Forse dovrei riprendere a leggere Osho, ma ho la sensazione che Pavese, nel suo pessimismo, colga meglio l'essenza delle cose, o almeno il sentimento umano delle cose. Si ha un bel dire che bisogna donare, dare, dare, dare, ma il rischio è di svuotarsi, senza potere ricaricarsi in alcun modo. E poi, siamo pratici: se a chi dai non importa nulla, o non vuole ricevere niente, è acqua che si disperde vana. E' umano cercare di contare nella vita degli altri, è questo che da il senso di ciascuna vita, io credo. Importa poi tanto contare solo nella propria vita? Si può accettare un solipsismo più o meno sereno e appagante? Può un solipsismo essere appagante? Anche gli egoisti hanno bisogno degli altri, più degli altruisti. La prospettiva cristiana ha un senso in quanto c'é Chi accetta il tuo amore e lo ricambia, ed è straordinaria perché Colui che E' accetta l'amore di tutti, perché tutti sono suoi figli, sue creature fatti figli nella fratellanza di Cristo. Ma solo Dio che è amore infinito può accettare di amare senza attendere nulla in cambio. Eppure persino Lui vuole essere riamato dai suoi figli, per libera scelta d'amore (il libero arbitrio è proprio questo, libera scelta, e distingue il Dio-Padre e Madre cristiano dal Dio-Padrone ebraico e musulmano).
Bisognerebbe allora fondare la propria vita anzitutto sull'amore per Dio? Si, sarebbe cosa buona, giusta e saggia. Ma non facile, perché la fede è sì ricerca, ma soprattutto Grazia, e non sempre la si possiede, e non la si possiede continuativamente e per sempre. E poi, come direbbe Pascal, è una scommessa: testa o croce, quale sarà il lato giusto della moneta? Se Dio esiste, e non è una costruzione mitologica per vincere l'angoscia della morte, la scommessa è vincente; se Dio non esiste, la scommessa è perdente, può aiutare a vivere ma può essere una tragica illusione, che nasconde la cruda realtà di un mondo di uomini e donne infelici, animati più da istinti che da sentimenti, inclini a nascondere piccole astuzie di vita quotidiana con grandi e falsi ideali.
La cosa migliore allora potrebbe essere guardare la realtà come è, non come la vorremmo.
E se quella realtà è brutta, insopportabile, meschina, misera, al fondo squallida?
Siamo proprio pessimisti, stamattina, non c'é che dire.
mercoledì, marzo 29, 2006
Tra cambiamenti climatici e bufere elettorali
Nel linguaggio politico giornalistico è invalso l'uso di espressioni del tipo "Bufera su...", "Ciclone su...", "Uragano di...", volta a volta riferiti a esternazioni più o meno incaute di questo o quell'esponente politico, inchieste giudiziarie su ambienti finanziari con risvolti su circoli più o meno istituzionali e politici, e via discorrendo.
Forse questa sensibilità "climatologica" nasce proprio da un'angoscia nemmeno troppo sottile e velata per i cambiamenti climatici in atto.
Che non ci siano più le mezze stagioni, che i confini tra le stagioni siano vaghi, che in un contesto stagionale convivano fenomeni più o meno estremi e contraddittori, è esperienza quotidiana.
Abbiamo avuto un inverno molto rigido, freddo, nevoso, avremo probabilmente la "solita" estate calda e umida.
Il successo di film come "The day after tomorrow" nasce dall'esigenza di esorcizzare, attraverso una fantasy terrificante e nella sua troppo rapida concatenazione di eventi poco credibile, e quindi in qualche modo rassicurante, quell'angoscia d'insicurezza che prende alla gola rispetto a fenomeni che sappiamo di non poter controllare.
Forse un severo e serio impegno sui Protocolli di Kyoto, un'inversione reale di tendenza sull'emissione di gas serra in atmosfera, l'uso intelligente e parsimonioso delle risorse naturali, prime tra tutte l'acqua (il controllo delle fonti idriche nel futuro sarà strategico come e più del controllo delle fonti di energia), la costruzione di fonti di energia alternative rispetto alla monocultura petrolifera, potrebbero modulare almeno i tempi dei cambiamenti climatici, se non fermarli prima che sia troppo tardi.
Uno studio pubblicato credo su Science e basato su osservazioni relative al decennio 1985-1995 delinea scenari inquietanti, proprio da Day after tomorrow, con l'interruzione della corrente del Golfo nel suo flusso verso nord, la desalinizzazione delle acque marine per effetto dello scioglimento dei ghiacci del pack artico e della Groenlandia, e una glaciazione a venire dell'emisfero settentrionale.
Dietro i fastidi e le insofferenze per i rigidi inverni e le torride estati (e in questo paese siamo ancora fortunati perché non conosciamo la forza distruttiva di uragani come Katrina, di inondazioni come nei paesi asiatici, di siccità devastanti come quelle che fanno avanzare il deserto nell'Africa subsahariana), con il bollettino di morti di freddo e di caldo che colpiscono i più deboli (bambini e anziani), si cela la percezione dell'accresciuta precarietà delle condizioni basilari dell'esistenza.
Fa un po' ridere, dinanzi alla dimensione di questi problemi, la "bufera" elettorale che imperversa in questa primavera, il clima da scontro finale tipo Alien-Berlusconi vs. Predator-Prodi (o Prodator?), la delineazione di un 11 aprile come un day after tomorrow di macerie, lacrime e sangue per i vinti.
I "fenomeni estremi" della politica italiana sono soltanto il segno della sua povertà di idee, cultura e civiltà. Come meravigliarsi del declino italiano se questa è la classe politica che dovrebbe tracciare la rotta? La crisi italiana nasce dalla insufficienza della sua classe dirigente, nel senso più largo del termine, dagli imprenditori, agli intellettuali, ai burocrati, ai ceti professionali, agli stessi servitori dello Stato (compresi i magistrati, e se lo dice un magistrato gli si può credere).
Forse questa sensibilità "climatologica" nasce proprio da un'angoscia nemmeno troppo sottile e velata per i cambiamenti climatici in atto.
Che non ci siano più le mezze stagioni, che i confini tra le stagioni siano vaghi, che in un contesto stagionale convivano fenomeni più o meno estremi e contraddittori, è esperienza quotidiana.
Abbiamo avuto un inverno molto rigido, freddo, nevoso, avremo probabilmente la "solita" estate calda e umida.
Il successo di film come "The day after tomorrow" nasce dall'esigenza di esorcizzare, attraverso una fantasy terrificante e nella sua troppo rapida concatenazione di eventi poco credibile, e quindi in qualche modo rassicurante, quell'angoscia d'insicurezza che prende alla gola rispetto a fenomeni che sappiamo di non poter controllare.
Forse un severo e serio impegno sui Protocolli di Kyoto, un'inversione reale di tendenza sull'emissione di gas serra in atmosfera, l'uso intelligente e parsimonioso delle risorse naturali, prime tra tutte l'acqua (il controllo delle fonti idriche nel futuro sarà strategico come e più del controllo delle fonti di energia), la costruzione di fonti di energia alternative rispetto alla monocultura petrolifera, potrebbero modulare almeno i tempi dei cambiamenti climatici, se non fermarli prima che sia troppo tardi.
Uno studio pubblicato credo su Science e basato su osservazioni relative al decennio 1985-1995 delinea scenari inquietanti, proprio da Day after tomorrow, con l'interruzione della corrente del Golfo nel suo flusso verso nord, la desalinizzazione delle acque marine per effetto dello scioglimento dei ghiacci del pack artico e della Groenlandia, e una glaciazione a venire dell'emisfero settentrionale.
Dietro i fastidi e le insofferenze per i rigidi inverni e le torride estati (e in questo paese siamo ancora fortunati perché non conosciamo la forza distruttiva di uragani come Katrina, di inondazioni come nei paesi asiatici, di siccità devastanti come quelle che fanno avanzare il deserto nell'Africa subsahariana), con il bollettino di morti di freddo e di caldo che colpiscono i più deboli (bambini e anziani), si cela la percezione dell'accresciuta precarietà delle condizioni basilari dell'esistenza.
Fa un po' ridere, dinanzi alla dimensione di questi problemi, la "bufera" elettorale che imperversa in questa primavera, il clima da scontro finale tipo Alien-Berlusconi vs. Predator-Prodi (o Prodator?), la delineazione di un 11 aprile come un day after tomorrow di macerie, lacrime e sangue per i vinti.
I "fenomeni estremi" della politica italiana sono soltanto il segno della sua povertà di idee, cultura e civiltà. Come meravigliarsi del declino italiano se questa è la classe politica che dovrebbe tracciare la rotta? La crisi italiana nasce dalla insufficienza della sua classe dirigente, nel senso più largo del termine, dagli imprenditori, agli intellettuali, ai burocrati, ai ceti professionali, agli stessi servitori dello Stato (compresi i magistrati, e se lo dice un magistrato gli si può credere).
domenica, marzo 26, 2006
Canticchiando vecchie canzoni d'amore
Ho una mamma ottantenne, piccina piccina, tenera come un uccellino, che quando accompagno in dialisi cerco di far sorridere e distrarre ricordando assieme le cose della sua giovinezza, qualche battuta di Totò, di Peppone e Don Camillo, i saggi ginnici della sua infanzia nell'Italietta fascista degli anni '30-40, e naturalmente le tante canzoni di quella stagione, su su fino agli anni '50 e ai primi anni '60.
Conosco quelle canzoni perché da bambino e poi da adolescente lei le canticchiava con una vocina sottile e dolce, a volte a due voci con la sorella, mia zia, mancata quasi tre anni fa.
Erano le canzoni della radio, dell'EIAR e della prima RAI, e infatti a casa di mia nonna materna troneggiava un bellissimo mobile radio-grammofono dove mia madre e le sue sorelle ascoltavano canzoni, notiziari, commedie, e tutto quanto è stata la colonna sonora della loro infanzia, adolescenza e prima giovinezza.
Sere fa mi sono fermato ad un negozio di dischi e le ho comprato un cofanetto di cd con quelle vecchie canzoni.
Stamattina, poi, accompagnandola alla dialisi supplementare domenicale (e sì, nostro Signore la domenica riposò, ma non avevano ancora inventato gli apparecchi per la dialisi...), le ho fatto ascoltare parecchie di quelle canzoni, canticchiandole io con lei.
La giornata è stata decisamente primaverile, un cielo azzurro e profondo, un vento teso, fresco e leggero, e dai finestrini aperti della mia auto si spandevano tutt'intorno quelle voci in falsetto dei vecchi cantanti, quelle musiche così diverse.
Due canzoni, in particolare, mi piacciono tra le tante di quella raccolta.
Sono canzoni che avranno settant'anni o giù di lì, scritte in rime baciate come si usava allora, parlano di un mondo che forse non c'é più, o forse c'è ancora e siamo noi ciechi a non vederlo, di sentimenti delicati e assoluti, di amori veri e profondi, di donne con le calze col righino dietro e gli occhioni sognanti, di città con poche vecchie Balilla e Topolino, molte biciclette, tram sferraglianti, di giovanotti col costume buono e il cappello a falda, di un tempo d'illusioni prima della guerra e di speranze tra le macerie e verso la ricostruzione.
Ve le propongo, confratelli romantici, nei loro testi, chissà che qualcuno di voi non ne trovi traccia nella grande rete, se le scarichi e magari condivida la mia idea che quelle vecchie canzoni d'amore hanno ancora qualcosa da dire e emozioni da dare.
Parlami d’amore Mariù
Come sei bella, più bella stasera, Mariu ! S
plende un sorriso di stella negli occhi tuoi blu!
Anche se avverso il destino domani avverso sarà
Oggi ti sono vicino, perchè sospirar?
Non pensar!
Parlami d'amore, Mariù !
Tutta la mia vita sei tu!
Gli occhi tuoi bellibrillano,
Fiamme di sogno scintillano!
Dimmi che illusione non è,
Dimmi che sei tutta per me!
Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore, Mariù !
Gli occhi tuoi belli brillano
Fiamme di sogno scintillano!
Dimmi che illusione non è,
Dimmi che sei tutta per me!
Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore, Mariù !
Tu che m´hai preso il cor
Tu che m'hai preso il cor
sarai per me il solo amor
no, non ti scorderò
vivrò per te
ti sognerò
Te o nessuno o mai più
ormai per me come il sole sei tu
lontan da te è morir d'amor
perché sei tu che mi hai rubato il cuor
Ti vedo tra le rose
ti dico tante cose
se il vento lieve t'accarezza
un profumar di giovinezza mi fai tremar
La notte sogno tremando di te
quale incantesimo il mio cuor sul tuo cuor
mentre si schiudono le pupille tue d'or
Tu che mi hai preso il cuor
sarai per me il solo amor
no, non ti scorderò
vivrò per te
ti sognerò
Te o nessuna o mai più
ormai per me come il sole sei tu
lontan da te è morir d'amor
perché sei tu che mi hai rubato il cuor
Conosco quelle canzoni perché da bambino e poi da adolescente lei le canticchiava con una vocina sottile e dolce, a volte a due voci con la sorella, mia zia, mancata quasi tre anni fa.
Erano le canzoni della radio, dell'EIAR e della prima RAI, e infatti a casa di mia nonna materna troneggiava un bellissimo mobile radio-grammofono dove mia madre e le sue sorelle ascoltavano canzoni, notiziari, commedie, e tutto quanto è stata la colonna sonora della loro infanzia, adolescenza e prima giovinezza.
Sere fa mi sono fermato ad un negozio di dischi e le ho comprato un cofanetto di cd con quelle vecchie canzoni.
Stamattina, poi, accompagnandola alla dialisi supplementare domenicale (e sì, nostro Signore la domenica riposò, ma non avevano ancora inventato gli apparecchi per la dialisi...), le ho fatto ascoltare parecchie di quelle canzoni, canticchiandole io con lei.
La giornata è stata decisamente primaverile, un cielo azzurro e profondo, un vento teso, fresco e leggero, e dai finestrini aperti della mia auto si spandevano tutt'intorno quelle voci in falsetto dei vecchi cantanti, quelle musiche così diverse.
Due canzoni, in particolare, mi piacciono tra le tante di quella raccolta.
Sono canzoni che avranno settant'anni o giù di lì, scritte in rime baciate come si usava allora, parlano di un mondo che forse non c'é più, o forse c'è ancora e siamo noi ciechi a non vederlo, di sentimenti delicati e assoluti, di amori veri e profondi, di donne con le calze col righino dietro e gli occhioni sognanti, di città con poche vecchie Balilla e Topolino, molte biciclette, tram sferraglianti, di giovanotti col costume buono e il cappello a falda, di un tempo d'illusioni prima della guerra e di speranze tra le macerie e verso la ricostruzione.
Ve le propongo, confratelli romantici, nei loro testi, chissà che qualcuno di voi non ne trovi traccia nella grande rete, se le scarichi e magari condivida la mia idea che quelle vecchie canzoni d'amore hanno ancora qualcosa da dire e emozioni da dare.
Parlami d’amore Mariù
Come sei bella, più bella stasera, Mariu ! S
plende un sorriso di stella negli occhi tuoi blu!
Anche se avverso il destino domani avverso sarà
Oggi ti sono vicino, perchè sospirar?
Non pensar!
Parlami d'amore, Mariù !
Tutta la mia vita sei tu!
Gli occhi tuoi bellibrillano,
Fiamme di sogno scintillano!
Dimmi che illusione non è,
Dimmi che sei tutta per me!
Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore, Mariù !
Gli occhi tuoi belli brillano
Fiamme di sogno scintillano!
Dimmi che illusione non è,
Dimmi che sei tutta per me!
Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore, Mariù !
Tu che m´hai preso il cor
Tu che m'hai preso il cor
sarai per me il solo amor
no, non ti scorderò
vivrò per te
ti sognerò
Te o nessuno o mai più
ormai per me come il sole sei tu
lontan da te è morir d'amor
perché sei tu che mi hai rubato il cuor
Ti vedo tra le rose
ti dico tante cose
se il vento lieve t'accarezza
un profumar di giovinezza mi fai tremar
La notte sogno tremando di te
quale incantesimo il mio cuor sul tuo cuor
mentre si schiudono le pupille tue d'or
Tu che mi hai preso il cuor
sarai per me il solo amor
no, non ti scorderò
vivrò per te
ti sognerò
Te o nessuna o mai più
ormai per me come il sole sei tu
lontan da te è morir d'amor
perché sei tu che mi hai rubato il cuor
sabato, marzo 25, 2006
La fatalona dagli occhi bistrati neroazzurro
E così l'Inter ha perso a Parma, e direi che il Parma ha vinto con pieno merito. Eterna incompiuta l'Inter è amante vezzosa, capricciosa, incostante, che illude e delude chi la ama. Non ha il solido pragmatismo di madama Giuve, bruttina ma efficiente madre di famiglia che tiene i conti in ordine e arriva sempre a fine mese (cioé a fine campionato) senza restare in bolletta. Non è la sciantosa e sciampagnosa madamin Milan, che nei momenti decisivi non si perde d'animo. E non è nemmeno quella ragazzetta spigliata della Roma, sbarazzina e volenterosa. L'Inter è una fatalona dagli occhi bistrati di neroazzurro, che seduce e scompare, una ballerina da Moulin Rouge che fa disperare, che sul più bello fila via.
I suoi spasimanti sono per questo inter(tr)isti come dice Severgnini. Ma essendo inguaribilmente romantici non riescono mai a disgustarsi di questa fatalona, delusi oggi torneranno a illudersi domani, in una alternanza di effimera felicità e sottostante costante sofferenza che è il segno distintivo dei grandi amori sfortunati.
Che farci? Niente, sospirar sognando una finale di Champion's League. E se non saràò quest'anno, sarà il prossimo, e l'altro ancora. Come dice Wilcoyote è la corsa che conta, non prendere lo struzzo.
Buona notte confratelli di tutte le fedi calcistiche.
I suoi spasimanti sono per questo inter(tr)isti come dice Severgnini. Ma essendo inguaribilmente romantici non riescono mai a disgustarsi di questa fatalona, delusi oggi torneranno a illudersi domani, in una alternanza di effimera felicità e sottostante costante sofferenza che è il segno distintivo dei grandi amori sfortunati.
Che farci? Niente, sospirar sognando una finale di Champion's League. E se non saràò quest'anno, sarà il prossimo, e l'altro ancora. Come dice Wilcoyote è la corsa che conta, non prendere lo struzzo.
Buona notte confratelli di tutte le fedi calcistiche.
venerdì, marzo 24, 2006
Il Cavaliere inesistente?
Sono tornato da Roma dopo un viaggio irto di difficoltà (blocco di un tratto della autosole per incidente per circa un'ora e mezzo, deviazione tra Avellino Est e Avellino Ovest per frana) e in un altra giornata uggiosa anche se quasi tiepida di questa primavera malaticcia.
Ieri sera ho visto la puntata quotidiana di 8 e 1/2, dedicata al nuovo film di Nanni Moretti e oggi in auto ho ascoltato su radio radicale un dibattito su un libro di Alex Stille (che sia figlio di Ugo Stille, già direttore di corsera?) dedicato al cavaliere.
E' incredibile come Berlusconi tenga la scena pubblica italiana da oltre un decennio e tutto il dibattito politico ruoti in definitiva attorno a lui; al punto che, se ai sondaggi elettorali terrà fede il voto, deve immaginarsi che, anche se battuto e ridotto all'opposizione, continui comunque a recitare un ruolo non secondario.
Ferrara, che è l'unico berluscones veramente intelligente (a parte Tremonti e Pisanu), sosteneva che, comunque vadano le cose, occorre riconoscere che più o meno metà del paese rimarrà dalla sua parte; e questo è il segno che il fenomeno Berlusconi ha segnato in modo profondo la sensibilità degli italiani, dividendoli come forse mai dai tempi dei guelfi e ghibellini in modo totale e quasi viscerale.
Credo che la ragione sia nell'assoluta "italianità" di Berlusconi, nel suo essere arcitaliano per definizione, ossia nel rappresentare quel grumo inestricabile di intelligenza, furbizia, fantasia, capacità di lavoro, fiuto negli affari, familismo, qualunquismo, simpatia gaglioffa, opportunismo che è il "proprium" del nostro carattere nazionale.
Berlusconi è come uno di quegli specchi deformanti di certi vecchi luna park: ti rifletti e ti vedi a seconda della distanza da cui ti collochi ora grasso, ora basso, ora alto e allampanato...
Chi lo apprezza e chi lo disprezza, a seconda dei casi, accetta o rifiuta i propri tanti vizi privati e le proprie poche virtù pubbliche; ne esalta l'ascesa economico-sociale o ne disprezza l'aria da parvenu senza quarti di "nobiltà" sociale e culturale; ne ammira o ne denigra la capacità di resistenza fisica, politica, giudiziaria.
Su un punto però Giuliano Ferrara ha del tutto ragione: Berlusconi è assieme la malattia e la medicina che la società italiana ha trovato sul suo cammino dopo e a causa della dissoluzione, per via mediatico-giudiziaria, della classe politica dirigente della prima repubblica.
Forse dopo il crollo del comunismo e dinanzi al mondo globalizzato era inevitabile che i vecchi partiti e il loro sistema di potere collassasse; ma i tempi sono stati troppo repentini e non hanno consentito la costruzione di una nuova classe dirigente degna di questo nome.
Certo a sinistra (ossia nel centrosinistra) vi sono maggiori capacità politiche, anche perché è stata conservata una parte, quella di seconda fila, della classe politica antetangentopoli.
Eppure proprio il tono e i contenuti di questa campagna elettorale, tutta giocata su battute e dichiarazioni che durano lo spazio di poche ore, priva di vere idee guida forti su come risanare l'Italia e come farle giocare la sua partita nel contesto europeo e internazionale, danno il segno di una complessiva pochezza della politica italiana.
Gli unici che s'interrogano sui valori sono la Rosa nel pugno da un lato, Pera e i c.d. teocons, la CEI e il Papa.
Troppo poco per ripartire? Forse si, ma meglio che niente.
Buona serata, confratelli, vorrei notizie di Wilcoyote ma chissà sotto quale rupe staziona nel suo deserto a fumetti.
Ieri sera ho visto la puntata quotidiana di 8 e 1/2, dedicata al nuovo film di Nanni Moretti e oggi in auto ho ascoltato su radio radicale un dibattito su un libro di Alex Stille (che sia figlio di Ugo Stille, già direttore di corsera?) dedicato al cavaliere.
E' incredibile come Berlusconi tenga la scena pubblica italiana da oltre un decennio e tutto il dibattito politico ruoti in definitiva attorno a lui; al punto che, se ai sondaggi elettorali terrà fede il voto, deve immaginarsi che, anche se battuto e ridotto all'opposizione, continui comunque a recitare un ruolo non secondario.
Ferrara, che è l'unico berluscones veramente intelligente (a parte Tremonti e Pisanu), sosteneva che, comunque vadano le cose, occorre riconoscere che più o meno metà del paese rimarrà dalla sua parte; e questo è il segno che il fenomeno Berlusconi ha segnato in modo profondo la sensibilità degli italiani, dividendoli come forse mai dai tempi dei guelfi e ghibellini in modo totale e quasi viscerale.
Credo che la ragione sia nell'assoluta "italianità" di Berlusconi, nel suo essere arcitaliano per definizione, ossia nel rappresentare quel grumo inestricabile di intelligenza, furbizia, fantasia, capacità di lavoro, fiuto negli affari, familismo, qualunquismo, simpatia gaglioffa, opportunismo che è il "proprium" del nostro carattere nazionale.
Berlusconi è come uno di quegli specchi deformanti di certi vecchi luna park: ti rifletti e ti vedi a seconda della distanza da cui ti collochi ora grasso, ora basso, ora alto e allampanato...
Chi lo apprezza e chi lo disprezza, a seconda dei casi, accetta o rifiuta i propri tanti vizi privati e le proprie poche virtù pubbliche; ne esalta l'ascesa economico-sociale o ne disprezza l'aria da parvenu senza quarti di "nobiltà" sociale e culturale; ne ammira o ne denigra la capacità di resistenza fisica, politica, giudiziaria.
Su un punto però Giuliano Ferrara ha del tutto ragione: Berlusconi è assieme la malattia e la medicina che la società italiana ha trovato sul suo cammino dopo e a causa della dissoluzione, per via mediatico-giudiziaria, della classe politica dirigente della prima repubblica.
Forse dopo il crollo del comunismo e dinanzi al mondo globalizzato era inevitabile che i vecchi partiti e il loro sistema di potere collassasse; ma i tempi sono stati troppo repentini e non hanno consentito la costruzione di una nuova classe dirigente degna di questo nome.
Certo a sinistra (ossia nel centrosinistra) vi sono maggiori capacità politiche, anche perché è stata conservata una parte, quella di seconda fila, della classe politica antetangentopoli.
Eppure proprio il tono e i contenuti di questa campagna elettorale, tutta giocata su battute e dichiarazioni che durano lo spazio di poche ore, priva di vere idee guida forti su come risanare l'Italia e come farle giocare la sua partita nel contesto europeo e internazionale, danno il segno di una complessiva pochezza della politica italiana.
Gli unici che s'interrogano sui valori sono la Rosa nel pugno da un lato, Pera e i c.d. teocons, la CEI e il Papa.
Troppo poco per ripartire? Forse si, ma meglio che niente.
Buona serata, confratelli, vorrei notizie di Wilcoyote ma chissà sotto quale rupe staziona nel suo deserto a fumetti.
martedì, marzo 21, 2006
L'arte di amare
Ho comprato ieri, in una stazione di servizio venendo a Roma, un libro di Osho Rajneesh.
Avevo sentito parlare di lui, ma confesso che la mia formazione cattolica e quel poco di pratica che ho avuto negli anni scorsi di cose religiose mi ha sempre reso un po' freddo e diffidente rispetto alle religioni orientali, alle tante forme del buddismo, alle meditazioni, alle illuminazioni, il terzo occhio e cose analoghe.
Ho comprato il libro attratto dal titolo "Con te e senza di te" e dalla frase di controcopertina "Non chiedere amore come un mendicante ma come un imperatore. Ama e resta a vedere".
Forse il recente post rievocativo dei pensieri di Pavese sull'amore mi aveva predisposto e incuriosito all'acquisto e alla lettura di un libro del genere. Il pessimismo di Pavese sul tema del modo conveniente di amare è desolante (vedi il post relativo).
Ho cominciato dunque a sfogliare il libro ieri sera nella mia stanza d'albergo romano (devo proprio trovarmi un appartamentino, non reggo questa situazione precaria da commesso viaggiatore).
Quel poco che ho letto mi ha ricordato molto l'Arte di amare di Erich Fromm, vero pensatore cult della generazione dei miei vent'anni.
Il succo del discorso, tanto di Osho quanto di Fromm, è che bisogna amare senza aspettative di ricambio, che amare è un'azione transitiva positiva in se, che si tratta di espandere la propria personalità attraverso un orientamento esistenziale di amore verso la vita, le persone, le cose, e naturalmente anche le persone specifiche che si amano.
Osho aggiunge che la persona che amiamo è la forma dell'amore più generale, è una delle forme, una forma concreta; che l'amore degli altri parte dall'amore di se, come una serie di cerchi concentrici muovono dal sasso che li genera; che l'amore arricchisce chi ama, prima ancora che l'amato, e quindi dobbiamo essergli grati se e perché si lascia amare.
L'essenza del discorso, in Osho e Fromm, è che l'amore va inteso nella prospettiva del dare, non del ricevere, ma nel senso che dare è ricevere, arricchirsi, accrescersi (e in questo mi viene in mente la sintonia con la prospettiva cristiana euristica della carità al povero, che ha valore in quanto dando condividiamo sia pure in piccola misura la povertà, e quindi diventiamo a nostra volta cari al Signore come i poveri, fermo restando che siamo tutti poveri agli occhi di Dio -ma vallo a spiegare ai ricchi!).
Mi viene da pensare, per conseguenza, che gli ultimi romantici hanno un sostrato esistenziale o un orientamento esistenziale non solo giusto ma intelligente, e, nella prospettiva che ho detto, anche utilitaristicamente accorto.
La visione della verità nasce, forse, proprio dal rovesciamento della logica corrente, di quella più evidente e a portata di mano. Forse vediamo solo il negativo fotografico della realtà e dobbiamo imparare a vedere la foto in chiaro.
Avevo sentito parlare di lui, ma confesso che la mia formazione cattolica e quel poco di pratica che ho avuto negli anni scorsi di cose religiose mi ha sempre reso un po' freddo e diffidente rispetto alle religioni orientali, alle tante forme del buddismo, alle meditazioni, alle illuminazioni, il terzo occhio e cose analoghe.
Ho comprato il libro attratto dal titolo "Con te e senza di te" e dalla frase di controcopertina "Non chiedere amore come un mendicante ma come un imperatore. Ama e resta a vedere".
Forse il recente post rievocativo dei pensieri di Pavese sull'amore mi aveva predisposto e incuriosito all'acquisto e alla lettura di un libro del genere. Il pessimismo di Pavese sul tema del modo conveniente di amare è desolante (vedi il post relativo).
Ho cominciato dunque a sfogliare il libro ieri sera nella mia stanza d'albergo romano (devo proprio trovarmi un appartamentino, non reggo questa situazione precaria da commesso viaggiatore).
Quel poco che ho letto mi ha ricordato molto l'Arte di amare di Erich Fromm, vero pensatore cult della generazione dei miei vent'anni.
Il succo del discorso, tanto di Osho quanto di Fromm, è che bisogna amare senza aspettative di ricambio, che amare è un'azione transitiva positiva in se, che si tratta di espandere la propria personalità attraverso un orientamento esistenziale di amore verso la vita, le persone, le cose, e naturalmente anche le persone specifiche che si amano.
Osho aggiunge che la persona che amiamo è la forma dell'amore più generale, è una delle forme, una forma concreta; che l'amore degli altri parte dall'amore di se, come una serie di cerchi concentrici muovono dal sasso che li genera; che l'amore arricchisce chi ama, prima ancora che l'amato, e quindi dobbiamo essergli grati se e perché si lascia amare.
L'essenza del discorso, in Osho e Fromm, è che l'amore va inteso nella prospettiva del dare, non del ricevere, ma nel senso che dare è ricevere, arricchirsi, accrescersi (e in questo mi viene in mente la sintonia con la prospettiva cristiana euristica della carità al povero, che ha valore in quanto dando condividiamo sia pure in piccola misura la povertà, e quindi diventiamo a nostra volta cari al Signore come i poveri, fermo restando che siamo tutti poveri agli occhi di Dio -ma vallo a spiegare ai ricchi!).
Mi viene da pensare, per conseguenza, che gli ultimi romantici hanno un sostrato esistenziale o un orientamento esistenziale non solo giusto ma intelligente, e, nella prospettiva che ho detto, anche utilitaristicamente accorto.
La visione della verità nasce, forse, proprio dal rovesciamento della logica corrente, di quella più evidente e a portata di mano. Forse vediamo solo il negativo fotografico della realtà e dobbiamo imparare a vedere la foto in chiaro.
domenica, marzo 19, 2006
Maledetta primavera
Mi accingo a partire per Roma in una giornata fredda e uggiosa. Domani sarebbe primavera. Gerry, cultore di cose celesti, non ignorerà quanta cura mettessero i popoli antichi, egizi e non solo, nel calcolo esatto di equinozi e solstizi, che governavano la vita produttiva, civile, politica, religiosa. Piramidi, porte del Sole, torri di osservazione, tutto era orientato al cielo e ai movimenti di Sole, Luna, stelle, costellazioni, orologio inimibile e immutabile, almeno nei tempi umani, del tempo umano. Mentre un telescopio ha fotografato la radiazione primigenia, forse a un milionesimo di secondo dal big bang, e la sua disseminazione a creare polveri, ammassi, galassie (notizia di due o tre giorni fa), i nostri piccoli occhi mortali (come scrisse Aldo Moro nell'ultima bellissima lettera alla moglie Norina) scrutano ansiosi un cielo che appare sempre meno amico, pieno di polveri più o meno sottili, radiazioni che perforano buchi dell'ozono, nuvoloni di anidride carbonica.
E così le stagioni non son più quelle di una volta, cara la mia signora -si ripete a giaculatoria rassegnata (e un po' scaramantica?)- e questa primavera è proprio maledetta, secondo il refrain di una canzone della Loretta Goggi vincitrice di un Sanremo degli anni '80 (a proposito della Goggi, gli anziani come me la ricordano bambina in un indimenticabile versione televisiva de "I Miserabili" degli anni '60).
Ma poi tutto questo sproloquio per dire cosa?
Che c'era una volta il marzo pazzerello, tra sole e pioggia, che la primavera era nei cuori, prima ancora che nel cielo, che prima che inventassero le feste del papà, della mamma, dei nonni, e domani chissà dei secondi terzi quarti compagni/e (famiglie allargate), il 19 marzo testé passato era solo il giorno di San Giuseppe, e qui da noi si mangiavano le zeppole, paste alla crema fritte o al forno con una lacrima di amarena, ed il 21 marzo era rituale il tema in classe sulla primavera, e i sussidiari erano ingenui, colorati e pieni di buoni sentimenti.
Tempi da rimpiangere, come nella migliore tradizione di signori di mezza età?
No, ma ricordi da non buttar via in attesa di Day after tomorrow prossimi venturi.
Buona primavera, confratelli.
P.S. Che poi, personalmente, a me questo tempo uggioso, lo confesso, non dispiace del tutto. Ma sono gusti personali, appunto, e anche un po' frutto dei miei tempi.
E così le stagioni non son più quelle di una volta, cara la mia signora -si ripete a giaculatoria rassegnata (e un po' scaramantica?)- e questa primavera è proprio maledetta, secondo il refrain di una canzone della Loretta Goggi vincitrice di un Sanremo degli anni '80 (a proposito della Goggi, gli anziani come me la ricordano bambina in un indimenticabile versione televisiva de "I Miserabili" degli anni '60).
Ma poi tutto questo sproloquio per dire cosa?
Che c'era una volta il marzo pazzerello, tra sole e pioggia, che la primavera era nei cuori, prima ancora che nel cielo, che prima che inventassero le feste del papà, della mamma, dei nonni, e domani chissà dei secondi terzi quarti compagni/e (famiglie allargate), il 19 marzo testé passato era solo il giorno di San Giuseppe, e qui da noi si mangiavano le zeppole, paste alla crema fritte o al forno con una lacrima di amarena, ed il 21 marzo era rituale il tema in classe sulla primavera, e i sussidiari erano ingenui, colorati e pieni di buoni sentimenti.
Tempi da rimpiangere, come nella migliore tradizione di signori di mezza età?
No, ma ricordi da non buttar via in attesa di Day after tomorrow prossimi venturi.
Buona primavera, confratelli.
P.S. Che poi, personalmente, a me questo tempo uggioso, lo confesso, non dispiace del tutto. Ma sono gusti personali, appunto, e anche un po' frutto dei miei tempi.
sabato, marzo 18, 2006
Tra amore sacro ed amor profano
Qualche giorno fa ho parlato di una bella recensione a "I segreti di Brokeback Mountain", inedita storia di amore gay tra due rudi cowboys. Mi viene in mente un altro film che racconta con grande delicatezza e forza di una storia gay, di discriminazioni, di una lotta giudiziaria tenace per affermare la dignità di un giovane e promettente avvocato, sbattuto fuori da uno di quei megastudi americani perché scoperto gay e per giunta malato di AIDS.
"Philadelphia" il film di Jonathan Demme, con un immenso Tom Hanks, un intenso Denzel Washington e una delle poche interpretazioni decenti di Antonio Banderas, che si apre con campi sequenza di città e folla sulle note struggenti e intimiste di "Streets of Philadelphia" di Bruce Springsteen.
Ho visto questo film almeno tre volte, e mi ha sempre commosso: perchè è la storia di una ingiustizia, di una discriminazione, dell'ottusità di circoli professionali e sociali benpensanti, e in realtà della paura dell'altro e della diversità.
Ho già detto che sono un eterosessuale monodirezionale, non mi piacciono i gay pride, l'ostentazione di una diversità quanto vuole farsi superiorità e corre il rischio di diventare un'intolleranza inversa.
Ma credo che film come "I segreti di Brokebak Mountain" e "Philadelphia" aiutino a guardare oltre pregiudizi e idiosincrasie, a capire come la sostanza di ogni storia di amore, anche omosessuale, sia la verità e la profondità rivoluzionaria dell'amore. E in fondo, se è vero, come ho letto da qualche parte, che l'amore umano è il riflesso dell'amore di Dio per gli uomini, una pallida imitazione certo di questo amore divino, non vedo perché non si debba riconoscere dignità a questo amore, sia che sia rivolto da un uomo a una donna, o da una donna a un uomo, sia che sia rivolto da un uomo a un uomo, o da una donna a una donna.
Concessioni al relativismo etico, pericolosa deriva verso un giustificazionismo?
Non lo so, ma non credo, forse solo una consapevolezza, a quasi cinquant'anni, che la vita è più complicata e variegata, e che ognuno ha una sua strada, forse sbagliata, ma che deve percorrere seguendo il cuore.
Lettore quasi onnivoro, scopro ogni tanto brandelli di verità anche nelle rubriche dei "magazine".
Sull'ultimo numero di Io donna, in allegato al Corsera di ieri, c'è un interessante articolo, ad esempio, di Giorgio Abraham nella sua consueta rubrica, il cui succo è che le dinamiche amorose sono in fondo le stesse sia nei rapporti eterosessuali che in quelli omosessuali, salvo in questi ultimi la complicazione che uno dei due partners possa non accettare sino in fondo i propri orientamenti sessuali.
Ciò che però mi ha colpito, e che voglio sottolineare e lasciare alla riflessione, è la chiusa di questo articolo.
"Certo l'amore, etero o gay, ha leggi universali, uguali per tutti: la persona di cui ci si innamora appare insostituibile, soprattutto quando non c'è più. Ma invece di considerarla come un oggetto da possedere, bisogna poterla comprendere, consigliare, sostenere, aiutarla a scegliere il proprio cammino. Anche se andava in direzione opposta ai nostri interessi egoistici".
E' questa l'essenza di amare: rispettare chi si ama per quello che è, che vuole, desidera, accettarne anche il tradimento, il rifiuto, l'abbandono.
Amare vuol dire anche amare la libertà dell'altro.
Un amore così dovrebbe essere, e spesso lo è, quello dei genitori verso i figli, soprattutto delle madri verso i figli.
Un amore così, sfrondato di tutte le sovrastrutture ecclesiologiche, è l'amore di Dio, che ha inventato il libero arbitrio.
Ed è questa la superiorità, devo proprio dirlo, del Dio cristiano rispetto a quello musulmano: Dio ci lascia liberi di amarlo o di non amarlo, e accetta il nostro amore solo se è un atto di libertà. Non è un despota e un tiranno come Allah, non è un'algida figura inarrivabile, dinanzi a cui genuflettersi in ondeggiamenti rituali (in questo i musulmani pregano in modo abbastanza simile agli ebrei, e anche Giavé è un tipino...); è un Dio di amore, quindi di libertà.
Mi viene in mente che oggi è San Giuseppe, forse il santo più noto e assieme nascosto e misterioso, poche righe nel Vangelo, una presenza nell'ombra schiacciata tra Gesù e Maria, un santo discreto insomma, che per amore sceglie un amore disincarnato, platonico.
Tornando a Philadelphia, è bellissima la scena finale, in cui parenti e amici del giovane e sfortunato avvocato, morto di AIDS, si ritrovano nella casa dei suoi genitori per festeggiarlo con semplicità, serenità, poche lacrime e molta voglia di vita.
Questi americani qualche volta hanno qualcosa d'interessante da dirci.
"Philadelphia" il film di Jonathan Demme, con un immenso Tom Hanks, un intenso Denzel Washington e una delle poche interpretazioni decenti di Antonio Banderas, che si apre con campi sequenza di città e folla sulle note struggenti e intimiste di "Streets of Philadelphia" di Bruce Springsteen.
Ho visto questo film almeno tre volte, e mi ha sempre commosso: perchè è la storia di una ingiustizia, di una discriminazione, dell'ottusità di circoli professionali e sociali benpensanti, e in realtà della paura dell'altro e della diversità.
Ho già detto che sono un eterosessuale monodirezionale, non mi piacciono i gay pride, l'ostentazione di una diversità quanto vuole farsi superiorità e corre il rischio di diventare un'intolleranza inversa.
Ma credo che film come "I segreti di Brokebak Mountain" e "Philadelphia" aiutino a guardare oltre pregiudizi e idiosincrasie, a capire come la sostanza di ogni storia di amore, anche omosessuale, sia la verità e la profondità rivoluzionaria dell'amore. E in fondo, se è vero, come ho letto da qualche parte, che l'amore umano è il riflesso dell'amore di Dio per gli uomini, una pallida imitazione certo di questo amore divino, non vedo perché non si debba riconoscere dignità a questo amore, sia che sia rivolto da un uomo a una donna, o da una donna a un uomo, sia che sia rivolto da un uomo a un uomo, o da una donna a una donna.
Concessioni al relativismo etico, pericolosa deriva verso un giustificazionismo?
Non lo so, ma non credo, forse solo una consapevolezza, a quasi cinquant'anni, che la vita è più complicata e variegata, e che ognuno ha una sua strada, forse sbagliata, ma che deve percorrere seguendo il cuore.
Lettore quasi onnivoro, scopro ogni tanto brandelli di verità anche nelle rubriche dei "magazine".
Sull'ultimo numero di Io donna, in allegato al Corsera di ieri, c'è un interessante articolo, ad esempio, di Giorgio Abraham nella sua consueta rubrica, il cui succo è che le dinamiche amorose sono in fondo le stesse sia nei rapporti eterosessuali che in quelli omosessuali, salvo in questi ultimi la complicazione che uno dei due partners possa non accettare sino in fondo i propri orientamenti sessuali.
Ciò che però mi ha colpito, e che voglio sottolineare e lasciare alla riflessione, è la chiusa di questo articolo.
"Certo l'amore, etero o gay, ha leggi universali, uguali per tutti: la persona di cui ci si innamora appare insostituibile, soprattutto quando non c'è più. Ma invece di considerarla come un oggetto da possedere, bisogna poterla comprendere, consigliare, sostenere, aiutarla a scegliere il proprio cammino. Anche se andava in direzione opposta ai nostri interessi egoistici".
E' questa l'essenza di amare: rispettare chi si ama per quello che è, che vuole, desidera, accettarne anche il tradimento, il rifiuto, l'abbandono.
Amare vuol dire anche amare la libertà dell'altro.
Un amore così dovrebbe essere, e spesso lo è, quello dei genitori verso i figli, soprattutto delle madri verso i figli.
Un amore così, sfrondato di tutte le sovrastrutture ecclesiologiche, è l'amore di Dio, che ha inventato il libero arbitrio.
Ed è questa la superiorità, devo proprio dirlo, del Dio cristiano rispetto a quello musulmano: Dio ci lascia liberi di amarlo o di non amarlo, e accetta il nostro amore solo se è un atto di libertà. Non è un despota e un tiranno come Allah, non è un'algida figura inarrivabile, dinanzi a cui genuflettersi in ondeggiamenti rituali (in questo i musulmani pregano in modo abbastanza simile agli ebrei, e anche Giavé è un tipino...); è un Dio di amore, quindi di libertà.
Mi viene in mente che oggi è San Giuseppe, forse il santo più noto e assieme nascosto e misterioso, poche righe nel Vangelo, una presenza nell'ombra schiacciata tra Gesù e Maria, un santo discreto insomma, che per amore sceglie un amore disincarnato, platonico.
Tornando a Philadelphia, è bellissima la scena finale, in cui parenti e amici del giovane e sfortunato avvocato, morto di AIDS, si ritrovano nella casa dei suoi genitori per festeggiarlo con semplicità, serenità, poche lacrime e molta voglia di vita.
Questi americani qualche volta hanno qualcosa d'interessante da dirci.
Piccolo ritratto (e chissenefrega, dirà qualcuno?)
Tra citazioni letterarie, attualità politica, fatti di cronaca, mini-outing personali, mi accorgo che questo blog molto poco visitato (ma quei pochi valgono una folla) sta diventando una preziosa abitudine quotidiana.
Ogni giorno un pezzetto di vita e di anima, una riflessione, un'emozione, un sentimento, uno sfogo.
Così deve essere un diario, lo si scriva su carta o lo si condivida su internet.
Mi piacerebbe se questo blog diventasse per i pochi ma ottimi che lo frequentano un posto in cui condividere tutte le passioni, felici o tristi, vincenti o perdenti, grandi e piccole.
Di me ho detto qualcosa: sono un magistrato amministrativo, cioé sto nei TAR (un consigliere di Stato, tranne forse Gerry, non direbbe mai: "Sono un magistrato amministrativo", considerandolo troppo riduttivo), vengo dalla magistratura ordinaria, dove ho fatto il pretore mandamentale ante-riforma del 1989, e poi il giudice di una sezione penale del Tribunale di Bari, sono sposato senza figli, sono componente del chiamiamolo per intenderci C.S.M. dei giudici amministrativi (cioè dei magistrati di TAR e Consiglio di Stato), in questo periodo quindi sono una settimana si e l'altra no a Roma, che sento sempre più come la mia città, e in cui ho deciso di trasferirmi comunque vada.
Sono stato un giovane comunista, nell'Italia in bianco e nero dei primi anni '70, di quelli che gridavano nei cortei "Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer", quando le domeniche si faceva la diffusione militante dell'Unità (che era ancora l'organo del PCI), ne sono uscito nel 1976 per insofferenza al centralismo democratico e anche al compromesso storico, subii il fascino e la delusione della stagione effimera del primo Craxi, quando la rivista Mondo operaio era un punto di riferimento culturale, non amo questa seconda repubblica molto più impresentabile e cialtrona della prima, leggo il Corriere della Sera, anche se negli ultimi due anni sta perdendo molto della sua autorevolezza, qualche volta il Foglio, che pur schierato mi fa sorridere per una certa impostazione ironica e autoironica, qualche volta Il Sole 24 ore, giusto per capire gli scenari globali.
Mi interessa la politica, interna e soprattutto estera, e vorrei che potesse essere declinata come una vera e autentica passione civile, di fare per cambiare e modificare in meglio da una città a una regione a una nazione al mondo.
Sono tifoso dell'Inter, forse l'unico esempio di ex milanista pentito; ma da ragazzo tifavo Milan solo perché ci giocavano Gianni Rivera e Pierino Prati, poi per lungo tempo mi disamorai del tutto del calcio, anche perché non mi piaceva il Milan stellare di Sacchi, Capello, Berlusconi, Van Basten e compagnia cantante; tiferei anche per il Bari, se fosse qualcosa di meno squallido e misero di quello cui lo ha ridotto la gestione sparagnina dei Matarrese, i quali avendo subito la confisca di Punta Perotti hanno deciso di far pagare alla città questo rifiuto (erano potentissimi tra la fine degli ottanta e i primi anni novanta).
Sono ovviamente romantico, tenero, illuso, passionale, e spero del tutto leale (un libro aperto dicono, ma quanta fatica scriverci ogni giorno...).
Fumatore più che accanito, in eterna lotta col peso, già soggetto panicoso (ho sofferto di DAP, cioé disturbi da attacchi di panico), incline a fratturarmi (frattura a scoppio della rotula nel 1996, frattura disallineata della tibia nel 2001) in modo peraltro banale e mica in competizioni agonistiche.
Come outing riassuntivo, per il momento va bene.
Buona serata, confratelli romantici.
Ogni giorno un pezzetto di vita e di anima, una riflessione, un'emozione, un sentimento, uno sfogo.
Così deve essere un diario, lo si scriva su carta o lo si condivida su internet.
Mi piacerebbe se questo blog diventasse per i pochi ma ottimi che lo frequentano un posto in cui condividere tutte le passioni, felici o tristi, vincenti o perdenti, grandi e piccole.
Di me ho detto qualcosa: sono un magistrato amministrativo, cioé sto nei TAR (un consigliere di Stato, tranne forse Gerry, non direbbe mai: "Sono un magistrato amministrativo", considerandolo troppo riduttivo), vengo dalla magistratura ordinaria, dove ho fatto il pretore mandamentale ante-riforma del 1989, e poi il giudice di una sezione penale del Tribunale di Bari, sono sposato senza figli, sono componente del chiamiamolo per intenderci C.S.M. dei giudici amministrativi (cioè dei magistrati di TAR e Consiglio di Stato), in questo periodo quindi sono una settimana si e l'altra no a Roma, che sento sempre più come la mia città, e in cui ho deciso di trasferirmi comunque vada.
Sono stato un giovane comunista, nell'Italia in bianco e nero dei primi anni '70, di quelli che gridavano nei cortei "Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer", quando le domeniche si faceva la diffusione militante dell'Unità (che era ancora l'organo del PCI), ne sono uscito nel 1976 per insofferenza al centralismo democratico e anche al compromesso storico, subii il fascino e la delusione della stagione effimera del primo Craxi, quando la rivista Mondo operaio era un punto di riferimento culturale, non amo questa seconda repubblica molto più impresentabile e cialtrona della prima, leggo il Corriere della Sera, anche se negli ultimi due anni sta perdendo molto della sua autorevolezza, qualche volta il Foglio, che pur schierato mi fa sorridere per una certa impostazione ironica e autoironica, qualche volta Il Sole 24 ore, giusto per capire gli scenari globali.
Mi interessa la politica, interna e soprattutto estera, e vorrei che potesse essere declinata come una vera e autentica passione civile, di fare per cambiare e modificare in meglio da una città a una regione a una nazione al mondo.
Sono tifoso dell'Inter, forse l'unico esempio di ex milanista pentito; ma da ragazzo tifavo Milan solo perché ci giocavano Gianni Rivera e Pierino Prati, poi per lungo tempo mi disamorai del tutto del calcio, anche perché non mi piaceva il Milan stellare di Sacchi, Capello, Berlusconi, Van Basten e compagnia cantante; tiferei anche per il Bari, se fosse qualcosa di meno squallido e misero di quello cui lo ha ridotto la gestione sparagnina dei Matarrese, i quali avendo subito la confisca di Punta Perotti hanno deciso di far pagare alla città questo rifiuto (erano potentissimi tra la fine degli ottanta e i primi anni novanta).
Sono ovviamente romantico, tenero, illuso, passionale, e spero del tutto leale (un libro aperto dicono, ma quanta fatica scriverci ogni giorno...).
Fumatore più che accanito, in eterna lotta col peso, già soggetto panicoso (ho sofferto di DAP, cioé disturbi da attacchi di panico), incline a fratturarmi (frattura a scoppio della rotula nel 1996, frattura disallineata della tibia nel 2001) in modo peraltro banale e mica in competizioni agonistiche.
Come outing riassuntivo, per il momento va bene.
Buona serata, confratelli romantici.
venerdì, marzo 17, 2006
Il mestiere di vivere
Avevo diciotto anni, vale a dire un secolo fa, quando, avvicinato da un sub-sub-sub-sub agente dell'Einaudi, mi lasciai convincere a comprare, a rate, una quantità di libri.
I libri scelti rispecchiavano gli interessi, gli ideali, gli ardori e le ingenuità di un diciottenne, non ancora uscito dalla chiesa pci (di cui ero piccolo parroco come segretario della cellula FGCI più grande tra quelle delle scuole medie superiori).
Comprai a man salva vari libri cult dell'epoca: da una Storia della musica di Massimo Mila in due volumi, alla Rivoluzione francese di Mathiez-Lefebre, al teatro completo di Eduardo (in due volumi telati con sovraccoperta: la Cantata dei giorni pari e la Cantata dei giorni dispari) e tanti altri quali la Storia della Resistenza italiana di Salvatorelli, una Storia dell'industria non so di chi, non il mitico Spriano Storia del partito comunista italiano, perché erano davvero troppi volumi e costavano di conseguenza.
In termini di costo, l'incidenza maggiore fu data dall'acquisto niente meno che delle Opere complete di Cesare Pavese, un cofanetto con forse sedici-venti volumi.
Non dico che li lessi tutti, ma ne lessi buona parte, magari non le recensioni e i saggi critici, ma le poesie e i romanzi si.
Tra i volumi di Pavese uno, con la copertina bianca ormai ingiallita, è "Il mestiere di vivere", celeberrimo diario intimo, antesignano serio e sofferto degli odierni blog.
Oggi, forse perché sono un po' giù (più del solito, direi), l'ho riaperto, cercando le mie ingenue sottolineature di allora.
Ve ne propongo, cari confratelli, un florilegio; citazioni citabili, ma soprattutto meditabili che a distanza di trent'anni riscopro con una consapevolezza diversa, di vita vissuta, e quindi con una più profonda intelligenza.
Pavese non è indicato come un romantico, ma come un decadente, un po' neorealista, sostanzialmente esistenzialista ante litteram.
Eppure, se nei romantici, come ho detto, vi è una sottile vena di disadattamento alla vita, un senso di orgogliosa, ma quanto dolorosa, separatezza dal mondo, dai cinici, dai pragmatici, insomma da quelli che il mestiere di vivere lo conoscono e praticano così bene, e con risultati di certo superiori, quando non eccellenti, Pavese è uno dei numi tutelari di questa congregazione.
Ecco, allora, le citazioni:
Sulla disillusione:
"...Cadono in questi mesi molti valori del passato e si distruggono abitudini interiori che -straordinaria fortuna- nulla per ora sostituisce. Debbo imparare a prendere questa faticosa inutilità come un benedetto dono...Ritorno a uno stato larvare d'infanzia, meglio d'immaturità, con tutte le rozzezze e le disperazioni del periodo...Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l'altra riva, e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un'altra volta...Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia umiltà, la scoperta insomma di nuovi valori, un nuovo mondo..."
(16 febbraio 1936)
Sull'abbandono:
"Eppure -o che l'infatuazione mi inganna, ma non credo- avevo trovato la via della salvezza. E con tutta la debolezza ch'era in me, quella persona mi sapeva legare a una disciplina, a un sacrificio, col semplice dono di sé...perché il dono di lei mi alzava all'intuizione di nuovi doveri, me li rendeva corpo dinanzi. Perché abbandonato a me, ne ho fatta l'esperienza, sono certo di non riuscirsi. Fatto una carne e un destino con lei, ci sarei riuscito, ne sono altrettanto certo. Anche per la mia stessa viltà: sarebbe stato un imperativo al mio fianco..."
(10 aprile 1936)
Sulla donna:
"Una donna che non sia stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia stupida, presto o tardi, trova un uomo sano e lo riduce a un rottame. Ci riesce sempre"
(3 agosto 1937)
Sul modo più conveniente di amare:
"Ma questa è la cosa più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"
(30 settembre 1937)
"Per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonarglisi, non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore. Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona. Erano in gamba gli inventori dell'amore di Dio: altro che insieme si possieda e si goda, non esiste"
(16 novembre 1937)
"L'errore dei sentimentali è non di credere che esistano 'teneri affetti', ma di accampare un diritto su questi affetti in nome della propria tenera natura. Mentre soltanto le nature dure e risolute sanno e possono crearsi una cerchia di teneri affetti. E va da sé -tragedia- che essi li godono meno. Chi ha denti, ecc."
"Sia chiaro, una volta per tutte, che essere innamorato è un fatto personale, che non riguarda l'oggetto amaro -nemmeno se questo riami..."
"L'arte di farsi amare consiste in tergiversazioni, fastidi, sdegni, avare concessioni che epidermicamente riescono dolcissime, e legano il malcapitato a doppio filo; ma in fondo al suo cuore e al suo istinto fan nascere e covano un rabbioso rancore, che si esprime in disistima e desiderio tenace di vendetta. Far degli schiavi è cattiva politica, e si è visto e si vedrà ancora. La consueta tragedia: sa farsi amare soltanto chi sa farsi odiare dalla stessa persona. Così finisce la giovinezza: quando si vede che l'ingenuo abbandono nessuno lo vuole. E ci sono due modi di questa fine: accorgersi che non lo vogliono gli altri e accorgersi che non possiamo accettarlo noi. I deboli invecchiano nel primo modo, i forti nel secondo..."
(5 dicembre 1937)
"Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli"
(13 novembre 1938)
"L'arte di vivere è l'arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiamo bisogno d'invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle, ma bisogna anche disprezzarle. Come con le donne non basta essere stupidi ma bisogna anche essere stupidi"
(27 dicembre 1938)
"A una donna ripugna un uomo che pensi a lei giorno e notte -per la ragione che lei non ci pensa"
(14 ottobre 1940)
"Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige è amato. Cioé, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioé lo amiano. Il dare è una passione, quasi un vizio..."
(27 maggio 1941)
Forse se il buon Cesarone avesse avuto a quei tempi prozac e similari, l'avrebbe messa giù meno dura. E se ci fosse già stata la televisione, nugoli di veline, letterine, piccolesorelle dei grandi fratelli, missitalie, gli avrebbero alleviato la solitudine. Ma allora non sarebbe stato Pavese, ma un Mughini qualsiasi. Dura essere grandi, durissima.
Buona giornata, confratelli.
I libri scelti rispecchiavano gli interessi, gli ideali, gli ardori e le ingenuità di un diciottenne, non ancora uscito dalla chiesa pci (di cui ero piccolo parroco come segretario della cellula FGCI più grande tra quelle delle scuole medie superiori).
Comprai a man salva vari libri cult dell'epoca: da una Storia della musica di Massimo Mila in due volumi, alla Rivoluzione francese di Mathiez-Lefebre, al teatro completo di Eduardo (in due volumi telati con sovraccoperta: la Cantata dei giorni pari e la Cantata dei giorni dispari) e tanti altri quali la Storia della Resistenza italiana di Salvatorelli, una Storia dell'industria non so di chi, non il mitico Spriano Storia del partito comunista italiano, perché erano davvero troppi volumi e costavano di conseguenza.
In termini di costo, l'incidenza maggiore fu data dall'acquisto niente meno che delle Opere complete di Cesare Pavese, un cofanetto con forse sedici-venti volumi.
Non dico che li lessi tutti, ma ne lessi buona parte, magari non le recensioni e i saggi critici, ma le poesie e i romanzi si.
Tra i volumi di Pavese uno, con la copertina bianca ormai ingiallita, è "Il mestiere di vivere", celeberrimo diario intimo, antesignano serio e sofferto degli odierni blog.
Oggi, forse perché sono un po' giù (più del solito, direi), l'ho riaperto, cercando le mie ingenue sottolineature di allora.
Ve ne propongo, cari confratelli, un florilegio; citazioni citabili, ma soprattutto meditabili che a distanza di trent'anni riscopro con una consapevolezza diversa, di vita vissuta, e quindi con una più profonda intelligenza.
Pavese non è indicato come un romantico, ma come un decadente, un po' neorealista, sostanzialmente esistenzialista ante litteram.
Eppure, se nei romantici, come ho detto, vi è una sottile vena di disadattamento alla vita, un senso di orgogliosa, ma quanto dolorosa, separatezza dal mondo, dai cinici, dai pragmatici, insomma da quelli che il mestiere di vivere lo conoscono e praticano così bene, e con risultati di certo superiori, quando non eccellenti, Pavese è uno dei numi tutelari di questa congregazione.
Ecco, allora, le citazioni:
Sulla disillusione:
"...Cadono in questi mesi molti valori del passato e si distruggono abitudini interiori che -straordinaria fortuna- nulla per ora sostituisce. Debbo imparare a prendere questa faticosa inutilità come un benedetto dono...Ritorno a uno stato larvare d'infanzia, meglio d'immaturità, con tutte le rozzezze e le disperazioni del periodo...Quale mondo giaccia di là di questo mare non so, ma ogni mare ha l'altra riva, e arriverò. Mi disgusto ora della vita per poterla assaporare un'altra volta...Il futuro verrà da un lungo dolore e un lungo silenzio. Presuppone uno stato di tale ignoranza e smarrimento che sia umiltà, la scoperta insomma di nuovi valori, un nuovo mondo..."
(16 febbraio 1936)
Sull'abbandono:
"Eppure -o che l'infatuazione mi inganna, ma non credo- avevo trovato la via della salvezza. E con tutta la debolezza ch'era in me, quella persona mi sapeva legare a una disciplina, a un sacrificio, col semplice dono di sé...perché il dono di lei mi alzava all'intuizione di nuovi doveri, me li rendeva corpo dinanzi. Perché abbandonato a me, ne ho fatta l'esperienza, sono certo di non riuscirsi. Fatto una carne e un destino con lei, ci sarei riuscito, ne sono altrettanto certo. Anche per la mia stessa viltà: sarebbe stato un imperativo al mio fianco..."
(10 aprile 1936)
Sulla donna:
"Una donna che non sia stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia stupida, presto o tardi, trova un uomo sano e lo riduce a un rottame. Ci riesce sempre"
(3 agosto 1937)
Sul modo più conveniente di amare:
"Ma questa è la cosa più atroce: l'arte della vita consiste nel nascondere alle persone più care la propria gioia di esser con loro, altrimenti si perdono"
(30 settembre 1937)
"Per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonarglisi, non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore. Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona. Erano in gamba gli inventori dell'amore di Dio: altro che insieme si possieda e si goda, non esiste"
(16 novembre 1937)
"L'errore dei sentimentali è non di credere che esistano 'teneri affetti', ma di accampare un diritto su questi affetti in nome della propria tenera natura. Mentre soltanto le nature dure e risolute sanno e possono crearsi una cerchia di teneri affetti. E va da sé -tragedia- che essi li godono meno. Chi ha denti, ecc."
"Sia chiaro, una volta per tutte, che essere innamorato è un fatto personale, che non riguarda l'oggetto amaro -nemmeno se questo riami..."
"L'arte di farsi amare consiste in tergiversazioni, fastidi, sdegni, avare concessioni che epidermicamente riescono dolcissime, e legano il malcapitato a doppio filo; ma in fondo al suo cuore e al suo istinto fan nascere e covano un rabbioso rancore, che si esprime in disistima e desiderio tenace di vendetta. Far degli schiavi è cattiva politica, e si è visto e si vedrà ancora. La consueta tragedia: sa farsi amare soltanto chi sa farsi odiare dalla stessa persona. Così finisce la giovinezza: quando si vede che l'ingenuo abbandono nessuno lo vuole. E ci sono due modi di questa fine: accorgersi che non lo vogliono gli altri e accorgersi che non possiamo accettarlo noi. I deboli invecchiano nel primo modo, i forti nel secondo..."
(5 dicembre 1937)
"Non si desidera possedere una donna, si desidera possederla noi soli"
(13 novembre 1938)
"L'arte di vivere è l'arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiamo bisogno d'invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle, ma bisogna anche disprezzarle. Come con le donne non basta essere stupidi ma bisogna anche essere stupidi"
(27 dicembre 1938)
"A una donna ripugna un uomo che pensi a lei giorno e notte -per la ragione che lei non ci pensa"
(14 ottobre 1940)
"Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige è amato. Cioé, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioé lo amiano. Il dare è una passione, quasi un vizio..."
(27 maggio 1941)
Forse se il buon Cesarone avesse avuto a quei tempi prozac e similari, l'avrebbe messa giù meno dura. E se ci fosse già stata la televisione, nugoli di veline, letterine, piccolesorelle dei grandi fratelli, missitalie, gli avrebbero alleviato la solitudine. Ma allora non sarebbe stato Pavese, ma un Mughini qualsiasi. Dura essere grandi, durissima.
Buona giornata, confratelli.
giovedì, marzo 16, 2006
A egregie cose il forte animo accendono l'urne de' forti...
Outing per outing, come si dice oggi, io pure per gli amici-amici sono Leo, è evidente sino dal mio indirizzo e-mail.
Da bambino, anzi, non mi rendevo nemmeno conto che Leo era un diminutivo, poi da adolescente, sia perché "brevilineo" (cioé bassino, 1.67-68 a dir troppo) sia perché in eterna lotta col peso, ho cominciato a provare gratitudine per chi mi chiamava col nome completo, che da importanza, e mi sembrava dipingermi più magro e più autorevole (lasciamo stare le celie dalla terza elementare alla terza media su "Leonardo da perdi", e le storpiature del mio cognome quali Spagnolao, Spagnolotto, etc., tutte incentrate sul mio aspetto grassottello).
E a parte la condivisione consolatoria coi confratelli di bassezza dei motti tipo "la botte piccola fa il vino buono", i grandi della storia erano tutti bassi, vedi Napoleone e Cesare (ma sarà vero per quest'ultimo?), e il celeberrimo gesto del rovesciamento di pollice e indice alzati, a significare il rapporto di proporzionalità inversa tra altezza e lunghezza (con richiami razzisti favoleggianti a come lo hanno i nani), la conquista del nome completo è stata elemento di rassicurazione.
Poi si cresce e ci si accetta, ovviamente.
Gerry ci ha raccontato qualcosa delle sue aspirazioni adolescenziali, e non è difficile immaginare che un acquariano, per giunta sensibile e anche alto di statura, ambisca a ragionar di stelle e pianeti.
Nei numeri vi è qualcosa di significativo e rivelatore, ne sono convinto.
Così non mi stupisce (ma solo sino a un certo punto, vé) che Gerry sia nato lo stesso giorno di Galileo, esattamente seicento anni dopo.
Non so se può fargli piacere, ma quel giorno, esattamente dieci anni prima di lui, è nato anche Matt Groening, creatore dei "Simpson" ed è morto, nel 1926, Piero Gobetti.
Inoltre il 15 febbraio 1898 nasceva Antonio De Curtis, il cui nome completo di titolo nobiliari era
Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo.
Del 12 febbraio, giorno mio genetliaco, sapevo che lo condividevo con Abramo Lincoln, non anche -e non mi ci riconosco molto- con Charles Darwin (1809) e Franco Zeffirelli (1923).
Avendomi Gerry evocato il celebre verso del Foscolo che da titolo a questo post, ho trovato il sito forse da lui visitato, e spero di riuscire a postarlo come link.
Checché (diceva Totò) di ciò, e tanto per chiudere con un outing sulle aspirazioni giovanili, dirò che a mia volta, e nell'ordine, avrei voluto fare: il regista cinematografico, il giornalista inviato speciale, lo scrittore di professione.
Morale della favola esistenziale: scrivo normalmente di cose più prosaiche, anche se non ho perduto del tutto la speranza negli anni più tardi di fare lo scrittore per davvero.
Certo se Wilcoyote ci raccontasse qualcosina della sua carriera di vita, prima di ritirarsi come anacoreta nel deserto vuoto di uomini e pieno di struzzi, direi che questo outing comincerebbe a diventare molto molto interessante.
Abbracci ai confratelli, Gerry uber alles.
P.S. Un roma(ntico) non può non tifare per la Roma; oppure essere, come me e secondo una efficace definizione di Beppe Severgnini, un inter(tr)iste.
Buona giornata.
Da bambino, anzi, non mi rendevo nemmeno conto che Leo era un diminutivo, poi da adolescente, sia perché "brevilineo" (cioé bassino, 1.67-68 a dir troppo) sia perché in eterna lotta col peso, ho cominciato a provare gratitudine per chi mi chiamava col nome completo, che da importanza, e mi sembrava dipingermi più magro e più autorevole (lasciamo stare le celie dalla terza elementare alla terza media su "Leonardo da perdi", e le storpiature del mio cognome quali Spagnolao, Spagnolotto, etc., tutte incentrate sul mio aspetto grassottello).
E a parte la condivisione consolatoria coi confratelli di bassezza dei motti tipo "la botte piccola fa il vino buono", i grandi della storia erano tutti bassi, vedi Napoleone e Cesare (ma sarà vero per quest'ultimo?), e il celeberrimo gesto del rovesciamento di pollice e indice alzati, a significare il rapporto di proporzionalità inversa tra altezza e lunghezza (con richiami razzisti favoleggianti a come lo hanno i nani), la conquista del nome completo è stata elemento di rassicurazione.
Poi si cresce e ci si accetta, ovviamente.
Gerry ci ha raccontato qualcosa delle sue aspirazioni adolescenziali, e non è difficile immaginare che un acquariano, per giunta sensibile e anche alto di statura, ambisca a ragionar di stelle e pianeti.
Nei numeri vi è qualcosa di significativo e rivelatore, ne sono convinto.
Così non mi stupisce (ma solo sino a un certo punto, vé) che Gerry sia nato lo stesso giorno di Galileo, esattamente seicento anni dopo.
Non so se può fargli piacere, ma quel giorno, esattamente dieci anni prima di lui, è nato anche Matt Groening, creatore dei "Simpson" ed è morto, nel 1926, Piero Gobetti.
Inoltre il 15 febbraio 1898 nasceva Antonio De Curtis, il cui nome completo di titolo nobiliari era
Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo.
Del 12 febbraio, giorno mio genetliaco, sapevo che lo condividevo con Abramo Lincoln, non anche -e non mi ci riconosco molto- con Charles Darwin (1809) e Franco Zeffirelli (1923).
Avendomi Gerry evocato il celebre verso del Foscolo che da titolo a questo post, ho trovato il sito forse da lui visitato, e spero di riuscire a postarlo come link.
Checché (diceva Totò) di ciò, e tanto per chiudere con un outing sulle aspirazioni giovanili, dirò che a mia volta, e nell'ordine, avrei voluto fare: il regista cinematografico, il giornalista inviato speciale, lo scrittore di professione.
Morale della favola esistenziale: scrivo normalmente di cose più prosaiche, anche se non ho perduto del tutto la speranza negli anni più tardi di fare lo scrittore per davvero.
Certo se Wilcoyote ci raccontasse qualcosina della sua carriera di vita, prima di ritirarsi come anacoreta nel deserto vuoto di uomini e pieno di struzzi, direi che questo outing comincerebbe a diventare molto molto interessante.
Abbracci ai confratelli, Gerry uber alles.
P.S. Un roma(ntico) non può non tifare per la Roma; oppure essere, come me e secondo una efficace definizione di Beppe Severgnini, un inter(tr)iste.
Buona giornata.
ATTENTI A QUEI DUE
Ho visto solo un pezzo, praticamente gli ultimi dieci minuti, dell'atteso duello televisivo Berlusconi-Prodi (ebbene si: c'era Inter-Aiax su sky sport 1!). In compenso ho visto, sentito e letto abbastanza dei commenti del "dopo-partita", anche quelli ironici e divertenti del "Foglio" oggi in edicola, compreso un editoriale che, a proposito delle "frecciatine" di Fini e Casini all'indirizzo del premier declinante, ha evocato un "spirito da 24 luglio".
La mia impressione, anche se mi scoccia dargli ragione, è che il miglior commento sia stato quello di Follini (che assomiglia un po' ad un vecchio fumetto di Carosello, il prof. Kreiskapp, o a un personaggio minore dell'indimenticato "Alan Ford" di Magnus & Bunker).
Follini ha detto che sembrava un incontro tra l'Italia del 1996 e l'Italia del 2001, alludendo a un Prodi e a un Berlusconi fermi alle loro rispettive vittorie.
Non dico che in un confronto televisivo, per giunta per unanime giudizio troppo "ingessato" (non ci si azzardi a evocare le vecchie "Tribune politiche" di Jader Jacobelli, che erano ben altra e mirabile cosa!!!), dovesse emergere chissà quale alta dialettica politico-civile, ammesso che i due personaggi ne siano capaci (di Berlusconi si sa, ma di Prodi forse si dimentica troppo generosamente che era un "boiardo di Stato" demitiano: e come Peppino-Fratello Capone di Totò "Ho detto tutto"!).
Almeno, però, ci si sarebbe figurata un qualche discorso serio di minima consapevolezza dei veri e grandi problemi dell'economia e dell'ambiente, ora più che mai intrecciati, tra "tigri asiatiche", globalizzazioni, crisi energetiche, costi sociali dello sviluppo...
Quanto meno, sarebbe stato esigibile un accenno agli scenari poco confortanti di quest'Italia all'inizio del terzo millenio "advenuto", invecchiamento della popolazione, povertà sociali e culturali, analfabetismo di ritorno, sfascio scolastico e universitario di là dalle riforme morattiane...
Certo non può bastare la melassosa mini-omelia prodiana finale con la pur efficace evocazione di una "felicità" tutta da capire e inventarsi; e men che meno lo sconfortato mugugno berlusconiano contro le "regole" che non gli consentono di sciorinare, come un disco rotto, milioni di dati e cifre per dimostrare che il suo governo non ha fatto solo "leggi ad personam" e che non va poi così male come si dice (e si vede).
E' abbastanza triste, anzi sconfortante, che dieci anni dopo ci ritroviamo al punto di prima: con un confronto elettorale tra Berlusconi e Prodi.
Come sempre aveva visto giusto la vecchia volpe andreottiana (povero Craxi: il divo Giulio non è finito in pellicceria e nemmeno impagliato ma nell'armadio del Senato, e lui, invece, sotto una palata di terra arida di Hammamet).
Il potere logora chi non ce l'ha.
Vale a dire tutti noi, che, salvo andare a fare una gita fuori porta il 9 aprile, ci ritroviamo questi arzilli settantenni o quasi, con i loro abitini grigi, le loro cravatte, i loro speculari entourage, la loro immarcescibile contrapposizione, da lì l'imprenditore che ha fatto i danè, da lì il professore che ha fatto fortuna (si dice in giro che Beniamino Andreatta, di cui Prodi è allievo, lo fulminasse di tanto in tanto con qualche battuta al vetriolo), l'uno e l'altro in questo dejavu tra 1996 e 2001 anteTorrigemelle.
Fortuna che almeno l'Inter si è qualificata, con vista sulla semifinale e sperando di battere la struzzosa Giuve.
Peccato invece per la Roma di Gerardo, che pugnò, vinse ma non abbastanza.
Buona serata confratelli.
La mia impressione, anche se mi scoccia dargli ragione, è che il miglior commento sia stato quello di Follini (che assomiglia un po' ad un vecchio fumetto di Carosello, il prof. Kreiskapp, o a un personaggio minore dell'indimenticato "Alan Ford" di Magnus & Bunker).
Follini ha detto che sembrava un incontro tra l'Italia del 1996 e l'Italia del 2001, alludendo a un Prodi e a un Berlusconi fermi alle loro rispettive vittorie.
Non dico che in un confronto televisivo, per giunta per unanime giudizio troppo "ingessato" (non ci si azzardi a evocare le vecchie "Tribune politiche" di Jader Jacobelli, che erano ben altra e mirabile cosa!!!), dovesse emergere chissà quale alta dialettica politico-civile, ammesso che i due personaggi ne siano capaci (di Berlusconi si sa, ma di Prodi forse si dimentica troppo generosamente che era un "boiardo di Stato" demitiano: e come Peppino-Fratello Capone di Totò "Ho detto tutto"!).
Almeno, però, ci si sarebbe figurata un qualche discorso serio di minima consapevolezza dei veri e grandi problemi dell'economia e dell'ambiente, ora più che mai intrecciati, tra "tigri asiatiche", globalizzazioni, crisi energetiche, costi sociali dello sviluppo...
Quanto meno, sarebbe stato esigibile un accenno agli scenari poco confortanti di quest'Italia all'inizio del terzo millenio "advenuto", invecchiamento della popolazione, povertà sociali e culturali, analfabetismo di ritorno, sfascio scolastico e universitario di là dalle riforme morattiane...
Certo non può bastare la melassosa mini-omelia prodiana finale con la pur efficace evocazione di una "felicità" tutta da capire e inventarsi; e men che meno lo sconfortato mugugno berlusconiano contro le "regole" che non gli consentono di sciorinare, come un disco rotto, milioni di dati e cifre per dimostrare che il suo governo non ha fatto solo "leggi ad personam" e che non va poi così male come si dice (e si vede).
E' abbastanza triste, anzi sconfortante, che dieci anni dopo ci ritroviamo al punto di prima: con un confronto elettorale tra Berlusconi e Prodi.
Come sempre aveva visto giusto la vecchia volpe andreottiana (povero Craxi: il divo Giulio non è finito in pellicceria e nemmeno impagliato ma nell'armadio del Senato, e lui, invece, sotto una palata di terra arida di Hammamet).
Il potere logora chi non ce l'ha.
Vale a dire tutti noi, che, salvo andare a fare una gita fuori porta il 9 aprile, ci ritroviamo questi arzilli settantenni o quasi, con i loro abitini grigi, le loro cravatte, i loro speculari entourage, la loro immarcescibile contrapposizione, da lì l'imprenditore che ha fatto i danè, da lì il professore che ha fatto fortuna (si dice in giro che Beniamino Andreatta, di cui Prodi è allievo, lo fulminasse di tanto in tanto con qualche battuta al vetriolo), l'uno e l'altro in questo dejavu tra 1996 e 2001 anteTorrigemelle.
Fortuna che almeno l'Inter si è qualificata, con vista sulla semifinale e sperando di battere la struzzosa Giuve.
Peccato invece per la Roma di Gerardo, che pugnò, vinse ma non abbastanza.
Buona serata confratelli.
martedì, marzo 14, 2006
Il mostro dietro la porta di casa
Seguo con crescente sgomento la vicenda del rapimento del piccolo Tommaso Onofri e gli oscuri sfondi in cui essa sembra collocarsi.
Nell'arco di una settimana, o poco più, l'attenzione si è concentrata sulla figura del padre, sulle immagini di quell'interrato che, dati i contenuti dell'hard disk dei computer dell'uomo e la presenza di giocattoli, evocano squallidi e sordidi retroscena pedopornografici.
E' curioso e significativo come in pochi giorni si sia passati dal ritratto di una famiglia piccolo-borghese italiana di provincia, coi suoi buoni e raccomandabili valori, alla delineazione di un verminaio di cui spesso la provincia e le famiglie hanno offerto riscontro (e il caso Cogne? e i tanti bambini violati da padri, madri, zii, zie, cugini, conoscenti? e le tante ragazze a loro volta violentate?).
E' affermazione diffusa che la famiglia possa essere patogenetica, che certe dinamiche conflittuali unite a tare caratteriali più o meno profonde possano slatentizzare i più oscuri e torbidi rapporti, che la rispettabilità sociale faccia premio magari sulla denuncia e sulla ricerca di soluzioni tempestive e adeguate.
Tutto vero, drammaticamente vero.
Lo scenario è però più vasto e inquietante, e chiama in causa una scuola che non sa cogliere segnali, lo slabbramento dei rapporti sociali minimi (quante cose avvengono nell'indifferenza di vicini di casa che sanno, ma si fanno i fatti propri), la carenza di mezzi e professionalità nei servizi sociali locali, il ritardo con cui si assumono (quando si assumono) provvedimenti tesi a sottrarre i minori a contesti familiari degradati, magari con le migliori intenzioni di questo mondo e cercando di evitarne la istituzionalizzazione (su cui tanto ci sarebbe da studiare e riflettere).
E più in generale sul banco degli imputati va messa la perdita dei valori e l'orientamento della società civile verso modelli esistenziali dominati dal successo economico e dalla ricerca di scorciatoie verso il medesimo.
Casalbaroncolo, come Cogne, è potenzialmente qui, ora, a fianco, dietro la porta del vicino, magari dietro la nostra porta.
E' questo il pensiero che inquieta di più, non esorcizzabile dalla visione di "Chi l'ha visto" o dei plastici di "Porta a porta", né dalle chiacchiere della compagnia di giro (neuropsichiatri infantili, criminologi, giornalisti, magari magistrati) che cerca di rassicurare e placare un pubblico ad attenzione intermittente.
Nell'arco di una settimana, o poco più, l'attenzione si è concentrata sulla figura del padre, sulle immagini di quell'interrato che, dati i contenuti dell'hard disk dei computer dell'uomo e la presenza di giocattoli, evocano squallidi e sordidi retroscena pedopornografici.
E' curioso e significativo come in pochi giorni si sia passati dal ritratto di una famiglia piccolo-borghese italiana di provincia, coi suoi buoni e raccomandabili valori, alla delineazione di un verminaio di cui spesso la provincia e le famiglie hanno offerto riscontro (e il caso Cogne? e i tanti bambini violati da padri, madri, zii, zie, cugini, conoscenti? e le tante ragazze a loro volta violentate?).
E' affermazione diffusa che la famiglia possa essere patogenetica, che certe dinamiche conflittuali unite a tare caratteriali più o meno profonde possano slatentizzare i più oscuri e torbidi rapporti, che la rispettabilità sociale faccia premio magari sulla denuncia e sulla ricerca di soluzioni tempestive e adeguate.
Tutto vero, drammaticamente vero.
Lo scenario è però più vasto e inquietante, e chiama in causa una scuola che non sa cogliere segnali, lo slabbramento dei rapporti sociali minimi (quante cose avvengono nell'indifferenza di vicini di casa che sanno, ma si fanno i fatti propri), la carenza di mezzi e professionalità nei servizi sociali locali, il ritardo con cui si assumono (quando si assumono) provvedimenti tesi a sottrarre i minori a contesti familiari degradati, magari con le migliori intenzioni di questo mondo e cercando di evitarne la istituzionalizzazione (su cui tanto ci sarebbe da studiare e riflettere).
E più in generale sul banco degli imputati va messa la perdita dei valori e l'orientamento della società civile verso modelli esistenziali dominati dal successo economico e dalla ricerca di scorciatoie verso il medesimo.
Casalbaroncolo, come Cogne, è potenzialmente qui, ora, a fianco, dietro la porta del vicino, magari dietro la nostra porta.
E' questo il pensiero che inquieta di più, non esorcizzabile dalla visione di "Chi l'ha visto" o dei plastici di "Porta a porta", né dalle chiacchiere della compagnia di giro (neuropsichiatri infantili, criminologi, giornalisti, magari magistrati) che cerca di rassicurare e placare un pubblico ad attenzione intermittente.
lunedì, marzo 13, 2006
Gli ultimi romantici erediteranno la terra???
Questa sera sono più pessimista, o meno ottimista, del solito (lo so che non è la stessa cosa, diciamo allora più pessimista della ragione e meno ottimista della volontà, che rende meglio lo stato d'animo).
Nella mia lunga carriera di ultimo romantico mi assalgono, di tanto in tanto, dubbi fondamentali sull'adesione incondizionata (e purtroppo necessitata, perché come ho detto non si sceglie di essere ultimi romantici, lo si è, direi che lo si nasce) al manifesto-articolo di fede che declina lo statuto di questa confraternita laica.
Credo che i confratelli possano testimoniare quali e quanti prezzi si pagano ad essere romantici, e come il mondo "bip bip" se la goda alle tante battaglie che si deve combattere e alle mille ferite sanguinanti che dobbiamo portare sul nostro corpo spirituale.
Beati gli ultimi romantici, si, ma essi erediteranno mai la terra? Oppure la terra appartiene, è occupata, è presidiata dai cinici, pragmatici, furbastri, indifferenti, conformisti, utilitaristi, cazzipropristi?
Temo che si tratti di un tipico interrogativo retorico.
Certo c'é una cosa che agli ultimi romantici non si può portar via: l'identità e il diritto di rivendicarla e affermarla.
Artificio consolatorio? Può darsi ma se non ci si può proprio piegare all'odioso struzzo planetario, almeno proviamo a rendergli la vita un pochino più difficile, finché le gambe reggono e anche al di là dei perniciosi effetti dei marchingegni della ACME.
Buona serata confratelli.
Nella mia lunga carriera di ultimo romantico mi assalgono, di tanto in tanto, dubbi fondamentali sull'adesione incondizionata (e purtroppo necessitata, perché come ho detto non si sceglie di essere ultimi romantici, lo si è, direi che lo si nasce) al manifesto-articolo di fede che declina lo statuto di questa confraternita laica.
Credo che i confratelli possano testimoniare quali e quanti prezzi si pagano ad essere romantici, e come il mondo "bip bip" se la goda alle tante battaglie che si deve combattere e alle mille ferite sanguinanti che dobbiamo portare sul nostro corpo spirituale.
Beati gli ultimi romantici, si, ma essi erediteranno mai la terra? Oppure la terra appartiene, è occupata, è presidiata dai cinici, pragmatici, furbastri, indifferenti, conformisti, utilitaristi, cazzipropristi?
Temo che si tratti di un tipico interrogativo retorico.
Certo c'é una cosa che agli ultimi romantici non si può portar via: l'identità e il diritto di rivendicarla e affermarla.
Artificio consolatorio? Può darsi ma se non ci si può proprio piegare all'odioso struzzo planetario, almeno proviamo a rendergli la vita un pochino più difficile, finché le gambe reggono e anche al di là dei perniciosi effetti dei marchingegni della ACME.
Buona serata confratelli.
sabato, marzo 11, 2006
La cosa più importante...
Moulin Rouge dovrebbe essere un c.d. film cult per gli ultimi romantici; o almeno così mi piace pensare, visto che lo è per me, fondatore di questo blog abbastanza deserto.
Moulin Rouge è un film colorato e visionario, l'unico musical che mi sia mai piaciuto e che non abbia trovato insopportabile come quelli americani degli anni '50 (a parte qualche vecchio film di Fred Astaire e Ginger Rogers, il cui fascino risiede nell'elegante leggerezza della vita che vi traspira tra passi di danza ineguagliabili e in quell'immagine stilizzata e poetica di un'America ottimista e volenterosa ancora vergine dei funghi di Hiroshima e Nagasaki, e i cui ragazzi non immaginavano ancora di buscare pallottole fatali sulle spiagge di Omaha Beach o del Pacifico).
La storia è il racconto retrospettivo di un grande amore tra un giovane scrittore squattrinato di bell'aspetto, buoni e forti sentimenti e grande cuore (un romantico anche lui) e di una fatalona soubrette che reinterpreta il ruolo della cortigiana perduta, adusa al piacere di uomini ricchi, facoltosi, annoiati, fondamentalmente "maiali".
Satin, la stella del Moulin Rouge, scambia il giovane scrittore per la persona di un vizioso e odioso riccastro che dovrebbe finanziare, e poi finanzia in effetti, una grandiosa messa in scena di un musical orientaleggiante, ambientato in una coloratissima India.
Divisa tra l'amore per il giovane squattrinato e la seduzione dell'attempato ganimede, Satin per salvare il primo dalle ire del secondo nega di amarlo, sino a spezzargli il cuore.
Ma l'amore, più forte della violenza del mondo e delle sue prudenze, trionfa alla fine in una splendida dichiarazione cantata a due voci (del giovane e della soubrette) sulle note di una celebre canzone di Elton John (veramente bellissima).
Purtroppo i grandi amori sono sfortunati e non c'è lieto fine: la soubrette muore tra le braccia dello scrittore, sul palco e nel momento del trionfo e del tripudio di folla, consumata dalla tisi.
E al giovane scrittore non resta che raccontare tra le lacrime la storia del suo grande e sfortunato amore, disseminando di pagine dattiloscritte la sua mansardina bohemiene con vista sull'insegna ormai spenta e arrugginita del Moulin Rouge.
Il succo ideologico del film è condensato in una frase che, disincarnata dal contesto, può ricordare i bigliettini dei baci Perugina, e che, nella sua semplicità, invece, rivela la forza della verità, che può apparire banale perché la verità è quasi sempre semplice ed evidente, e sono gli uomini (come genere umano) a complicarla con i loro filtri deformanti.
"La cosa più importante che puoi imparare è amare e lasciarti amare".
Questa è la frase, concentrato estremo della filosofia degli ultimi romantici.
Il film di Baz Lurhmann scorre via come un sogno o una bella favola, con la sua morale finale: il mondo può sconfiggere l'amore, ma l'amore vero sopravvive anche alla morte, e da il senso alla vita.
E' una piccola morale consolatoria?
Forse, ma per quanto piccola e per quanto consolatoria, non è meno vera delle "morali" correnti nel mondo, e di certo è più presentabile.
E su questo rilievo, titoli di coda.
Moulin Rouge è un film colorato e visionario, l'unico musical che mi sia mai piaciuto e che non abbia trovato insopportabile come quelli americani degli anni '50 (a parte qualche vecchio film di Fred Astaire e Ginger Rogers, il cui fascino risiede nell'elegante leggerezza della vita che vi traspira tra passi di danza ineguagliabili e in quell'immagine stilizzata e poetica di un'America ottimista e volenterosa ancora vergine dei funghi di Hiroshima e Nagasaki, e i cui ragazzi non immaginavano ancora di buscare pallottole fatali sulle spiagge di Omaha Beach o del Pacifico).
La storia è il racconto retrospettivo di un grande amore tra un giovane scrittore squattrinato di bell'aspetto, buoni e forti sentimenti e grande cuore (un romantico anche lui) e di una fatalona soubrette che reinterpreta il ruolo della cortigiana perduta, adusa al piacere di uomini ricchi, facoltosi, annoiati, fondamentalmente "maiali".
Satin, la stella del Moulin Rouge, scambia il giovane scrittore per la persona di un vizioso e odioso riccastro che dovrebbe finanziare, e poi finanzia in effetti, una grandiosa messa in scena di un musical orientaleggiante, ambientato in una coloratissima India.
Divisa tra l'amore per il giovane squattrinato e la seduzione dell'attempato ganimede, Satin per salvare il primo dalle ire del secondo nega di amarlo, sino a spezzargli il cuore.
Ma l'amore, più forte della violenza del mondo e delle sue prudenze, trionfa alla fine in una splendida dichiarazione cantata a due voci (del giovane e della soubrette) sulle note di una celebre canzone di Elton John (veramente bellissima).
Purtroppo i grandi amori sono sfortunati e non c'è lieto fine: la soubrette muore tra le braccia dello scrittore, sul palco e nel momento del trionfo e del tripudio di folla, consumata dalla tisi.
E al giovane scrittore non resta che raccontare tra le lacrime la storia del suo grande e sfortunato amore, disseminando di pagine dattiloscritte la sua mansardina bohemiene con vista sull'insegna ormai spenta e arrugginita del Moulin Rouge.
Il succo ideologico del film è condensato in una frase che, disincarnata dal contesto, può ricordare i bigliettini dei baci Perugina, e che, nella sua semplicità, invece, rivela la forza della verità, che può apparire banale perché la verità è quasi sempre semplice ed evidente, e sono gli uomini (come genere umano) a complicarla con i loro filtri deformanti.
"La cosa più importante che puoi imparare è amare e lasciarti amare".
Questa è la frase, concentrato estremo della filosofia degli ultimi romantici.
Il film di Baz Lurhmann scorre via come un sogno o una bella favola, con la sua morale finale: il mondo può sconfiggere l'amore, ma l'amore vero sopravvive anche alla morte, e da il senso alla vita.
E' una piccola morale consolatoria?
Forse, ma per quanto piccola e per quanto consolatoria, non è meno vera delle "morali" correnti nel mondo, e di certo è più presentabile.
E su questo rilievo, titoli di coda.
MANIFESTO DEGLI ULTIMI ROMANTICI
Gli ultimi romantici, come i bambini, non capiscono il mondo degli adulti, meglio non capiscono come gli adulti possano dissociare i loro comportamenti dalle loro passioni, in funzione più o meno utilitaristica.Gli ultimi romantici, come i bambini, non hanno vere malizie e dicono quello che pensano e sentono senza curarsi che ciò corrisponda ai loro interessi.Gli ultimi romantici pensano che possa e debba esistere una unità di vita tra cuore e ragione, poiché non sono capaci di dissociazioni che vedono come schizofreniche.Essere ultimi romantici è un privilegio e una dannazione perché si soffre infinitamente di più.Ma non si sceglie di essere ultimi romantici, lo si è.
una confraternita?
Ho attraversato in auto un pezzo della penisola, dal tirreno all'adriatico, tornando da Roma, in una giornata freddina e uggiosa, tra pioggia (molta)e neve (abbastanza, sia pure su un solo pezzo di Irpinia).Come dice la splendida canzone di Ornella Vanoni "E' uno di quei giorni in cui ti prende la malinconia...", e questo è infatti il mio stato d'animo; detto altrimenti con Guccini "la tristezza poi ci avvolse come miele".Tra malinconia e tristezza la differenza dovrebbe essere presumo di genere e non di specie; la malinconia è uno stato d'animo, un suo modo di essere; la tristezza un sentimento; la seconda passa come una febbricola, la prima rimane come una malattia cronica.Visivamente se la tristezza è miele o melassa, la malinconia è una colata di cemento, la prima si lava via, dalla seconda non ci si libera, e rompere il cemento dall'interno non è affatto facile.Clinicamente la malinconia ora si chiama depressione, ma non sono persuaso che sia solo un fatto di mediatori chimici dei neurotrasmettitori celebrali; i geni c'entrano sempre, ovvio, ma si è solo predisposti, il resto lo fa la vita con le sue ferite più o meno profonde, alcune cicatrizzabili, altre no, o non più quando riaperte.Poi, oltre i geni e la vita, il resto lo fa anche la volontà e la sua attitudine a piegarsi, flessibile come un giunco all'onda o rigida sino a spezzarsi come un tronco d'albero alla furia mostruosa degli elementi naturali.Temo che gli ultimi romantici abbiano tutti un fondo di malinconia, e in definitiva un vero problema di disadattamento alla vita.Non potendo adattarsi alla vita si sforzano di adattare la vita a se, e non ci riescono perché la vita non dipende solo da se ma dagli altri, normalmente dissonanti salvo autentici miracoli.I confratelli romantici possono solo salutarsi riconoscendosi, come monaci in un chiostro claustrale, ma ciascuno deve recitare le proprie giaculatorie e portare sotto il saio il cilicio penitenziale.Certo immaginare Wilecoyote vestito da frate fa sorridere; ma chissà che con quel travestimento non riesca a fermare un incuriosito Bip Bip, e a fulminare l'odioso struzzo.Che ne dici Wil? Taciturno sotto una rupe a baloccarti coi marchingegni della ACMA?
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