sipario.

giovedì, aprile 20, 2006

NEL NOME DEL PADRE (E DELLA MADRE)

A quanto pare, col precedente post, ho scatenato un piccolo "outing" familiare. Non me ne dispiace, ovviamente, anche perché mi consente di riflettere sul rapporto tra coscienza e ricordi, tra esperienza e maturità, tra radici e sviluppi esistenziali.
La poetica pascoliana del fanciullino è in effetti uno statuto esistenziale ineliminabile.
Anche chi non ha avuto la fortuna di avere un'infanzia e adolescenza più o meno normali e serene, se non addirittura felici, serba nel ricordo le cose migliori, magari le poche o uniche, di quel periodo; ed è giusto che sia così perché le radici sono tutte lì e da esse dipende, io credo, lo sviluppo della personalità.
Certo è evidente che un'infanzia "anormale", segnata da violenze, frustrazioni, abbandono non possono non segnare cicatrici che rimangono dolenti alla palpazione della vita, a volte piaghe che non si rimarginano: e non ci dicono infatti gli psichiatri che, ad esempio, tutti o quasi i pedofili sono stati bambini violati? e non ci dicono i sociologi e criminologi che l'attitudine alla violenza deriva da ambienti familiari violenti?
Eppure credo che qualcosa di bello, magari una piccolissima luce, come quella di una lucciola nel buio della notte, rimanga dell'infanzia anche quando è stata infelice.
Perché, essendo lì le radici, e non potendo nessun albero o pianta star su senza radici, si cerca di valorizzare magari quel segmento piccolo di radice che non era guasta, fradicia, malferma.
Guardando, devo dire con uno sforzo di attenzione non prevenuta e non invidiosa, tipica del signore di mezza età (per parafrasare una bella trasmissione televisiva dell'umorista Marcello Marchesi di tanti anni fa), ai giovani di oggi comprendo come sia difficile la loro condizione e come sia complicato esser bambini ai giorni nostri, in una rincorsa affannata dei genitori a dare sempre di più e a sforzarsi di evitare ai figli sentimenti di frustrazione e di dolore.
Un bambino di oggi DEVE andare in piscina, suonare uno strumento, fare danza, fare le sue festicciole in pizzeria, vestire in un certo modo alla moda e firmato, fare almeno un mese di vacanze all'anno, e NON DEVE mai sentirsi diverso dagli altri, rimanere con un desiderio insoddisfatto, conoscere il dolore di una punizione, assaggiare l'asprezza di un insegnante...
Io non ho figli, e davvero non voglio giudicare nessuno; sa Dio se è complicato esser genitore, mestiere difficilissimo che nessuno insegna e che non può impararsi con enciclopedie a dispense; sa Dio se questa società del superfluo che è diventato indispensabile aiuta i genitori, se la gregarietà di comportamenti educativi di massa consenta di resistere al ricatto psicologico insito nella protesta "ma quello lo ha, quella lo fa, i genitori di tizia fanno così, i genitori di caia non fanno così, e sì io devo essere l'unico/a che non...".
So anche però che anche nei tempi lontani della mia infanzia e adolescenza, sia pure in un ambito meno massificato, c'erano i ricchi e i più poveri, e i figli dei primi avevano cose impensabili per i figli dei secondi, e i primi facevano le gite scolastiche e gli altri no (una delle più simpatiche, azzeccate e feroci satire su queste differenze "di classe" in una classe erano gli sketch di Cochi e Renato, dove Cochi era un alunno ricco, viziato, ciuccio e maligno e Renato un povero maestro elementare che piegava la testa e gli dava, comunque e sempre, 7+: la trasmissione si chiamava !Quelli della domenica" ed era condotta da un magrissimo, incredibile dictu, Paolo Villaggio).
Perché allora si poteva crescere senza subire dilanianti e devastanti shoc psicologici se, non essendo figli di ricchi, si doveva rinunciare a qualcosa o a molto?
Semplicemente perché quella società conosceva una legittimazione che non si identificava (solo) nella ricchezza e nell'agio, ma (almeno) anche nella dignità del lavoro, tanto più dignitoso e riconosciuto in quanto, dobbiamo dirlo, svolto mangiando, come diceva il capitano Bellotti nel Giorno della civetta al mafioso don Mariano Arena, il "pane dello Stato".
C'era tra le classi (o i ceti) sociali un rispetto e una legittimazione che si fondava sul senso di appartenenza ad una comunità, di cui lo Stato incarnava la sintesi e l'espressione massima; c'era una educazione civica elementare che si apprendeva, certo, sui banchi di scuola ma soprattutto nelle famiglie e nelle varie "formazioni sociali", parrocchie, associazioni, partiti, condomini e via discorrendo.
Solito vieto discorso sui valori che si sono persi? No, molto più semplicemente, riflessione su società alla deriva, su comunità che non sono più tali, su cittadinanze che, nonostante l'ampliamento a dismisura del catalogo formale dei diritti, scritti su carta patinata, non riescono a farsi effettività di appartenenza alla comunità e di esercizio dei diritti di cittadinanza, perché non riescono a fuoriuscire dalla cura degli interessi individuali, a volte microscopici e qualche volta quasi miserabili.
Come si può pensare di costruire cittadinanze e patria europee se si perde il senso delle cittadinanze e patrie nazionali, regionali, provinciali, cittadine, di quartiere, di condominio?
Io e i miei fratelli siamo stati molto, molto fortunati, sia perché abbiamo vissuto uno scorcio di tempo diverso, in cui tutte queste cose esistevano, sia e soprattutto perché abbiamo avuto genitori che, pur incarnando i ruoli nel modo più tradizionale, sono stati un esempio, si sono presi cura, hanno dato più che l'essenziale e ci hanno insegnato a fare a meno di tante cose ma non della dignità, dell'onestà, della cultura, del senso del dovere, dell'etica del sacrificio.
Erano certo genitori di altri tempi, in altri tempi, ma sono stati i migliori (mia madre grazie a Dio lo è ancora) che potessimo avere, due grandi persone e personalità.
Trovo giusto dirlo in questo diario, è una delle poche verità e certezze che nessuno potrà mai togliermi.