giovedì, dicembre 24, 2009

ALLE RADICI, RICORDANDO SEMPRE GLI ULTIMI

Ho postato i brani del vangelo di Luca che ricordano la nascita di Gesù perché solo così, andando alle radici del Natale, e ricordando che non è più da due millenni solo la festa pagana del Sol Invictus, gli si può restituire il significato autentico, che va oltre le vuote cerimonie degli sms augurali, dei regali, dei cenoni, che invece servono solo a fissare un punto nell'anno in cui riconosciamo quanto abbiamo bisogno degli altri e degli affetti più cari (ma è già qualcosa).Nei telegiornali e sui giornali si affollano, in significativa contrapposizione, immagini di acquisti, viaggiatori inferociti da attese interminabili tra stazioni, porti e aeroporti, barboni che cercano di sfuggire alla morsa mortale del freddo, operai che non hanno proprio nulla da festeggiare perché sull'orlo di casseintergazioni, mobilità, prepensionamenti, licenziamenti.Se Gesù nasce povero, senza casa, senza una culla vera senza riscaldamento, riconosciuto per quello che è solo da pastori ignoranti, allora la povertà ha veramente una sua dignità regale; tanto regale che il senso del donare agli altri (ricordate San Martino) sta ne farsi più poveri, nel condividere la povertà, nell'esser grati ai poveri perché, privandosi di qualcosa, facendosi un pochino poveri, ci si fa in qualche modo simili a loro, che poveri non sono se non nelle cose materiali, se invece stanno nel cuore di Cristo, come stanno.Così, in questo Natale, non ho voglia di fare auguri formali di alcun tipo, e vorrei stare fisicamente vicino ai poveri, cioé ai malati, ai disoccupati, ai precari, agli extracomunitari agli angoli delle strade, ai barboni, agli operai che perdono il posto, a tutti quelli per cui un Dio unico e vero, nella sua infinita tenerezza paterna, s'incarna non in una reggia ma in una capanna, indifeso, al freddo, povero tra i poveri.Buon Natale a loro, e a tutti quelli che li amano e li servono

DAL VANGELO DI LUCA

1)In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. (2)Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. (3)Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. (4)Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, (5)per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. (6)Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. (7)Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo.
(8)C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. (9)Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, (10)ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: (11)oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. (12)Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». (13)E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva:

(14)«Gloria a Dio nel più alto dei cieli
e pace in terra agli uomini che egli ama».

(15)Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». (16)Andarono dunque senz'indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. (17)E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. (18)Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. (19)Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.

(20)I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.

sabato, ottobre 31, 2009

la folla dei quaquaraqua


Un film ch rivedo sempre molto volentieri, tutte le volte che lo trasmettono su qualche rete televisiva nazionale o regionale e che riesco ad "acchiapparlo", è "Il giorno della civetta", tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia.

Oltre l'intreccio della storia, esemplare racconto di mafia della Sicilia tra gli anni '50 e '60, i personaggi che la animano sono veramente straordinari e gli attori che li interpretano praticamente perfetti: dal volto chiaro, pulito, baffuto del capitano dei C.C. Bellodi, un giovane Franco Nero in una delle sue più felici interpretazioni, ad una splendida e intensa Claudia Cardinale, vedova inquieta di lupara bianca, all'ambiguo e filosofo confidente "Parrineddu", nell'impareggiabile resa di Serge Reggiani, al grande boss Don Mariano Arena l'attore americano Lee J. Cobb (interprete tra l'altro del malavitoso boss di "Fronte del porto" e dell'irriducibile colpevolista del film "La parola ai giurati"), sino alle figure di contorno di Pizzuco e Zecchinetta.

La storia è nota: un piccolo imprenditore edile, Colasberna, viene ammazzato con un colpo di lupara in una desolata e pietrosa campagna siciliana, e un suo lavorante, Nicolosi, scompare lo stesso giorno.

Il capitano Bellodi, comandante della locale stazione dei carabinieri, capisce subito che non si tratta, come la voce pubblica alimentata artatamente dai mafiosi locali, di un delitto d'onore o di storie di corna, benché Nicolosi abbia una splendida moglie Rosa, che vive nella vana speranza che il marito ricompaia, e sulla quale si appuntano gli sguardi libidinosi degli uomini del paese.

Il confidente Parrineddu, che gioca una personale partita cercando di assicurare un equilibrio tra Stato e Anti Stato, suggerisce, allude, ma si guarda bene dal dire quello che sa, sinché messo alle strette da Bellodi, confessa che Colasberna e Nicolosi sono stati ammazzati il primo perché era un concorrente pericoloso dell'impresa del mafioso Pizzuco, il secondo perché imprevisto testimone del delitto; e che la lupara del delitto è stata nascosta nel luogo più sicuro del paese, nientemeno che la casa di Don Mariano Arena, incontestato boss locale, in rapporti di "amicizia" con onorevoli che siedono al parlamento.

Autore materiale del delitto è un piccolo delinquente locale con la mania del gioco d'azzardo, perciò soprannominato Zecchinetta.

Bellodi arresta tutti, proprio nel giorno dell'inaugurazione di un'importante strada realizzata da Pizzuco; ma poi l'inchiesta viene "aggiustata", i mafiosi sostengono che le confessioni sono state estorte, finiscono tutti scarcerati con le migliori scuse del disturbo arrecato, e il povero Bellodi viene trasferito, mentre Parrineddu finisce ammazzato e seppellito, con un tappo in bocca, sotto la colata d'asfalto della strada inaugurata in pompa magna dall'onorevole amico di Don Mariano.

Al suo posto arriva un ufficiale corpulento, dai tratti un po' bovini, una "brava persona" commentano i mafiosi che se lo guardano dalla terrazza di Don Mariano Arena, "un viso aperto", "uno che tiene famiglia".

Ma Don Mariano Arena, che ha un suo sia pur deviato senso dell'onore e del rispetto, e che sa riconoscere cose e uomini, lo guarda sprezzante e dice che "Bellodi era un uomo, questo mi sembra un quaquaraqua", con i mafiosetti minori che starnazzando come oche gli fanno eco quaquaraqua, quaquaraqua, quaquaraqua".

Così si chiude questo grande film di Damiano Damiani, che risale ormai a quarantuno anni fa, e che, caso abbastanza raro, riesce veramente ad essere all'altezza del grande romanzo di Sciascia da cui è tratto.

Perché mi è venuto in mente stamattina questo film e questo romanzo?

Una delle cose più interessanti del romanzo (e ovviamente del film) è la particolare classificazione che Don Mariano Arena, al momento dell'arresto, offre al capitano Bellodi.

Il discorso è pressappoco questo:

"Vede capitano, io divido l'umanità in cinque categorie: rarissimi sono gli uomini, e rari i mezzi uomini; sotto di questi stanno gli ominicchi, bambini che fingono di essere uomini; una razza a parte sono i ruffiani, che stanno diventando una vera folla; e al fondo della scala ci sono i quaquaraqua, che starnazzano come le oche del cortile e che sono la maggioranza. Ma lei, anche se mi arresta, è un uomo".

In questi mesi (o dovrei dire anni?) in cui molta parte della politica e del giornalismo è ridotta a chiacchiericcio quotidiano, dichiarazioni che non valgono i pochi centesimi della carta su cui sono stampate, gossip guardoni, totale decadenza dell'etica pubblica e della morale privata, nel confuso vociare dei protagonisti della scena mediatica e delle trasmissioni di cosiddetto approfondimento giornalistico (?!), nessuna esclusa, a nessun livello, da quello locale della mia città a quello nazionale, a me sembra di cogliere l'eco della indimenticabile scena finale de "Il giorno della civetta", quando i mafiosetti che circondano Don Mariano Arena, e che sono a loro volta degli autentic quaquaraqua, si danno a starnazzare proprio come oche il loro grido di esistenza.

Quaquaraqua, quaquaraqua, quaquaraqua.

venerdì, settembre 04, 2009

A MIA MADRE

Occhi opachi e sbiaditi
specchiano i miei occhi,
e guardano distratti
un orizzonte non ancora
rischiarato dalla luce
delineato come linea d'ombra
e di ombre popolato
E le foto del passato
che restituisono brandelli di vita
sono istantanee della memoria,
la sua che appassisce
la mia che s'angustia
per afferrare almeno un poco
il senso vivo del ricordo
Ma nelle vene sue stanche e sfiancate
e nelle mie precariamente sane
(ancora ora e qui, ma poi chissà)
scorre lo stesso sangue vermiglio
e la sua carne è mia
e la mia carne è sua
perché lei mi appartiene dalla sera lontana
in cui mi diede scintilla di vita
e io le appartengo da quella sera e per
ogni istante di tempo
Si dovrebbe varcare sempre insieme
la soglia irreparabile
e ritrovarsi aldilà, nella luce o nell'ombra che sia
perché separarsi è impossibile davvero
senza perdersi
e sopravvivere è solo un frattempo
per ritrovarsi nella luce o nell'ombra

venerdì, luglio 31, 2009

Da piazza Fontana ad oggi: le radici del disastro

Ho finito di leggere il "monumentale" saggio di Paolo Cucchiarelli dedicato a "Il segreto della strage", edito da Ponte alle Grazie, che fatica a conquistare posizioni nelle classifiche dei saggi più venduti.
Certo un libro di oltre seicento pagine, fitte di fatti, nomi, persone, ricostruzioni, ipotesi ragionate, non è, per sua natura, destinato ad un pubblico amplissimo di lettori; e l'argomento, ormai storicizzabile (dalla strage di Piazza Fontana sono passati ormai quarant'anni, l'anniversario cade il 12 dicembre 2009), richiede una conoscenza, più o meno diretta, del contesto storico, nazionale e internazionale, che non può richiedersi a chi abbia meno di cinquant'anni, e che dunque quegli anni dal 1969 in poi abbia se possibile vissuto in presa diretta.
Eppure il libro, magari in una edizione ridotta, meriterebbe di esser letto anche e sopratutto dai "giovani", se vogliono capire qualcosa dell'Italia in cui vivono, e del modo in cui la storia di questo paese è stata più volte risospinta sul terreno dell'arretratezza economica, politica, culturale, delle riforme mai fatte, della modernizzazione mai attuata, di come, insomma, un paese uscito distrutto dall guerra e che pur seppe risollevarsi con gli aiuti americani e la tenacia laboriosa del suo popolo, sia potuto approdare all'attuale stagnazione paludosa, con una classe politica vecchia, consunta, logora e inadeguata, con classi dirigenti incapaci e rapaci, con una società civile frammentata, litigiosa, priva di orizzonti ideali, in fondo conforme alla sua classe politica e alla sua classe dirigente nel verbalismo vacuo delle finte indignazioni, nell'ipocrita declinazione di inesistenti virtù pubbliche e di tangibili e incontenibili vizi privati che quelle vrtù pubbliche minano e corrompono.
Se Cucchiarelli ha ragione (e temo che abbia ragione) in fondo tutto nasce proprio da quella strage, dalla sua "doppiezza" (bombe anarchiche, che non avrebbero dovuto far morti, affiancate a bombe fasciste che, nella combinazione, produssero la strage), dalla conseguente inconfessabile verità e dalla fissazione di una verità di "comodo", accettata anche dalla sinistra storica ed extraparlamentare, che pure finì per offrire un alibi al terrorismo brigatista, dall'onda lunga del progetto di stabilizzazione autoritaria che costituiva il "core business" di piazza Fontana, che travolse anche Aldo Moro, dal successivo "accomodamento" dei governi di centrosinistra degli anni '80, con l'incapacità di avviare le riforme strutturali di cui il paese aveva bisogno, e quindi dal crollo del vecchio sistema dei partiti, con il tramonto dei regimi dell'Est, dalle "manovre" internazionali che certamente sostennero la "falsa" rivoluzione di tangentopoli, dalla riorganizzazione di un blocco moderato attorno a Berlusconi e dall'emersione di un partito territoriale che è riuscito a conquistare anche i c.d. ceti popolari, dal fallimento di una classe politica di governo di centrosinistra dominata ancora da figure vecchie e incapaci di concepire la politica altro che come gestione degli interessi, semmai in larga misura asservita agli interessi forti o addirittura direttamente partecipe di quegli interessi.
Le vicende pugliesi di questi ultimi mesi sono esemplari, nell'intreccio di vecchie furbizie politiche, populismi e caudillismi, mala sanità, mala politica, malaffare, che enfatiche declamazioni para-poetiche non riescono più ad addolcire e tanto meno a nascondere.
In poco più di un mese si è passati dalle acclamazioni frettolose di una "storica" vittoria, alle furibonde litigate sulla segreteria del PD, dalle improvvide dichiarazioni sulla Puglia come "laboratorio politico" (in cui la "grande idea" era d'imbarcare in maggioranza l'UDC casiniana, nelle sue varianti locali), alle sferzanti e ruvide parole sull'avventatezza di una inchiesta giudiziaria (le inchieste "non avventate" sono sempre quelle che riguardano gli altri, ovviamente), dalle dimenticate promesse di sciogliere il cumulo tra incarichi istituzionali e incarichi di partito alla rivendicazione del cumulo, come sia e purchessia, passando attraverso aperture a nuovi movimenti localistici che si propongono di costruire una sorta di Lega Sud trasversale, che sembra più che una coerente declinazione di un nuovo meridionalismo un tentativo di costruzione di un "nuovo notabilato" meridionale che possa giocare ancora un ruolo politico nazionale, naturalmente senza una vera idea di sviluppo del paese nel suo complesso, accettando il gioco leghista e rilanciandolo.
All'origine della "miseria" della politica attuale, di cui in fondo le "esuberanze" cavalieresche sono la parte pittoresca, non certo quella più rilevante e allarmante, stanno i fatti (e i non fatti) di quarant'anni fa, che hanno indirizzato in un certo modo la storia nazionale, in un modo che non si è saputo o voluto raddrizzare.
Ma il vero e risorgente pericolo di questa fase è che una classe politica declinante e percorsa a destra, al centro e a sinistra, da scandali di ogni tipo, cada una volta di più sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, lasciando che i soliti poteri "forti" s'incarichino di gestire un altro rinnovamento, che rischia di essere fittizio come quello seguito a tangentopoli, aprendo la strada ai soliti "tecnocrati" per una transizione che rischia poi di riconsegnare il paese a figure nuove confezionate ad hoc, in una spirale senza fine.
Cambiare tutto perché non cambi niente, secondo il vecchio insegnamento del principe di Salina.

sabato, luglio 18, 2009

Le nuove categorie della politica

La nuova "pasionaria" piddina, Deborah Serracchiani, ha sdoganato quale nuova categoria della politica la "simpatia" e la "antipatia".
Intendiamoci, sono pulsioni istintive, emotive, spesso inconsapevolmente sottintese a un ragionamento e ai rapporti sociali, dall'amicizia ai luoghi di lavoro, e forse possono spiegare, più e meglio di articolate analisi su sistemi di valori e progetti politici, l'avversione o l'adesione a un'idea quando essa s'incarna, come è quasi inevitabile, in un uomo-simbolo.
In fondo, grandi "antipatici" sono stati De Gasperi, Togliatti, Fanfani, La Malfa, Craxi, De Mita, Forlani, Scalfaro...; mentre invece grandi "simpatici" sono stati Pertini, Berlinguer, Nenni, anche Andreotti con le sue arguzie, e per venire ai giorni nostri, se vogliamo è anche sul crinale antipatia/simpatia che si situano Berlusconi in massima misura, e in parte più piccola Bossi e Di Pietro, mentre dalla parte degli antipatici stanno decisamente D'Alema, Tremonti, Gasparri, Quagliariello e via così.
Anche nel "ridotto" pugliese non può dirsi che la dicotomia non giochi il suo ruolo: Michelone Emiliano, con il suo corpaccione che ricorda la pubblicità della Ferrero ("gigante pensaci tu"), è certo simpatico, mentre è difficile che non sia antipatico Raffaele Fitto, per non dire di Simeone Di Cagno Abbrescia, mentre Nicki Vendola è un po' double face: può risultare simpatico o antipatico, secondo che affabuli di valori o ragioni di politica.
Però la categoria della simpatia non era sinora mai assurta a criterio obiettivato di scelta di un segretario di partito; non si era mai sentito che la giustificazione di una scelta di schieramento fosse riposta nell'istintiva pulsione di empatia che lascia presupporre un sentire comune (come è appunto la simpatia).
Quando la quarantenne d'assalto multipreferenziata ha dichiarato che sceglieva Franceschini perché simpatico, è stata quasi sommersa da una salva di fischi e contumelie; eppure, in fondo, ha espresso soltanto il punto dei vista dei "giovani", di quei giovani di cui tutti i partiti "liquidi" della seconda repubblica cercano d'intercettare i consensi, rivendendosi furbescamente il "giovanismo" come valore aggiunto, salvo a dare poco o nessuno spazio alle quote "verdi".
E' evidente che Franceschini è "simpatico", in questo senso, ben più che Bersani: con la sua zazzeretta da bravo ragazzo di college americano, le camicie con le maniche rimboccate sui polsi, l'aria informale, questo cinquantenne può rappresentare nell'immaginario giovanile qualcosa che ricorda, in piccolo s'intende, il fenomeno Obama, che tra i giovani, i blog, la rete, ha costruito la sua identità politica.
Bersani, al contrario, con la sua più che incipiente calvizie, i tratti netti, il curriculum piccino-pidiessino-diessino, l'appoggio dell'antipatico per eccellenza D'Alema, sembra emergere dal passato lontano e dal milieu delle sezioni di partito, delle cooperative rosse, delle case del popolo, delle olivetti lettera 82, dei vecchi ciclostili.
Sin qui non meno scandalo delle dichiarazioni della Serracchiani che interpreta, non so se ingenuamente o furbescamente, il ruolo di voce delle nuove generazioni, e quindi anche delle loro pulsioni pre-politiche, o a-politiche, l'idea di una politica fatta solo di emozioni, immagine, youtube, internet, facebook, concerti a seguire brevissimi comizi, incontri in comitati elettorali dove si beve a sbafo (non è accaduto anche a Bari?).
Dove però la Serracchiani è scivolata, in modo rovinoso, è nella sua ultima esternazione, in cui immagina e rivendica un partito democratico dove ci sia spazio per tutti, da Beppe Grillo alla Binetti.
La ragazza, in sostanza, vorrebbe un partito che sia come una di quelle scatole di cianfrusaglie da soffitta, dove si tiene un po' di tutto, dalle foto della scuola e delle gite scolastiche, a vecchie lettere d'amore, ad una fionda, alle biglie colorate, a qualche ingiallita tessera di movimenti giovanili.
Una scatola che ha valore più come contenitore che per il suo contenuto, che dovrebbe esser "ricca" solo perché contiene di tutto e di più.
Si dirà che anche il PdL è un partito-scatola, che dentro ci sono sia Tremonti, vicino alla Lega, che Cicchitto, ex socialista con tessera P2, sia Quagliariello, ex radicale, che Bondi, ex comunista, sia Pisanu (vecchio moroteo) che la Savino, la Carfagna e le altre "bellone" del Capo.
Verissimo, ma lì c'è qualcuno che, nel bene e nel male, porta la scatola, e lo sguardo corre a lui, non alla scatola, anzi la scatola ha un senso ed esiste come tale solo perché esiste il Grande Inscatolatore.
Nel Pd scatolare, invece, nella scatola, alla rinfusa, ci finirebbero tutti, ma proprio tutti, e siccome non c'è tanto spazio e ognuno ne vorrebbe uno minimo vitale, la scatola dalle fragilissime pareti alla fine cederebbe, come certe scatole da scarpe quando anziché un paio, ne vuoi fare entrare due.
L'idea, ingenua o forse furbesca, della Serracchia è così di conglobare nel PD tutte le pulsioni, da quelle populiste vero-finto-moraliste-indignate a quelle riformiste-idealiste, a quelle realiste-politiciste, a quelle ideologico-valoriali, nell'ambizione di voler rappresentare, "totalitariamente", tutti gli umori della società italiana.
In effetti, a ben guardare, è il modello vecchio del partito di massa e interclassista, cioé della vecchia DC o del PCI emiliano-romagnolo, che peò avevano il collante dell'ideologia, a rinforzare le pareti delle scatole.
Deborah Deborah, se questa è la tua idea della "nuova" forma partito, sei un po' più vecchia dei quarantanni che l'anagrafe certifica.

venerdì, giugno 19, 2009

SE QUARANTANNI VI SEMBRAN POCHI PER UNA SCOMODA VERITA'


Quarant'anni sono un tempo lungo e per misurarlo nella sua profondità basta pensare che nel 1959 erano passati quaran'anni dal 1919, ossia da uno degli anni del "biennio rosso", in cui andava formandosi e irrobustendosi il partito fascista, che nel 1969 erano andati quarant'anni dai patti lateranensi, che chiudevano il sessanennio della "questione romana", che nel 1979 si celebravano i quarant'anni dall'inizio (agosto 1939) della seconda guerra mondiale con l'invasione nazista della Polonia.


In questo turbolento 2009, segnato dalla crisi economica mondiale e dalle miserie dello scenario politico italiano, cade il quarantennale dell strage di Piazza Fontana, il primo grande avvenimento (dopo l'assassinio dei due Kennedy) di cui posso dire di avere memoria diretta, anche se delineata nell'inquietante gioco di luci e ombre del bianconero dei telegiornali dell'epoca.


Di quelle immagini della sera di venerdì 12 dicembre 1969 conservo il ricordo del buco nero sul pavimento del salone centrale della Banca nazionale dell'Agricoltura, del salone cosparso di detriti, da cui erano già stati portati via i morti e i feriti, e lo sgomento di un fatto che, ai miei occhi di undicenne, era paurosamente prodigioso e inspiegabile.


Anche le foto della scena del crimine sono in bianconero, che è il colore del ricordo e che, nel contrasto tra luci e ombre, non restituisce ma paradossalmente attenua la cruda verità che apparve agli occhi di polizia, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri: le pareti chiazzate di sangue, frammenti di ossa e di materia cerebrale, i corpi anneriti dei morti, i pezzi anatomici sparsi, il colore della vita annientata o segnata per tutta la vita.


E le foto non dicono gli odori di quella scena, dall'acro della nitroglicerina uguale ai disinfettanti di ospedale al dolciastro della carne bruciata, al sentore di mandorle amare del binitrotoluolo (che era uno dei composti dell'esplosivo).


Leggo da qualche giorno "Il segreto di piazza Fontana" di Paolo Cucchiarelli (Ponte alle grazie), forse il saggio più completo e documentato sulla strage e sugli attentati che nello stesso giorno colpirono Roma (sotterranei della Banca nazionale del Lavoro, Altare della Patria, pennone e lato Museo del Risorgimento, mentre la bomba alla Banca commerciale di Milano, probabilmente destinata non a scoppiare ma a lasciare una "firma" che servisse alla connotazione politica fu fatta frettolosamente brillare nel cortile di quell'istituto di credito).


E' un librone di 700 pagine (compresa una nota tecnica sul tipo di esplosivo utilizzato a piazza Fontana, i ringraziamenti, il fittissimo indice dei nomi), zeppo di riferimenti analitici anche tecnici (il tipo di borse utilizzate e le cassette che contenevano le cariche esplosive, ad esempio), molto diverso nell'impianto e nella narrazione da "La notte che Pinelli", il saggio con il quale Adriano Sofri ha ricapitolato la vicenda del ferroviere anarchico che precipitò da una finestra della Questura di Milano e i suoi sviluppi giudiziari; e ancora diversissimo dal lucido e tenero ricordo di "Spingendo la notte più in la" che ha proposto la inedita prospettiva delle vittime dei fatti di terrorismo, a partire dal ricordo di Mario Calabresi, che perse il padre quando aveva appena due anni eppure conserva un ricordo puntuale di quei giorni.


Il segreto della strage, nella lucida e argomentata ricostruzione di Cucchiarelli, è nel fatto che essa fu una strage "doppia", in cui furono coinvolti gli anarchici, convinti di fare una esplosione solo "dimostrativa" e in realtà attirati in una trappola dai fasciti di Ordine nuovo (Freda, Ventura, e il loro gruppo veneto-padovano) e di Avanguardia nazionale (Stefano Delle Chiaie), a loro volta manovrati da una parte dei servizi segreti, che voleva attentati eclatanti ma dimostrativi per sostenere un disegno di svolta autoritaria, sul tipo di quello che aveva portato al potere i colonnelli greci, ma dove qualcuno giocò sporco, cercando invece proprio la strage, per forzare ancora di più la mano, ottenendo invece l'effetto contrario di fermare la svolta autoritaria, alimentando soltanto la teoria, comunque politicamente utile, degli "opposti estremismi".


Vale la pena riportare un brano del libro:


"Il segreto della strage ha resistito per tanti anni godendo del silenzio di tutti i soggetti interessati: Stato, fascisti e anarchici. Questi ultimi dovevano scagionare Valpreda e rivendicare l'innocenza di Pino Pinelli. Si erano fatti tirare dentro, e ora la situazione non lasciava alcuno scampo politico: difficilmente sarebbe stata dimostrabile nelle aule di tribunale la loro buona fede di non voler causare morti. Da un punto di vista giuridico, la partecipazione degli anarchici alla vicenda sarebbe stata quantomeno un concorso in strage. Gli apparati che si erano resi colpevoli di connivenza coi fascisti dovevano a loro volta tutelarsi. Né poteva saltar fuori il ruolo di polizia politica che i servizi segreti svolsero -coprendo e depistando, facendo fuggire testimoni e occultanto o sottraendo prove- pur di tenere in piedi il tornaconto che la strage aveva offerto. Altrettanto prioritaria era l'esigenza di sottrarre alle condanne i veri responsabili materiali della strage, i fascisti. Avrebbero altrimenti potuto dispiegare un incredibile ricatto nei confronti di chi, all'interno degli apparati, aveva sostenuto l'operazione. Cosa che difatti accadde con le successive stragi. Salvando il segreto della strage, si salvavano anche i fascisti. Ecco perché probabilmente alla strage di Stato seguirono, su entrambi i fronti, le assoluzioni, altrettanto di Stato. Se si fosse distinto tra una borsa e l'altra, tutti sarebbero stati costretti ad ammettere pubblicamente qualcosa di inconfessabile. La trappola in cui erano caduti gli anarchici, che la sinistra doveva difendere a tutti i costi, era diventata ormai un segreto politico condiviso da tutelare. Da parte di tutti i soggetti interessati. Dentro quella trappola è così caduta un'intera generazione".


In pratica secondo Cucchiarelli, quel pomeriggio di venerdì' 12 dicembre 1969 tra le 16 e le 16.25 nel salone della BNA entrarono due persone, in momenti diversi: la prima, Valpreda, aveva una borsa contenente una cassetta metallica con esplosivo innescato da un timer (probabilmente era convinto che la "corsa" del timer fosse regolata a 120 minuti, e quindi che la bomba sarebbe esplosa a banca ormai vuota); la seconda con una borsa contenente esplosivo al plastico a innesco con miccia, che collocò la sua borsa sul ripiano del tavolo ottagonale centrale vicino a quella che aveva lasciato l'inconsapevole Valpreda; fu quest'ultima bomba a esplodere per prima attivando in una manciata di decimi di secondo anche la prima bomba, che era munita di un detonatore esterno; nessuno percepì due esplosioni, perché esse furono quasi istantanee.


La ricostruzione, argomentata e documentata, è del tutto verosimile, ed ha il pregio di mandare a posto praticamente tutte le tessere del mosaico.


Se posso aggiungervi un'impressione personale, direi che è abbastanza coerente con l'immagine di pochezza e sprovvedutezza che ebbi di Pietro Valpreda quando una sera autunnale del 1976 (o del 1977? qui il ricordo non mi conforta bene), andai con un altro colaboratore d Bari Radio Uno a prenderlo al palazzo dell'Ateneo di Bari, in un'aula della facoltà di lettere dove si svolgeva una infuocata assemblea proprio su piazza Fontana, per portarlo sino all'ottavo piano di via De Giosa con angolo piazza Luigi di Savoia via Carulli dove erano gli studi di Bari Radio Uno.


Quella serà andò in onda una intervista radiofonica condotta da Carlo Brienza, all'epoca direttore di Bari Radio Uno, e mi pare di ricordare che ci fossero anche Peppino Garibaldi, Bianca Tricarico, Fortunata Dell'Orzo, forse Susanna Napolitano, e chiedo venia se dimentico qualcuno.


Io non ebbi modo (ero uno degli ultimi arrivati nella redazione) di fare domande a Valpreda, ma lo vidi bene, lo osservai, ascoltai le sue risposte, sopratutto sul ruolo di Mario Merlino, il fascista infiltratosi nel circolo XXII Marzo fondato da Valpreda a Roma.


L'impressione che ne ricavai fu di una persona modesta, veramente modesta per intelligenza generale e politica, cultura generale e politica, del tutto inadeguata al ruolo che gli era toccato in sorte, e però qualcosa in lui non mi persuase del tutto; non riuscivo a scorgerne le stimmate del martire, dell'innocente assoluto predestinato a fare da capro espiatorio.


Fu una impressione vaga, che è rimasta sempre sepolta, e che mi torna alla mente rileggendo le pagine di Cucchiarelli.


Se l'ipotesi del libro è esatta Valpreda fu complice attivo (ma inconsapevole degli esiti mortali che non immaginava e non avrebbe voluto) della strage, fu l'uomo che, assieme agli altri anarchici, cadde nella trappola, e che aveva tutte le caratteristiche di sprovvedutezza e pochezza per diventare strumento di un disegno raffinatssimo che non poteva comprendere, nella sua mediocrità e inadeguatezza, come non lo poté capire, se non quando la strage fu cosa fatta e irreversibile, Giuseppe Pinelli.


Temo che Cucchiarelli possa aver visto giusto dopo dieci anni di ricerche, consultando tutte le fonti disponibili e anche qualche fonte orale informata dei fatti.


Se è così, in quella trappola siamo davvero caduti tutti quanti e la storia degli ultimi quarant'anni va riscritta a partire da questa scomoda verità.

lunedì, giugno 15, 2009

FACIMME AMMUINA

E' un riconoscibile falso il celebrato articolo 27 del Regolamento della Marina borbonica del 20 settembre 1841, secondo il quale, in occasione di ispezioni e visite a bordo di altre autorità, per dar l'impressione che si facesse qualcosa di operoso, attivo, importante, gli imbarcati dovessero fare "ammuina"; ossia, come avrebbe prescritto quel regolamento in pura lingua partenopea: "tutte chille ca stanno a prora, vann'a poppa e chille ca stann' a poppa vann'a prora; chille ca stann'a dritta vann'a sinistra e chille ca stanno a sinistra vann'a dritta; tutte chille ca stanno abbascio vanno 'ncoppa e chille ca stanno 'ncoppa vann'abbascio, passanno tutte p' 'o stesso pertuso; chi nun tene nient' 'a fa' , s'aremen' 'a ccà e 'a là ".
Però si deve esser grati a questo falso, di probabile ispirazione antiborbonica, perché descrive in modo plastico, e come meglio non si potrebbe, il senso di un'azione convulsa, frenetica, diretta appunto a dar la sensazione che tutto si muova e qualcosa accada mentre invece accade poco o nulla.
Forse il Cav. ha riscoperto, in una delle sue visitationes casoriane, il detto, e questo spiegherebbe l'ammuina del complotto più o meno "eversivo", evocato nei giorni scorsi, convalidato dal Sen. Cossiga con le rivelazioni di una congiura intesa a detronizzar Silvio per intronizzare Draghi, emblematico campione dei poteri forti delle banche, della finanza, del variegato mondo imprenditoriale e d'interessi che gira attorno alle une e all'altra.
Epperò, anche Max "statista" D'Alema, in omaggio alla sua intervistratrice (che però è di Sarno, provincia di Salerno, e non propriamente napoletana), ha annunziato alla Lucia "scosse", singulti tellurici, probabili sommovimenti politico-istituzionali, senza rivelare né le fonti delle sue divinazioni, né gli esiti che da questi sismi politici dovrebbero sortire (il crollo di Silvio, un'ennesima increspatura del cerone intonachizio della sua immagine di intramontabile sessantenne pure incamminato verso gli ottanta?).
Forse ognuno parla a nuora perché suocera intenda: il Cavaliere per serrare le fila della maggioranza, evocare un nuovo 1994, spaventare i moderati dell'UdC, mandare segnali alla Lega qualora la guardia pretoriana padana volesse in qualche modo smarcarsi troppo o troppo tirare la corda cui tiene avvinto il resto della maggioranza; Max "statista" per evocare l'esigenza che in passaggi delicati e cruciali non ci si dimentichi, appunto, di quanti, come lui, hanno dato prova di autorevolezza e nervi saldi, sin dal difficile passaggio della guerra del Kossovo, quando ha guidato, unico ex comunista della storia d'Italia, il governo; e magari anche per dire al popolo democratico che non è proprio il momento di affidarsi a convulsi conati giovanilisti pensando di affidare il partito ad una giovane quarantenne carina ma troppo immatura e certo "leggerina" come la Deborah Serracchiani.
L'oggetto comune del contendere, sul terreno politico, poi è nientepopodimenoché l'UdC di Casini e Cesa, che Berlusconi, facendo male i conti, aveva immaginato in liquidazione (dimenticadone il radicamento siciliano e territoriale, in quanto partito degli assessori al sud), e D'Alema vorrebbe imbarcata come un qualsiasi Udeur in un'ampia coalizione antiberlusconiana, comprensiva anche della Sinistra radicale nelle sue due declinazioni (S&L, RC-PdCI-Socialisti) e magari, perché no, anche dei pannelliani e boniniani.
Queste "simmetrie" berlusconian-d'alemiane dimostrano, se ce ne fosse bisogno, di quanto sia logora e stantia la visione delle cose nel centrodestra e nel centrosinistra. così legata ai tatticismi e al gioco dei messaggi, così slegata dai bisogni e dalle esigenze della società italiana.
La politica sembra ormai soltanto un reality show, con la sua compagnia fissa di giro, le litigate, i pensieri poveri e debolissimi, laterali anzi periferici, gli orizzonti che non vanno al di là del salotto di Porta a Porta.
E in tutto questo Napolitano corre il rischio di far la parte di una qualsiasi Barbara D'Urso o Simona Ventura, quando richiama all'ordine senza convinzione i concorrenti con il fatidico "Ragaaaaziiiiii".

giovedì, maggio 28, 2009

The Untouchables


Perché parlare di un film vecchio ormai di ventidue anni?
Ci sono film che si stagliano, solidi, forti di una capacità evocativa che il tempo non affievolisce, perfetti nella miscela di ingredienti che fanno di un semplice film "il film", dalla trama, alla delineazione psicologica dei personaggi, alla scelta di attori che sappiano incarnare sino in fondo il ruolo, dalle scenografie, alla fotografia, al colore, al ritmo narrativo, alla maestria della ripresa, nel gioco tra primi piani, piani sequenza, stacchi, alle musiche che del film devono saper sintetizzare l'anima poetica.
Non sono un cinefilo, ma nella mia ideale filmografia di film così se ne possono contare forse una ventina, forse una trentina
Non tutti sono capolavori, nel senso pieno e vero, certo lo sono praticamente tutti quelli di Kubrick, moltissimi di Hitchcock, parecchi di Truffaut, alcuni di Sam Mendes, alcuni di Altman, almeno tre di Francis Ford Coppola, almeno cinque di Spielberg, qualcuno di Fellini, di Dino Risi, di Monicelli, di De Sica...
Poi ci sono film in ogni caso eccellenti, che conservano una freschezza sorprendente, che visti a cinema si rivedono volentieri ad ogni passaggio televisivo.
Gli Intoccabili (The Untouchables) è un film appunto eccellente, come il suo regista Brian De Palma (di cui a parte "Mission impossible" e "Mission to Mars", film commerciali di buona fattura e nulla più, rimane memorabile "Vestito per uccidere" con un Michael Caine al vertice della sua maestria attoriale).
Eccellenti sono gli attori, da Kevin Costner (che interpreta l'agente federale del Tesoro Elliot Ness, l'uomo che sconfisse Al Capone), ad un intensissimo e ironico Sean Connery (l'umanissimo poliziotto Malone, che dalla strada, dove si era esiliato nell'assoluta estraneità all'ambiente corrotto della Polizia di Chicago, ritorna al fianco di Ness ad un ruolo investigativo), al misurato ed efficace Andy Garcia (giovane poliziotto italo-americano, il volto pulito e presentabile dell'Italia che sbarcava ad Ellis Island negli anni dell'emigrazione a frotte verso l'America), all'insuperabile Robert De Niro (che realmente ingrassato di una ventina e passa di chili, interpreta un Al Capone gigione, ironico, crudele, furente secondo un pentagramma di umori e passioni che padroneggia sino in fondo), sinanche ai protagonisti minori, come il killer dal vestito e dal cappello bianco e l'occhialuto e buffo contabile che entra nella squadra di Ness e sarà il primo a lasciarci la pelle, seguito dal coraggioso Malone.
Eccellente è lo sviluppo della trama, il ritmo narrativo, la costruzione delle immagini, la fotografia così bene virata dai toni caldi e opulenti dei grandi alberghi e palazzi dove Capone e i suoi tessono le proprie trame criminali e ne godono i frutti dorati, ai toni freddi e catramosi della Chicago notturna, memorabile -con voluta citazione alla Corazzata Potiomkin- la lunga sequenza della sanguinosa cattura del mezze maniche contabile di Capone, sulla scalinata della Chicago central station, ode architettonica al treno, all'epoca mezzo principe di locomozione, e alle grandi stazioni viste in tanti film dell'America anni trenta e quaranta, porti di terra in cui si intrecciano e di disperdono i fili di viaggiatori frettolosi o assorti, gioiosi o disperati.
Serratissima, dopo l'uccisione di Malone e la cattura del contabile di Capone, è la lunghissima sequenza del processo a Capone, la cui svolta è rappresentata dalla scoperta della lista dei giurati corrotti nelle tasche del killer biancovestito, catturato e buttato giù dal tetto del palazzo di giustizia da un Elliott Ness furente per il dileggio gratuito che il cattivone riserva all'amico Malone, che ha barbaramente sforacchiato con una sventagliata di mitra.
Perché Ness, che all'inizio della storia era un idealista convinto di poter combattere il crimine con le sole nude armi della legalità, dopo la sua dolorosa "perdita dell'innocenza" capisce che l'unico modo per battere Capone è fotterlo comunque, e non esita a ricorrere alla bugia, turlupinando il povero giudice al quale rivela che oltre alla lista dei membri della giuria corrotta da Capone, anche il suo nome figurerebbe tra quelli "comprati", e così lo costringe, superando le pastoie della procedura, a cambiare la giuria e quindi ad impacchettare Capone verso un penitenziario federale.
E poi, su tutto il film, attraverso il film, nelle sue scene, vi è l'incanto della colonna sonora, essa pure memorabile nel tema principale, dovuta all'arte inarrivabile di Ennio Moricone.
L'ho rivisto ieri sera "The Untochables", storia di come la giustizia, qualche volta, trionfa davvero, e non sempre lo fa seguendo la via maestra, ma più spesso per strade tortuose, perché tortuosi sono gli uomini, sia che siano delinquenti, sia che siano poliziotti, ladri o guardie, e al fondo anche giudici.
E del film, emblematica, è la furiosa reazione di Capone al cambio della giuria, quando capisce che il suo impero criminale è davvero crollato, e a Ness che lo sfida risponde "Ma vattene, non sei niente, sei solo chiacchiere e distintivo, solo chiacchiere e distintivo".
E forse è vero che spesso gli uomini di legge sono solo "chiacchiere e distintivo", o anche "chiacchiere e toga".
Ma qualche volta no.
Per fortuna.

mercoledì, maggio 27, 2009

La questione morale secondo "Franceschiello"


Dario Franceschini ha scoperto la variante neomediatica e gossippara della "questione morale", cercando di aggiornarne i termini e adeguarli agli scenari della c.d. seconda Repubblica, e riuscendo piuttosto ad appiattirli nei termini dell'unica e ultratrentennale "La Repubblica".


Le dichiarazioni di ieri, del senso "Mamme, affidereste i vostri figli a un uomo così?", sottilmente evocative degli spettri che oltre due anni fa si agitarono tra le aule dell'asilo di Rignano Flaminio, piuttosto che degli scenari di "Lolita" di Nabokov, sono state francamente, "franceschinamente", infelici.


La risposta dei figli che già sono stati affidati, storicamente e naturaliter, all'uomo "così", ossia ai figli veri, concreti, legittimi del Cav. è stata immediata, forte, e anche dignitosa: e se i figli veri di un uomo "così" lo difendono all'unisono, forse le mamme d'Italia più che allarmate dall'interrogativa retorica di Franceschini sono uscite rassicurare dalle risposte della stirpe berlusconiana.


Nel frattempo è fallito anche il tentativo di tirar per la tonaca la Conferenza episcopale italiana a pronunciarsi sul merito della questione: perché è vero che l'Avvenire, a proposito del divorzio Berlusconi-Lario, ebbe a invitare il premier a maggior sobrietà, ma di qui a pronunciare pubblico interdetto su un supposto (sino a prova provata contraria) corruttore di minorenni ce ne corre.


E la Chiesa e i suoi Vescovi, che hanno esperienza bimillenaria e traguardano le cose di questo mondo con una lente rovesciata perché, in ogni caso, devono guardare più da vicino profili trascendenti, e alla luce di quelli cercare di esercitare il proprio magistero, non potevano trasformarsi in agenzia di certificazione di qualità di una questioncina morale a evidenti fini elettorali.


Franceschini, in piena ebbrezza elettorale e forse davvero convinto d'essere non un semplice "pilota di porto" per condurre la malconcia nave democratica verso un congresso ma addirittura un possibile comandante di quel vascello, ha pensato bene di giocare sino in fondo una partita aggressiva, all'americana, senza ricordare che in quella società, imbevuta di valori protestanti (che sono la vera etica del capitalismo), il giudizio morale sui comportamenti privati dei policiti conta davvero, in questa, invece, che è cattolica, il confine tra etica pubblica e morale individuale è ben più netto e marcato, e i peccati privati si lavano in confessionale e non in pubblici lavacri parlamentari, di stampa, mediatici.


Piaccia o non piaccia questa è l'Italia e questa la sua "tradizione".


E Franceschini non avrebbe dovuto dimenticarlo, poiché nel suo partito d'origine su molti vizi "privati" di eminenti esponenti era steso un velo spesso e oscuro, che giammai il PCI, il PSI o alcuna delle forze politiche di sinistra (e anche di destra a dire il vero) avrebbero pensato di sollevare, e non solo per questioni di stile, ma perché quel confine era chiaro e invalicabile.


Nemmeno Di Pietro, che pure ha il copiright dell'antiberlusconismo, ma che nella sua furbizia di prossime ascendenze contadine molisane è ben più sveglio e accorto, ha ritenuto di varcare quel confine (peraltro lui pure sposato due volte e con qualche frequentazione di soubrette: ai tempi in cui era Ministro delle infrastrutture è noto che per le stanze del dicastero di Porta Pia circolava l'Elona Weber).


Invece Franceschini, col suo faccino di bambino un po' invecchiato, il suo taglio di capelli da caposquadra dell'Agesci, il suo bonario accento emiliano, s'è dimenticato di tutta la tradizione sapienzale della vecchia DC, di cui si è nutrito assieme al latte materno, ed è andato fuori dal seminato (e dal seminario!).


E' proprio vero, allora, che i migliori amici del Cav. sono i suoi nemici, e che, come ripeteva Don Vito Corleone al giovane Michael insegnandogli i fondamenti del mestiere di padrino, i nemici bisogna tenerseli stretti, ben più degli amici.


Insomma il PD scopre oggi amaramente che più che a Franceschini si è affidato a Franceschiello, che fece la fine che sappiamo.

martedì, maggio 26, 2009

E SE FOSSE SUO NONNO?

Repubblica continua la saga della Letizia, cui dedica le energie migliori della sua redazione.
Con l'intervista al presunto fidanzato di Noemi è sceso in campo, nientepopodimenoché, Giuseppe D'Avanzo, come dire il Gian Antonio Stella del quotidiano romano, che nel decantati solco del grande giornalismo "d'inchiesta" (quello che una volta si occupava di stragi, mafia, corruttele, delitti eccellenti, cioé "robetta" al confronto dei "misteri di Noemi") ha intervistato il fidanzato (presunto) della ragazzina, un meccanico di discreto aspetto nerboruto e di qualche precedente penale (ma questo ovviamente taciuto), il quale ha dichiarato la sua verità sull'affaire, che coincide con le prime ipotesi investigative proposte dal "Washington Post" de noaltri: il book fotografico, l'intermediazione di Emilio Fede, la chiamata telefonica inattesa, la vacanza nella villa sarda, con condimento di decine di ragazze giovani e avvenenti, la improvvisa mutazione della Noemi, evidentemente assoggettata alle insane voglie dell'anziano anfitrione.
A questo punto Letizia padre ha dichiarato al Mattino di Napoli la sua verità: un incontro casuale una decina di anni fa, una lettera accorata all'indomani della tragica morte del fratello più grande di Noemi, la presentazione della famiglia al Cav., con la Noemi bambina di otto anni o giù di lì che propone di chiamare Silvio "nonnino", corretta dal padre che le suggerisce "non esagerare (mica è così vecchio) chiamalo papi".
E chissà perché a questo punto, come San Paolo sulla via di Damasco, un'illuminazione mi ha attraversato tutto, come una scarica elettrica: E SE FOSSE SUO NONNO????
Poiché ci si muove in un contesto puramente "indiziario", la realtà è aperta infatti a tante diverse letture.
Vediamo un po': la mamma di Noemi ha più o meno la stessa età di Marina Berlusconi, e se ci fate caso ha un profilo, con la mascelletta, e uno sguardo, che ricordano Marina, che è poi la versione femminile del Cav., ben più di Piersilvio, e molto più dei figli della Veronica, in cui i caratteri somatici del Cav. si sono meglio mescolati con quelli della Miriam Bartolini (in arte Lario).
Sappiamo anche che la mamma di Noemi ha frequentato ambienti televisivi, nei tempi di sua gioventù, senza grande fortuna, ma li ha frequentati, e anche qui ci potrebbe essere l'imprinting paterno, i geni non sono acqua fresca.
Poi ha sposato un oscuro dipendente comunale di bell'aspetto, che aveva frequentazioni socialiste nella Napoli socialista dei De Donato, che in fondo era uno dei milieu del Cav. (non Napoli, ma l'ambiente del P.S.I. craxiano).
E chissà, a questo punto, che come in un feilleuton di fine ottocento, il Cav. non abbia scoperto proprio sul finire degli anni '90 che tra le sue varie avventure in giro per l'Italia una aveva prodotto un frutto proibito e inconfessabile: una figlia naturale, mai riconosciuta e mai riconoscibile, a salvaguardia degli interessi dei rampolli legittimi, che già fan fatica ad andare d'accordo tra loro (certo non deve essere stato piacevole per Marina e Piersilvio ritrovarsi figli di separati perché Veronica Lario aveva avvinto nelle sue grazie il papà, ma questi sono probabilmente dettagli per Veronica).
Che fareste voi se scopriste di avere una nipote naturale, che è peraltro la più grandicella tra tutti i nipoti, e che, sfortunata, mai ha goduto e mai potrà godere dei frutti solari, pieni e polposi, di una illustre e ricca ascendenza?
Andreste ai suoi compleanni? Le fareste qualche regalino? La invitereste con un'amica, facendole trovare un ambiente "giovane", per regalarle una vacanza di fine anno? Vi ricordereste della festa dei diciotto anni?
Certo che lo fareste, tutti, senza distinzione.
Ma voi mica vi chiamate e siete Silvio Berlusconi, mica avete già cinque figli legittimi e quattro nipoti legittimi, mica dovete preoccuparvi di evitare che una verità "nascosta" deflagri come una atomica distruggendo quel minimo di armonia tra i figli che va pazientemente costruita col bilancino tra donazioni, intestazione di immobili e valori immobiliari, partecipazioni azionarie.
E forse addirittura preferireste, da un certo punto di vista, sentirvi dare del corruttore di minorenni e quasi pedofilo, sopportando lo sputtanamento muliebre e le inchieste di Repubblica, piuttosto che dover ammettere questa "verità nascosta" così destabilizzante, non per lo Stato o i destini dell'Italia, ma più prosaicamente per i destini di una famiglia.
La "variante del nonno", dite la verità, non l'avete mai considerata, e non la considera nemmeno Repubblica, perché al quotidiano di via Cristoforo Colombo, e al suo editore De Benedetti, interessa solo che l'Italia intera tracimi di indignazione per l'anziano signore che insidia le minorenni, cioé metaforicamente e potenzialmente, le "figlie" di tutti, dell'edicolante, come del vigile urbano, dell'operaio, come dell'avvocato, del medico, come del giornalista, insomma di tutta la "ggente".
E in Italia si sa, marturianamente, "i figli so' piezze e' core".

mercoledì, maggio 13, 2009

IL DEBITO DELLA VERITA'




Ieri sera, in tarda serata, su RAI 2 è stato ritrasmessa una puntata, a cura di Gianni Minoli, dedicata all'omicidio di Luigi Calabresi, con una ricostruzione accurata del fatto e del contesto e testimonianze di Gemma e Mario Calabresi, Panza, Mughini, D'Ambrosio e altri che in modo diverso furono "persone informate dei fatti".


Avevo letto un anno fa il libro di Mario Calabresi "Spingendo la notte più in là", che muovendo dalla dolorosa esperienza personale (l'autore aveva appena quattro anni al momento dell'assassinio del padre) e dai ricordi di come una tragedia personale abbia pesato sulla sua vita eppure non lo abbia piegato a logiche di rancore e risentimento, allargava lo sguardo ad alcuni familiari di vittime del terrorismo, persone minute di cui si perde prestissimo ogni memoria.


Pochi mesi fa ho letto "La notte che Pinelli", il saggio puntiglioso con cui Adriano Sofri ricostruisce le settantadue ore del ferroviere anarchico (era un "frenatore") nelle stanze della questura di Milano, ripropone i dubbi sugli esiti dell'indagine sulla sua morte, riepiloga -per vero in modo abbastanza sommario- la campagna di stampa di Lotta Continua contro il commissario Calabresi e le vicende del processo per diffamazione intentato contro il direttore del giornale.


Il 13 dicembre 1969 avevo poco meno di dodici anni, eppure ricordo bene le immagini del telegiornale e il grande buco nero sul pavimento del salone della Banca nazionale dell'agricoltura di piazza Fontana, le foto e le immagini di Pietro Valpreda arrestato, il viso del commissario Calabresi, lo scalpore per la morte di Pinelli.


Il 17 maggio 1972, il giorno dell'omicidio di Calabresi, ero più grande e consapevole, e sopratutto avevo esperienze di prima mano sui cortei e gli slogan contro Calabresi e in generale sulla "strage di Stato" rimata con "Feltrinelli assassinato".


Capisco il punto di vista di Adriano Sofri, ma credo che nel suo libro, peraltro scritto bene e documentato, manchi veramente una parola piccola e sincera, un'ammissione senza se e senza ma di aver scelto un uomo e di averne fatto un simbolo, e quindi un bersaglio per pallottole che, sia o meno venuto un ordine esplicito o implicito dal leader di LC, comunque recavano una firma morale e politica inequivocabile.


Quell'assassinio, piaccia o non piaccia, ha aperto la strada della c.d. lotta armata, cioé dell'omicidio politico perché ha indicato come da parole generiche e astratte rivoluzionarie si potesse passare ad azioni concrete contro persone "emblematiche": se non sei in grado di uccidere lo Stato con la rivoluzione, almeno puoi far fuori gli uomini che stanno dalla sua parte, ne sono funzionari, lo servono.


E' questa la consapevolezza che è mancata in Sofri e in tanti della sua generazione, è questo il motivo per cui, ancora oggi, non sembra possibile chiudere con un gesto politico di amnistia la stagione delle stragi e del terrorismo.


Se però in qualche modo i silenzi e le omissioni di Sofri su questo punto sono comprensibili (eppure non giustificabili), quello che mi indigna è che, invece, nessuna riflessione critica vera, a parte quattro "ritrattazioni", è mai stata formulata dai tanti "intellettuali" che sottoscrissero l'appello e in realtà l'atto di accusa, l'imputazione, pubblicata da L'Espresso il 13 giugno 1971, cioé poco più di un anno prima dell'omicidio di Calabresi.


Certo molti del 757 firmatari non saranno più in questo mondo, altri saranno vecchissimi e avranno dimenticato, ma tanti ci sono ancora, a cominciare da Eugenio Scalfari, e in trentotto anni non hanno trovato tempo né voglia per dire: mi dispiace, forse allora sottoscrissi un documento che costituiva una sentenza politico-morale di condanna che, dato il clima e i tempi, era una condanna alla pena capitale, era un'assoluzione preventiva per quanti avessero fatto "giustizia di popolo".


E' questo ruolo oscuro e vischioso di molti intellettuali, che da colonne di giornali, cattedre universitarie, scranni parlamentari, inseguivano il pensiero comune, anziché cercare di formare coscienze democratiche, blandivano i movimenti e ne stimolavano progetti velleitari di rovesciamento violento dell'ordine politico e sociale, anziché indicare la strada del confronto democratico, che ha fatto anche da brodo di coltura del terrorismo e ha bruciato la peggio gioventù e anche qualche pezzo consistente della meglio gioventù.


Magari sono i cattivi maestri che poi si sono trovati una nicchia profumata e comoda nella società dell'informazione o che sono diventati direttamente e francamente aedi del berlusconismo: chierici allora e chierici oggi, all'insegna dell'eterno "Franza e Spagna purché se magna".


Come ci si può meravigliare se non si riesce a fare i conti e chiuderli con le vicende del 43-45, se in un contesto tragico ma di minor impatto storico, politico ed esistenziale, non si riesce a chiudere i conti con il periodo delle stragi e del terrorismo?


E così la memoria diventa un buco nero, tra generazioni che hanno vissuto e non riescono a dire "abbiamo sbagliato" e generazioni che non sanno e non vogliono conoscere.


E in questo buco nero che assorbe ogni luce di verità e coscienza, precipita anche la coscienza civile di un paese che inscena ogni giorno talk show e non veri dibattiti, dichiarazioni e parole d'ordine effimere, profluvi di parole che obsolescono da un giorno all'altro, perché tutte centrate sull'adesso e ora, una via l'altra.


Sullo sfondo rimangono due fotografie in bianco e nero, due uomini i cui destini si sono tragicamente intrecciati, due padri che non hanno potuto vedere crescere i figli, né abbracciare i nipoti.


A loro, tra i tanti, bisogna chiedere scusa, e non dimenticarli.


Onore a Luigi Calabresi e Pino Pinelli.

venerdì, maggio 08, 2009

L'ARMA FINALE: LA BOMBA DELLA LOLITA


I tedeschi negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale furono illusi che le sorti del conflitto, ormai irrimediabilmente segnate, potessero essere rovesciate con l'arma finale; ma in effetti nonostante gli scienziati nazisti si dilettassero con l'acqua pesante erano ancora ben lontani dalla atomica, cui invece erano vicinissimi gli americani, che nell'estate del 1945 ne fecero un uso "spettacolare" anche per mandare un avvertimento a Stalin.

La sinistra radical chic dei Santoro, Travaglio, De Gregorio (Concita), Vauro, La Repubblica e L'Espresso, e compagnia di giro cantante, si è convinta di aver trovato l'arma finale per abbattere Kaiser Silvio.

E quest'arma ha le sembianze, in f0ndo un po' banali e veline, di una ragazzotta di Casoria, figlia di un messo comunale, che risponde al nome gentile di Noemi, e che come molte ragazze più o meno belline della sua generazione (ma anche di quelle precedenti) vorrebbe arrivare al successo e ai soldi facili passando per le porte della TV, o almeno per quelle di Montecitorio (ma ovviamente solo come ripiego).

Perché, com'è noto, agli italiani tutto puoi chiedere e tutto possono tollerare, essendo campioni di vizi privati senza pubbliche virtù, meno che toccare "la famiglia" e i ccriature"; e quindi se insinui, suggerisci, arguisci, che uno che fa addirittura il presidente del consiglio dei ministri, ovvero il premier, attenta alle virtù della famiglia e sopratutto a quelle di una "minorenne", il risultato dovrebbe essere una deflagrazione distruttiva in senso figurato come l'atomica americana, con Silvio polverizzato quasi all'istante nel consenso popolare.

Il teorema Noemi è presto costruito: basta dire che il padre è un oscuro messo comunale (che ha avuto qualche guaio giudiziario di corruzione, anche se è stato assolto), che Silvione si precipita alla festa della ragazzotta e le regala un monile, che la criatura chiama Silvio "papi", che ha fatto un libro fotografico mandandolo in giro, ovviamente anche a Mediaset, che pare sia stata coi genitori ad Arcore e forse anche in Sardegna.

E se tutto questo non basta, rinforzare la bomba sporca con qualche condimento gossipparo, come la dichiarazione della Veronica che dicendo, a commento della illazione che la Noemi sia una figlia illegittima (pardon naturale ma non riconosciuta) di Silvio, "magari fosse sua figlia!" mette un suggello di dolente rassegnazione alla turpe idea della relazione tra l'anziano tycoon settantatreenne e la fresca fresca diciottenne, ovviamente con la ignobile complicità dei due genitori lenoni, a questo punto emuli dei Tenardier de "I Miserabili".

Perché poi la Veronica lascia intendere, anzi sostiene, che Silvione "non sta bene", cioé è malato, e che lei aveva implorato i suoi famigli e collaboratori di aiutarlo ma è rimasta inascoltata.

Ne nasce l'immagine di un anziano sessuomane, col chiodo fisso, che come tutti i dipendenti da qualcosa ha bisogno di dosi sempre più grandi di trasgressione, e non bastano più le trentenni, le venticinquenni, le ventenni, ma ci vogliono le diciottenni, già diciassettenni e prima ancora sedicenni o quindicenni.

Certo l'ideale sarebbe una bambina di otto o dieci anni, così l'immagine del pedofilo sarebbe piena, effettiva, autenticata; ma in mancanza d'altro basta essere comunque minori degli anni 18.

A me questa arma finale sembra come le V2 che bombardavano Londra: qualche palazzo poteva anche andar giù, ma di lì a polverizzare Westminster o Buchingam Palace, o il Ponte ce ne correva.

Così potrà crollare qualche pezzo di fondotinta cementizio dal volto del Cav., lasciando intravvedere le rughe e le borse sotto gli occhi, e i sondaggi flettere di due, tre, cinque punti.

Ma alla fine della fiera anche questa versione rosso-pecoreccia dell'antiberlusconismo potrebbe rischiare, paradossalmente, per rafforzarlo.

Perché Veronica che difende i figli distruggendo il loro padre nell'immagine, e manda lettere dolenti in giro per le agenzie di stampa e le redazioni dei giornali, non è la casalinga di Voghera che a fatica e caro prezzo (di spese legali) affronta la separazione sapendo che dovrà campare con un assegno di mantenimento di 400-600 euro; perché l'onesto meccanico di Abbiategrasso, che si compra a 50 euro l'amore mercenario delle lolite russe, ungheresi, rumene, baltiche, avrà forse un moto d'invidia, non di condanna per quello che lui stesso fa; perché le tante mamme tutt'inansia per le loro figliole, che ben vedrebbero sistemate anche come veline, figuriamoci come parlamentari, si ribelleranno all'idea di essere considerate anche loro delle venditrici delle filiali virtù.

E chissà che anzi il "popolino", tanto abborrito dalla sinistra radical chic, ma tanto concreto, reale e determinante, alla fin fine non solidarizzi pure con Silvio, pensando che la Veronica, ora raffinata e dolente, a suo tempo strappò il rampante e ricco imprenditore al talamo nunziale senza darsi troppo pena dei figli allora piccoli di primo letto, e che, in definitiva, come nel detto popolare, chi la fa l'aspetti.

A quel punto troverei giusto insignire Santoro, Travaglio, Vauro e la compagnia di giro della sinistra radical chic dell'Ordine di Silvio, giusta onorificenza di quattro guitti del giornalismo e della politica che tanto hanno fatto e meritato nel consolidamento del suo potere.




giovedì, aprile 30, 2009

IL VELO DELLA VERONICA




La Veronica, anziché accorrere soccorrevole a confortare Silvio e a nettargli il volto lordato dalla polvere dei ruderi aquilani, s'è lanciata in una breve e fiera invettiva contro la possibile eurocandidatura di "veline", definite "ciarpame" atto sostanzialmente a sollazzare l'Imperatore.


La scelta del sostantivo, che letteralmente vuol dire "insieme di cose vecchie e senza valore, ammucchiate alla rinfusa", e che è accrescitivo spregiativo di "ciarpa", s'adatta forse allo scarso valore delle "veline", che però propriamente vecchie non possono dirsi, essendo figliole max trentenni di buona fattura italica.


Epperò, questa silenziosa e schiva "first lady", che non frequenta i vertici dei capi di Stato e di governo dal lontano 2004, non si capisce davvero perché rompa il proverbiale e sbandierato riserbo proprio in questo momento e senza apparente provocazione; almeno, ai tempi della lettera su Repubblica, l'impunito Silvio s'era lasciato andare ad una dichiarazione d'amorosi sensi ipotetici verso la Carfagna (ti sposerei), che in quanto pubblica poteva giustificare una risposta pubblica.


Ma dappoiché Veronica accettò le pubbliche scuse dell'Augusto consorte, e nell'estate scorsa si lasciò con lui fotografare mano nella mano nella tenuta sarda, circondata dai suoi tre figli e dai figli di primo letto del Cav., suscita meraviglia ora questa improvvisa pubblica reprimenda, che segue non a dichiarazioni ma a pissi pissi bao bao sulle eurocandidature; e forse all'andata di Berlusconi alla festa privata di una diciottenne di Casoria che, pare, lo chiami "papi".


Che c'entri all0ra, come direbbe Casini, la guerra sotterranea per la suddivisione dell'immenso patrimonio di Silvio?


E sì, perché quell'insistito richiamo alla tutela dei propri figli pare alludere, più che alla salvaguardia della loro dignità offesa da questa diciottenne figlioccia adottiva, alla questione della divisione delle quote azionarie della Fininvest e delle varie aziende di famiglia tra i tre rampolli di secondo letto e i due di primo, essendo già Piersilvio e Marina saldamente insediati sul ponte di comando della portaerei; non meno che di tutte le infinite proprietà immobiliari e degli inimmaginabili conti e conticini, fondi e fondoni, titoli e titoloni.


Insomma, per ribadire che la divisione dei titoli (azionari, di proprietà, mobiliari) deve esser fatta senza far torto ai figli più piccoli, cosa c'è di meglio dei titoloni dei giornali, sopratutto quando, tra iniziative post-terremoto, G8 aquilano, 25 aprile onniano, la stella del Cav. brilla più fulgente che mai nei cieli italici?


Un po' di cautela, dunque, nel celebrare nella Veronica furiosa una memorabile riedizione della Filomena eduardiana; che quella, almeno, s'era guadagnata i propri diritti dopo vita di pubblica peccatrice e di privata concubina, sfacchinando e reggendo la casa; e questa sua improbabile riedizione, invece, fu tratta da teatri e teatrini di posa, e da pose fotografiche più o meno languide, e insignorata in sostituzione della prima moglie.


Cui, se permettete, andrebbe qualche simpatia in più, non foss'altro perché non ha accesso ai grandi quotidiani né ha ispirato smemorabilissimi libri latelliani.

domenica, aprile 26, 2009

Caos calmo: una rieducazione sentimentale ed esistenziale


Non è un capolavoro "Caos calmo. Almeno io non l'ho percepito come tale, vedendolo ieri in tardissima serata su Sky.

E' invece un capolavoro il modo in cui Nanni Moretti incarna il personaggio di Pietro Palladino, il protagonista, con quello straniamento e quella afasia sentimentale che è tipica di tanti suoi personaggi (i più riusciti) che però in questo film si apre piano piano alla visione degli altri, dei loro bisogni, delle loro incertezze, con uno sguardo finalmente comprensivo e compassionevole ai loro limiti, con il riconoscimento umile dei propri limiti.

Se un evento imprevisto, ma non imprevedibile, come la morte suicida di una moglie depressa e probabilmente trascurata, squarcia il catalogo della quotidianità, dolore e senso di colpa -dice il film- può farsi muta indifferenza apparente, anestetica separazione dagli altri, dal lavoro, dalle abitudini quotidiane.

L'attesa paziente dell'uscita da scuola di una figlia può rappresentare un tempo sospeso, il rifiuto del ritorno alla normalità che improvvisamente rivela la sua anormalità, e quindi l'alienazione nel lavoro, la fuga dalla responsabilità del padre che delega tutto alla madre, l'indifferenza per la moglie di cui non si coglie alcun segno premonitore di una depressione grave.

In questo tempo sospeso, però, la vita intorno fluisce e Pietro la scopre piano piano, nel sorriso di un bambino down che fa ridere azionando l'antifurto della macchina, di una ragazza che porta a spasso il suo cagnone, delle mamme che al bar si raccontano delle piccole malefatte dei bambini, dei colleghi di lavoro che con lui confrontano i propri fallimenti esistenziali e le incertezze di una operazione societaria di fusione con una società americana, di un fratello che mantiene intatta e lucida, nel suo ottimismo, una visione lineare e positiva della vita.

In questo tempo s'inserisce anche il rapporto sessuale con la quarantenne borghese inquieta e insoddisfatta, che Pietro ha salvato dall'annegamento, e che è l'amante del tycoon della società americana incorporante, come una inevitabile esplosione di una energia e di una passione repressa da troppi anni di quotidianità e normalità anormale, come il ricongiungimento carnale e perciò concreto alla vita vera, che fluisce piena nella forza femminile, di cui spesso le donne stesse sono inconsapevoli.

E' una rieducazione sentimentale ed esistenziale dal quale emerge un uomo nuovo, un padre tenero e affettuoso, un fratello comprensivo, una persona più intensa, che solo la bambina scioglie, con la sua semplicità, dal voto della presenza quotidiana davanti alla scuola, riavviandolo ad una nuova più vera normalità di vita.

Nanni Moretti sa incarnare tutto questo con naturalezza, senza sbavature e forzature, accompagnato da un cast di livello, con il bravissimo Alessandro Gassman, la efficace Valeria Golino, l'algida ma fremente Isabella Ferrari.

sabato, aprile 25, 2009

Se alle parole seguiranno i fatti

Il discorso di berlusconi a onna, che ho riportato nel precedente post, fornisce spunti di riflessione se non si vuole semplicemente ignorarlo o sommergerlo di fischi e lazzi in base all'idea che tutto quello che viene dal Cav. è aria fritta, chiacchiere, puro marketing di corto respiro, come nelle televendite di una batteria di pendole o di un servizio di piatti.
Intanto c'è un fatto nuovo, incontestabile: dopo anni di ostentata indifferenza e sostanziale ostilità verso la celebrazione del 25 aprile, berlusconi riconosce che da quella data non si può prescindere.
Certo, non manca qualche insopprimibile spunto polemico, ma appena velato, soffuso, come ad esempio nel passaggio in cui, accostando la Resistenza e il Risorgimento, e riconoscendone l'importanza come miti fondativi dell'identità nazionale, sostiene, contraddittoriamente, che una Repubblica e una democrazia moderna non deve aver bisogno di miti fondativi.
In realtà il concetto che berlusconi vuole esprimere è che occorre conservare il mito fondativo depurandolo da una retorica resistenziale che non ne accresce ma può offuscarne il valore unitario, e in questo si coglie l'eco delle polemiche suscitate dai libri di giampaolo pansa sulla scia di sangue che seguì le radiose giornate dell'aprile 1945, delle tante vendette, a volte solo private, che colpirono i vinti.
Un altro aspetto del discorso è l'idea di una ricomposizione della visione della Resistenza come guerra assieme di popolo e di militari, e questo lo ricollega alle rivendicazioni che per primo, e senza suscitare alcuno scandalo, ha fatto carlo azeglio ciampi sul valore e l'eroismo dei soldati, sottufficiali e ufficiali italiani che rifiutarono di consegnare le armi all'esercito tedesco, pagando o con l'eccidio (come a cefalonia) o con la deportazione nei campi di prigionia, o ancora aggregandosi e collaborando agli eserciti alleati e con le formazioni partigiane.
E' però inedito e importante il riconoscimento del contributo di tutti i partiti politici della Resistenza e poi della Repubblica allo sforzo della liberazione e della costruzione di un sistema democratico, a partire dalla Costituzione repubblicana, compreso il P.C.I. e compreso Palmiro Togliatti: mai da berlusconi erano state pronunciate parole di chiara legittimazione del contributo dei comunisti "storici" alla riconquista della libertà nazionale e alla costruzione della Repubblica.
Certo, l'uomo non riesce proprio a resistere dall'inserire nel ricordo collettivo la sua aneddotica familiare, ciò che pure può essere umanamente comprensibile ma che inserisce una nota stonata nel discorso: ma è un breve passaggio e non ne menerei scandalo assoluto.
La prospettiva "politica" nuova è però nell'indicazione dell'Anniversario della Liberazione come "Festa della Libertà", come momento cioé in cui si salda la sconfitta dell'invasore tedesco e del suo alleato fascista alla ricostruzione di una nuova democrazia, che seppe tenersi salda e seppe evitare di ricadere (anche e sopratutto, per le scelte di Yalta, e per la sofferta fedeltà togliattiana alle ragioni della svolta di Salerno) in una guerra civile e nella tentazione di una svolta rivoluzionaria che, se compiuta, l'avrebbe precipitata nel regime totalitario staliniano.
Può darsi che il Caimano non cambi mai pelle, può darsi che inizi a porsi il problema di un rapporto con la storia, è probabile sopratutto che si renda conto che le sue ambizioni presidenziali non possono realizzarsi in un contesto nel quale una larga minoranza gli nega ogni legittimazione democratica.
Quali che siano le ragioni di questa svolta berlusconiana, se le parole che ha pronunciato ieri saranno seguite dai fatti, da una vera apertura all'ascolto delle opposizioni politiche e sociali, da una dimostrata capacità di andar oltre i suoi antichi vizi (non sono affatto ottimista, al riguardo, lo dico subito), potrebbe darsi che a settantaquattro anni berlusconi avvii un rinnovamento del berlusconismo e dia una prospettiva a una formazione politica nata e vissuta come partito-azienda ma ora inevitabilmente diversa con la confluenza di an, di partito conservatore moderno, sullo stampo dell'Old grand party americano, e che per converso si avvii il confronto con un pd che incarni davvero, con tutte le differenze, il modello di un partito progressista che anche oltre il nome assomigli al partito democratico statunitense.
Lo scopriremo solo vivendo.

La liberazione nell'ottica di Berlusconi

Leggete, prima di sommergerlo di contumelie, il testo del discorso di Berlusconi a Onna; e ragioniamo su quello che può significare


Il discorso integrale di Berlusconi a Onna

Cari amici,non è semplice trovare le parole per descrivere il mio, il nostro stato d'animo in questo momento. Ci troviamo qui ad Onna per celebrare la Festa della Liberazione, una festa che è insieme, un onore ed un impegno. Un onore: di commemorare una terribile strage perpetrata proprio qui nel giugno del 1944 quando, i nazisti massacrarono per rappresaglia 17 cittadini di Onna, e poi fecero saltare con l'esplosivo la casa nella quale si trovavano i corpi di quelle vittime innocenti. Un impegno: che ci deve animare è quello di non dimenticare ciò che è accaduto qui e di ricordare gli orrori dei totalitarismi e della soppressione della "libertà". Proprio qui, proprio in Abruzzo, è nata ed ha operato la leggendaria Brigata Maiella, che è stata decorata con la Medaglia d'Oro al Valor Militare. Nel dicembre del ’43, 15 giovani fondarono quella che sarebbe diventata appunto la Brigata Maiella che arrivò ad essere forte di 1.500 uomini. E non casuale che in questa giornata speciale, i militari del Picchetto d'Onore schierati davanti a noi appartengano al 33.mo Reggimento di artiglieria, il reparto degli abruzzesi che nel 1943 a Cefalonia ebbe il coraggio di opporsi ai nazisti e di sacrificarsi - combattendo - per l'onore del nostro Paese. A quei patrioti che si sono battuti per il riscatto e la rinascita dell'Italia va, deve andare sempre la nostra ammirazione, la nostra gratitudine, la nostra riconoscenza. La gran parte degli italiani di oggi, non ha provato cosa significa la privazione della libertà. Solo i più anziani hanno un ricordo diretto del totalitarismo, dell’occupazione straniera, della guerra per la liberazione della nostra Patria.
Per molti di noi è un ricordo legato alle nostre famiglie, ai nostri genitori, ai nostri nonni, molti dei quali furono protagonisti o anche vittime di quei giorni drammatici. Per me è il ricordo di anni di lontananza da mio padre, costretto ad espatriare per non essere arrestato, è il ricordo dei sacrifici di mia madre, che da sola dovette mantenere una famiglia numerosa in quegli anni difficili. E’ il ricordo del suo coraggio, di lei che come tanti altri da un paesino della provincia di Como doveva recarsi ogni giorno in treno a Milano per lavorare, e che un giorno, su uno di quei treni, rischiò la vita, ma riuscì a sottrarre a un soldato nazista una donna ebrea destinata ai campi di sterminio. Questi sono i ricordi, sono gli esempi con i quali siamo cresciuti. Quelli di una generazione di italiani che non esitò a scegliere la libertà. Anche a rischio della propria sicurezza, anche a rischio della propria vita. Il nostro Paese ha un debito inestinguibile verso quei tanti giovani che sacrificarono la vita, negli anni più belli, per riscattare l’onore della patria, per fedeltà a un giuramento, ma soprattutto per quel grande, splendido, indispensabile valore che è la libertà. Lo stesso debito di gratitudine lo abbiamo verso tutti quegli altri ragazzi, americani, inglesi, francesi, polacchi, dei tanti paesi alleati, che versarono il loro sangue nella campagna d’Italia. Senza di loro, il sacrificio dei nostri partigiani avrebbe rischiato di essere vano. E con rispetto dobbiamo ricordare oggi tutti i caduti, anche quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata sacrificando in buona fede la propria vita ai propri ideali e ad una causa già perduta. Questo non significa naturalmente neutralità o indifferenza. Noi siamo - tutti gli italiani liberi lo sono - dalla parte di chi ha combattuto per la nostra libertà, per la nostra dignità e per l’onore della nostra Patria.
In questi anni la storia della Resistenza è stata approfondita e discussa. E’ un bene che sia successo. La Resistenza è - con il Risorgimento - uno dei valori fondanti della nostra nazione, un ritorno alla tradizione di libertà. E la libertà è un diritto che viene prima delle leggi e dello Stato, perché è un diritto naturale che ci appartiene in quanto esseri umani. Una nazione libera tuttavia non ha bisogno di miti. Come per il Risorgimento, occorre ricordare anche le pagine oscure della guerra civile, anche quelle nelle quali chi combatteva dalla parte giusta ha commesso degli errori, si è assunto delle colpe. È un esercizio di verità, è un esercizio di onestà, un esercizio che rende ancora più gloriosa la storia di coloro che invece hanno combattuto dalla parte giusta con abnegazione e con coraggio. È la storia dei tanti che hanno combattuto nell’esercito del Sud, che da Cefalonia in poi hanno riscattato con il sangue l’onore della divisa. È la storia dei martiri come Salvo D’Acquisto che non esitò a sacrificare la sua vita in cambio di altre vite innocenti. È la storia dei nostri militari internati in Germania, che scelsero il campo di concentramento piuttosto che collaborare con i nazisti. È la storia dei tanti che nascosero concittadini ebrei ricercati, salvandoli dalla deportazione. È la storia soprattutto dei tanti, tantissimi eroi sconosciuti che con piccoli o grandi gesti di coraggio quotidiano collaborarono alla causa della libertà.
Anche la Chiesa, voglio ricordarlo, fece la sua parte con vero coraggio, per evitare che concetti odiosi, come la razza o la differenza di religione, diventassero per molti motivo di persecuzione e di morte. Allo stesso modo bisogna ricordare i giovani ebrei della Brigata ebraica, arrivati dai ghetti di tutta Europa, che imbracciarono le armi e lottarono per la libertà. In quel momento tanti italiani di fedi diverse, di diverse culture, di diverse estrazioni si unirono per seguire lo stesso grande sogno, quello della libertà. Vi erano fra loro persone e gruppi molto diversi. Vi era chi pensava soltanto alla libertà, chi sognava di instaurare un ordine sociale e politico diverso, chi si considerava legato da un giuramento di fedeltà alla monarchia.
Ma tutti seppero accantonare le differenze, anche le più profonde, per combattere insieme. I comunisti e i cattolici, i socialisti e i liberali, gli azionisti e i monarchici, di fronte a un dramma comune, scrissero, ciascuno per la loro parte, una grande pagina della nostra storia. Una pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, sulla quale si fonda la nostra libertà. Fu nella stesura della Costituzione che la saggezza dei leader politici di allora, De Gasperi e Togliatti, Ruini e Terracini, Nenni, Pacciardi e Parri, riuscì ad incanalare verso un unico obiettivo le profonde divaricazioni di partenza. Benché frutto evidente di compromessi, la Costituzione repubblicana riuscì a conseguire due obiettivi nobili e fondamentali: garantire la libertà e creare le condizioni per uno sviluppo democratico del Paese. Non fu poco. Anzi, fu il miglior compromesso allora possibile. Fu però mancato l’obiettivo di creare una coscienza morale “comune” della nazione, un obiettivo forse prematuro per quei tempi, tanto che il valore prevalente fu per tutti l’antifascismo, ma non per tutti l’antitotalitarismo. Fu il portato della storia, un compromesso utile a scongiurare che la Guerra fredda che divideva verticalmente l'Italia non sfociasse in una guerra civile dagli esiti imprevedibili. Ma l'assunzione di responsabilità e il senso dello Stato che animarono tutti i leader politici di allora restano una grande lezione che sarebbe imperdonabile dimenticare. Oggi, 64 anni dopo il 25 aprile 1945 e a vent'anni dalla caduta del Muro di Berlino, il nostro compito, il compito di tutti, è quello di costruire finalmente un sentimento nazionale unitario.
Dobbiamo farlo tutti insieme, tutti insieme, quale che sia l’appartenenza politica, tutti insieme, per un nuovo inizio della nostra democrazia repubblicana, dove tutte le parti politiche si riconoscano nel valore più grande, la libertà, e nel suo nome si confrontino per il bene e nell’interesse di tutti. L'anniversario della riconquista della libertà è dunque l'occasione per riflettere sul passato, ma anche per riflettere sul presente e sull'avvenire dell’Italia. Se da oggi riusciremo a farlo insieme, avremo reso un grande servizio non a una parte politica o all'altra, ma al popolo italiano e, soprattutto, ai nostri figli che hanno il diritto di vivere in una democrazia finalmente pacificata. Noi abbiamo sempre respinto la tesi che il nostro avversario fosse il nostro nemico. Ce lo imponeva e ce lo impone la nostra religione della libertà. Con lo stesso spirito sono convinto che siano maturi i tempi perché la festa della Liberazione possa diventare la festa della Libertà, e possa togliere a questa ricorrenza il carattere di contrapposizione che la cultura rivoluzionaria le ha dato e che ancora “divide” piuttosto che “unire”. Lo dico con grande serenità, senza alcuna intenzione polemica. Il 25 aprile fu all’origine di una nuova stagione di democrazia e in democrazia il voto del popolo merita l’assoluto rispetto da parte di tutti. Il popolo, dopo il 25 aprile, votò pacificamente per la Repubblica, e la monarchia accettò il giudizio popolare. Poco dopo, il 18 aprile 1948, la scelta popolare fu di nuovo decisiva per il nostro Paese: con la vittoria di De Gasperi, il popolo italiano si riconobbe nella tradizione cristiana e liberale della sua storia. E gli anni Cinquanta, sempre con il sostegno del voto popolare, modellarono un’Italia come realtà democratica, economica e sociale. L’Italia divenne parte dell’Europa e dell’Occidente, fu tra i promotori dell’unità atlantica e dell’unità europea, diventò da Paese reietto un Paese rispettato.
Oggi i nostri giovani hanno davanti a loro altre sfide: difendere la libertà conquistata dai loro padri e ampliarla sempre di più, consapevoli come sono che senza libertà non vi può essere né pace, né giustizia, né benessere. Alcune di queste sfide sono planetarie e ci vedono impegnati a fianco dei Paesi liberi: la lotta contro il terrorismo, la lotta contro l’integralismo fanatico e liberticida, la lotta contro il razzismo, perché la libertà, la dignità e la pace sono un diritto di ogni essere umano, “ovunque” nel mondo. Ecco perché voglio qui ricordare i soldati italiani impegnati nelle missioni di pace all’estero, e in particolare tutti quelli che sono caduti nell’espletare questa nobile missione. C’è una continuità ideale fra loro e tutti gli eroi, italiani e alleati, che sacrificarono la loro vita più di 60 anni fa per ridarci la libertà nella sicurezza e nella pace.
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Oggi quell’insegnamento dei nostri padri assume un valore particolare: questo 25 aprile cade all’indomani della grande tragedia che ha colpito questa terra d’Abruzzo. Ancora una volta, di fronte all’emergenza e alla tragedia, gli italiani hanno saputo unirsi, hanno saputo superare le divergenze, sono riusciti a dimostrare di essere un grande popolo coeso nella generosità, nella solidarietà e nel coraggio. Guardando ai tanti italiani che si sono impegnati qui nell’opera di soccorso e di ricostruzione mi sento orgoglioso, ancora una volta, ancora di più, di essere italiano e di guidare questo meraviglioso Paese. Oggi Onna è per noi il simbolo della nostra Italia. Il terremoto che l’ha distrutta ci ricorda i giorni in cui fu l’invasore a distruggerla. Riedificarla vorrà dire ripetere il gesto della sua rinascita dopo la violenza nazista. Ed è proprio nei confronti degli eroi di allora e di oggi che noi tutti abbiamo una grande responsabilità: quella di mettere da parte ogni polemica, di guardare all’interesse della nazione, di tutelare il grande patrimonio di libertà che abbiamo ereditato dai nostri padri. Abbiamo, tutti insieme, la responsabilità e il dovere di costruire per tutti un futuro di prosperità, di sicurezza, di pace, e di libertà. Viva l’Italia! Viva la Repubblica! Viva il 25 aprile, la festa di tutti gli italiani, che amano la libertà e vogliono restare liberi! Viva il 25 aprile la festa della riconquistata libertà!

IL PETROLIERE: SUDORE DELL'UOMO E DELLA TERRA




Ho visto ieri su Sky "Il Petroliere" e capisco perché non abbia avuto un gran successo commerciale.


E' una storia dura, raccontata senza sconti idealistici o romantici al mito della frontiera e del capitalismo portatore di progresso e prosperità, tra lande pietrose popolate di capre e erba selvatica, dove si mischia roccia, terra, petrolio, sudore, sangue, nelle quali Dio è assente o indifferente e si lascia rappresentare da improbabili ciarlatani profeti di una terza rivelazione.


Una storia troppo vera e cruda per poter piacere al grande pubblico, che anche in un film epico come questo cerca e spera in un riscatto finale, in una conversione al bene, in un rassicurante pentimento, in una carezza alle incertezze della propria anima.


Già il lungo prologo, in cui il protagonista si sfianca di fatica per cercare una vena d'argento, del tutto privo di rumori che non siano gemiti strozzati di fatica e dolore, picconate sulla pietra che sprizzano scintille, è difficilissimo da digerire per palati abituati a overture più ariose.


L'intero sviluppo del film poi è un costante cazzotto alla bocca dello stomaco: il duro lavoro dell'implacato cercatore di petrolio, la fatica sovrumana degli operai che in fondo al pozzo riempiono secchi e secchi, sversati in uno stagno maleodorante, magari lasciandoci la vita per una trave malfissata o troppo debole, la corsa all'accaparramento delle terre, con la sotterranea guerra tra cercatori indipendenti e grandi compagnie come la Standard e la Union Oil, i sermoni furbastri rivolti ai contadini facendogli balenare il sogno di guadagni tali da cambiare la vita di una intera comunità, come tante esche tese a un branco di pesci affamati, l'accordo con il predicatore ciarlatano che approfitta della superstizione e ignoranza dei suoi paesani per governare assieme, tra false guarigioni miracolose e false promesse di benessere e prosperità di un'intera comunità, le magre e desolate esistenze.


Un frammento potentissimo e fisico dell'epopea del capitalismo americano moderno che sa scendere però nel pozzo più profondo e scuro dell'animo del protagonista Daniel Plainview, al quale inspiegati traumi familiari ed esistenziali hanno strappato ogni sentimento di pietà, ogni capacità di comprensione e condivisione umana, generando un impasto ambiguo di crudeltà e tenerezza verso il bambino orfano di un suo compagno di lavoro, che spaccia per figlio proprio perché gli da quell'aria di rispettabilità e di affidabilità che il suo viso da lupo non ha; e che gli armano la mano furiosa contro l'impostore che si spaccia per suo fratello e alla fine contro il predicatore impostore che uccide a colpi di birillo da bowling in un delirio alcolico distruttivo e autodistruttivo, forse perché nell'imbonitore riconosce come in uno specchio il riflesso della propria immagine, della propria furbizia, della propria assenza di scrupoli, delle menzogne, di una vita intera votata al denaro e sopratutto alla voglia di strapparlo agli altri, ai gonzi, alla gente senza qualità, senza sogni, senza idee.


Un grande film, un grande regista (Peterson) allievo di Robert Altman, un immenso Daniel Dai Lewis, un cast all'altezza, una fotografia straordinaria, una colonna sonora implacabile e potente.

venerdì, aprile 24, 2009

BERLUSCONI NON E' UN PIRLA

Il "popolo" della sinistra ricopre di insulti e sberleffi Berlusconi a ogni sua uscita e dichiarazione.
Il gioco del Cav. è chiaro: rimanere sempre e comunque, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, al centro della scena politico-mediatica nazionale, e stare il più possibile su quella internazionale.
Ed è un gioco che gli riesce benissimo, grazie anche alla dabbenaggine di chi ne rilancia con insoffocata indignazione ogni battuta e inferocisce a ogni sua pretesa gaffe.
Epperò.
Le ultime due "uscite" di Berlusconi sono politicamente geniali, e solo se non si ha un minimo di lucida obiettività (l'odio ottunge l'intelligenza) si può reagire come si vede da molti blog e da facebook, con furibonde bordate di fischi e lazzi.
Berlusconi dunque dopo anni d'indifferenza celebra il 25 aprile e lo fa non nelle piazze e strade romane, milanesi, bolognesi, torinesi, nei cortei pieni di gagliardetti dell'ANPI e bandiere più o meno rosse, rosee, rosa pallido, con qualche tricolore; ma precisamente ad Onna, paese simbolo del terremoto abruzzese, cittadina che scontò un "piccolo" eccidio di civili ad opera di un reparto nazista, in uno dei tanti episodi "minori" rispetto ai grandi eccidi di Marzabotto, Sant'Anna di Stazzena, le Fosse Ardeatine.
Sarà lì, tra le tende apprestate per i poveri superstiti del sisma, tra quel popolo minuto che qualche tempo fa, su FB, forse senza nemmeno intenzione malevola, anzi sono sicuro senza nessuna intenzione malevola (e questo forse è peggio) ho sentito chiamare "popolino"; quel popolino così sensibile e così facilmente suggestionabile a gesti di prossimità e attenzione, pronto a commuoversi alle storie di "Pronto Raffaella", che vede le serie televisive su carabinieri, poliziotti, guardia di finanza, guardia costiere, forestale..., che magari riesce a divertirsi con le battute della compagnia del Bagaglino, che segue ogni sabato "La Corrida" dai tempi di Corrado e ora con il suo erede Gerry Scotti, che si appassiona a "Verissimo"...
Quasi nelle stesse ore Berlusconi, spiazzando tutti, persino i suoi ministri, decide che il vertice del G8 si farà proprio in Abruzzo e non in una blindatissima località sarda, ottenendo un triplice obiettivo: richiamare ancor più l'attenzione dei media internazionali sull'evento, portando i "Grandi" della Terra tra gli umili e semplici in una regione martoriata dal terremoto e additando a essi le qualità di fierezza, orgoglio, coraggio, tenacia degli abruzzesi, e per traslato degli italiani; risparmiare un bel gruzzolo di milioni e milioni di euro, quanti ne erano necessari per apprestare il vertice sardo, che potranno confluire nei fondi per la ricostruzione; azzerare il rischio di manifestazioni e proteste NO GLOBAL perché anche il più scalmanato di essi (a parte la difficoltà di arrivare in Abruzzo e di muoversi tra macerie e tendopoli) non potrà pensare di turbare un vertice che avvicina i potenti della terra agli ultimi e miseri o pensare di aggiungere ai tanti travagli della popolazione abbruzzese anche il casino di cortei, tute bianche, tute nere, cassonetti incendiati.
Certo, vi è demagogia, populismo, leaderismo carismatico in tutte queste scelte.
Ma sono scelte che il "popolino" sente e condivide e che cementano un sentimento di maggiore vicinanza di Berlusconi ai suoi sentimenti e ai suoi umori, e che si ispirano a una concretezza del fare che in una nazione intossicata di parole, analisi, misure in cui, parole logore come "grande sfida", "grande occasione", "risposte adeguate alla complessità dei problemi", o slogan ormai pressocché dimenticati e miseramente falliti come "I Care", "Si può fare"(brutta e patetica traduzione letterale del "Yes, We can" obamiano), per non dire dei patetici "Io C'entro" casiniani.
Il mondo reale non è la piazza virtuale dei blog e di facebook dove ritrovarsi e rassicurarsi vicendevolmente come vecchi amici di una fotografia o di una comitiva dispersi nelle mille strade dei percorsi individuali, familiari e sociali sull'identità, il nocciolo duro, il siamo sempre gli stessi, l'orgoglio dei vecchi simboli politici.
E' fuori, tra le macerie, nei mille paesi dell'appennino, tra le case del "popolino" di cui noi borghesi professionisti o burocrati, intellettuali, frequentatori di blog e facebook non abbiamo forse nemmeno una vera idea, troppo impegnati ad autocelebrarci come elite intellettuale e morale di questa nazione, tra un incontro in libreria per la presentazione dell'ultimo libro di grido o di semplice moda e un caffé para-letterario.
Trenta, quaranta anni fa la sinistra era di popolo, nel popolo, per il popolo; oggi è nei salotti, nelle librerie, negli assessorati, nelle cene sociali.
Meditate gente, meditate